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Autore: Rei_    15/12/2015    7 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Trovò Andreani solo dopo aver chiesto a diversi commessi dove fosse. Si era rifugiato sul tetto del palazzo ed era appoggiato al muretto, con in bocca la sigaretta. Sembrava che tutto l'impeto di rabbia esploso poco prima fosse ormai cessato, anche se tamburellava con il piede ripetutamente in un tic nervoso.
Michele gli si avvicinò senza sapere cosa dire. Il silenzio gli fischiò nelle orecchie per diversi minuti, ma alla fine fu Nicolò a parlare per primo.
«Credi che abbia esagerato?»
«Non lo so» ammise lui.
Ci aveva pensato su per un po'. Forse, con un po' di coraggio in più, avrebbe fatto lo stesso anche lui, anche solo per prendersi una soddisfazione davanti a quelle persone. Ma lui era Michele Martino e non era realmente capace di fare una cosa del genere.
«Beh, comunque non sono affatto pentito» precisò Andreani, «se me ne sono andato è stato solo per risparmiare quei poveretti, perché un minuto in più là dentro e mi sarebbero partite le mani. Gente ipocrita e vigliacca!»
Buttò la cicca della sigaretta giù dal tetto. Michele non riuscì a vedere dove atterrò.
«Immagino che non hai intenzione di andare in aula allora» disse Michele. Quel giorno ci sarebbe stata la prima votazione sulla prima legge della Carta Antifascista di Sinistra Democratica, praticamente uno dei momenti più importanti di quella legislatura.
Nicolò gli rivolse uno sguardo verde che lasciava intendere quanto l’idea di comparire in aula non gli passasse nemmeno per la testa.
«Tu hai davvero voglia di sederti vicino a quelle persone che ti hanno appena mancato di rispetto?»
Michele abbassò gli occhi. Di voglia non ne aveva proprio, ma di senso del dovere un po’ sì, nonostante tutto.
«È una legge importante, non è il caso di mettere davanti l’orgoglio». Fece per andarsene, ma non riuscì a muovere un passo. Vide se stesso dentro l'aula, seduto sul suo banco, circondato da chi prima aveva riso alle sue spalle, e sentì lo stomaco ribollirgli.
«Fai come ti pare, io non ho intenzione di muovermi da qui. Non mi importa dell’orgoglio, semplicemente non voglio condividere lo stesso spazio con quella gente» ribadì Nicolò.
Michele fissò i suoi occhi e fissò le scale. Per la centesima volta era indeciso sul da farsi, e la causa erano di nuovo i modi di fare di quell’uomo. Solo lui sembrava capace di scuotere il suo mondo, annientare le sue certezze.
«Non ho ancora deciso se ci andrò o no».
 
 
*
 
 
La luce del tramonto filtrava dalle finestre.
A Roma i tramonti invernali visti dall’alto erano spesso tinti di un rosso acceso, ma quella sera invece l’ultima luce del giorno era di un chiarore fastidioso.
In mezzo a quella luce bianca le figure che gli comparivano davanti agli occhi erano sfocate, delle ombre. Uomini e donne vestiti eleganti camminavano dentro il suo ufficio, quell’enorme stanza dove da qualche mese vi lavorava in qualità di segretario di partito.
Camminavano e parlavano tra loro, con dei finti sorrisi dipinti sulle facce cadaveriche. Marchesi li osservava con scarso interesse. Sapeva che prima, molto prima, era anche lui come loro. I primi giorni credeva di essere felice per essere arrivato fino a quel punto. Per la seconda volta era entrato in Parlamento, ma questa volta lo aveva fatto da segretario di un partito non più insignificante, che finalmente si preparava ad approdare al governo, dalla parte di chi decideva.
Ma ora non aveva più nemmeno l'ombra di quella gioia autentica carica di aspettative.
«Piantatela di sorridere. Tanto lo so che non siete realmente felici» mormorò a bassa voce alle ombre. Ovviamente non lo stavano ascoltando, perché non erano reali. Erano solo nella sua testa, per quanto fastidiose.
«Poveri scemi» mormorò di nuovo, ostentando la sua supremazia su quelle anime vuote e finte, non potendo togliersele dalla vista.
«Neanche tu sei felice» gli sussurrò una delle ombre.
Marchesi ebbe uno scatto involontario. Non si aspettava di sentire qualcuno parlare. Di solito nessuna ombra gli parlava.
«Non è vero» rispose, alterato dall'insolenza di quella specie di fantasma della sua mente.
«Sei solo invidioso» parlò di nuovo l'ombra, che poi scoppiò in una risata spettrale, «vuoi solo dimenticare ma non puoi, è per questo che ti fai come un dannato».
«Ti sbagli» ribatté di nuovo Marchesi, ma ormai aveva perso ogni traccia di convinzione. L'ombra aveva ragione, e non poteva essere diversamente, perché apparteneva a lui, al suo inconscio.
«Non mi sono mai sbagliato su di te».
La voce si era fatta più chiara, più giovane, quasi dolce, e ora Marchesi riusciva a riconoscerla. I suoi occhi si sbarrarono mentre camminava istintivamente all'indietro, nel vano tentativo di sfuggire all'immagine che avrebbe visto di lì a breve.
«Francesco?»
Desiderò chiudere gli occhi per far sparire quell'ombra all'istante, ma non lo fece. Forse per paura, forse per un remoto desiderio di rivederlo. Non lo sapeva neanche lui.
L'ombra arrivò a pochi centimetri da lui e il volto lentamente prese forma, esattamente come se lo ricordava l'ultima volta che lo aveva visto. Il viso cadaverico, gli occhi fuori dalle orbite, il naso rotto, il labbro tagliato in più punti e cosparso del sangue che usciva copiosamente dalla bocca. Le guance erano solo due enormi macchie blu, le orecchie due buchi sanguinolenti.
Marchesi restò paralizzato dal terrore mentre il liquido rosso riempiva ogni centimetro dell'immagine di quello che un tempo era stato il corpo di un giovane ragazzo.
«No, vattene!» urlò.
Chiuse gli occhi e fece uno scatto indietro, ma inciampò in una sedia e cadde disteso per terra, urlando con tutto il fiato che aveva.
Era sdraiato sul pavimento, ma aveva comunque l'impressione di cadere nel vuoto. Le ombre erano sparite, ma l'immagine di Francesco con il volto tumefatto continuò a restare fissa sotto le sue palpebre. Sentì il forte impulso di vomitare, ma riuscì solo a sputare della saliva. Quel giorno non aveva toccato cibo, anche volendo il suo stomaco non aveva niente da rigettare.
La porta si aprì senza che se ne rendesse conto. Forse erano passati minuti, forse ore. Sapeva di non avere alcuna cognizione del tempo in quelle condizioni.
«Bevi».
Deglutì da un bicchiere un liquido zuccherino. Conosceva quella voce, sapeva che poteva fidarsi ciecamente.
«Ce la faccio da solo» mormorò come al solito, prendendo il bicchiere tra le mani tremanti.
«Se fosse così non avrei le chiavi del tuo ufficio» sorrise pazientemente Pasqui, pulendosi gli occhiali nella camicia.
«Non te le ho date per questo. Mi hai sentito urlare?» si informò Marchesi, cercando di controllare il suo corpo per mantenere almeno una posizione seduta che non sembrasse ridicola.
«No. Sono passato solo per controllare la situazione e ti ho trovato per terra. È appena finita la seduta, se ti interessa».
Riccardo sospirò pesantemente. Non vi aveva partecipato quel giorno, e dopo il litigio con il capogruppo non lo aveva nemmeno avvertito. Era la prima volta che saltava una seduta quando era in discussione una delle Leggi Antifasciste, e aveva saltato proprio la più importante. Marcello non lo avrebbe mai perdonato.
«Te lo si legge in faccia che vorresti tirarmi un ceffone».
Il capogruppo non si scompose. Lo fissò inespressivo mentre lo sosteneva con un braccio.
«Hai indovinato. Ce la fai a tirarti su?»
Accettò il sostegno dell'amico e si alzò sulle gambe. A malapena riuscì a reggersi per pochi secondi, prima di ricadere a peso morto sulla stessa sedia che prima lo aveva fatto inciampare.
«So gestire queste situazioni, non ho bisogno di aiuto».
Il capogruppo annuì con scarsa convinzione. Tirò fuori dalla borsa una scatolina, mettendogli una pastiglia nella mano. Marchesi la riconobbe subito, gli era anche fin troppo familiare.
«Farò in modo che nessuno venga a disturbarti. Naturalmente, non pensare neanche per un istante di essere scusato per oggi» avvertì severamente mentre girava i tacchi per uscire.
Marchesi ingoiò la pasticca. Il suo corpo si rilassò in automatico, cosciente che da lì in poi sarebbe stato meglio.
«L'ho rivisto. Mi ha parlato» mormorò infine il segretario.
Non sapeva se il suo amico avrebbe raccolto quelle parole o le avrebbe considerate gli ultimi deliri di un pazzo, ma non sentì lo scatto della porta che veniva chiusa, segno che Pasqui lo stava ancora ascoltando.
Pasqui lo fissò severamente.
«Lui non esiste più».
 
 
*
 
 
Il sole tramontava in lontananza dal tetto di Montecitorio, inabissandosi tra le guglie in una sfumatura di grigio invernale. Da quando Nicolò era salito lassù, era riuscito a buttare a terra almeno venti mozziconi di sigaretta. Ogni volta che era salita una persona per chiedere a lui e a Martino di scendere ne aveva accesa una, e al quarto invito anche il giovane di SD aveva accettato di farsi offrire una Marlboro Light, tossendo forte non appena il fumo gli percorreva la trachea.
Dopo qualche ora avevano entrambi perso il conto delle persone che erano salite per convincerli ad entrare in aula. Si alternavano deputati del Fronte a deputati di SD, chi con toni docili, chi con parole intrise di rancore. E uno appartenente proprio a quest'ultima categoria era Chiarelli, il suo vicecapogruppo.
«Non so per quale motivo ti è salita quest'assurda regressione infantile, Andreani, ma vedi di rientrare in aula immediatamente!» aveva urlato con il tono più severo di cui era capace.
Nicolò non aveva fatto una piega. Si era sempre divertito a mostrarsi calmo di fronte a persone infuriate, era il suo modo di dire che non gli importava niente di ciò che gli dicevano.
«Cosa credi, che non ti abbia visto ridere? Fai pena. Hai una bella faccia tosta a venire a parlarmi» aveva risposto placidamente.
«Cazzo!» aveva imprecato Chiarelli, gesticolando nervosamente, «sei stupido o cosa? Per questo te la prendi? Dovresti saperlo che certi giornali si nutrono di queste stupidaggini! Dovresti anche essere maturo abbastanza per fartene una ragione e riderci su anche tu! Ti ricapiterà altre cento volte, e non accetto che ti comporti ogni volta come un ragazzino!»
«Uh, così mi ferisci!» aveva riso di gusto, «senti Chià, ti consiglio di andartene. Io e il mio collega qua abbiamo da fare, stiamo fabbricando altre foto per i giornaletti».
«Tutti si accorgeranno che non ci sei. Sia gli altri partiti, sia i giornali, sia i fotografi. Faremo una figura di merda, e sarà tutta colpa dei criceti che ti trovi nel cervello. Consideralo il tuo ultimo giorno da capogruppo».
Non si curò di quella minaccia. Anche se fosse stata vera gli importava relativamente: da quando era capogruppo aveva solo grane e lavoro in più, oltre ad una maggiore visibilità sui media che ora iniziava a dargli fastidio, visti i risultati.
Il problema più grande invece fu quando salirono Thomas Greco e Gianmaria Scano, due deputati della corrente di Martino.
«Michè…» aveva iniziato Thomas, cercando di continuare la frase in mille modi senza successo, perché lo sguardo con cui Michele rispondeva era serio e gelido, «sappiamo come ti senti per quello che è successo, non intendiamo giustificare i nostri colleghi, ma la discussione in corso è importantissima, non puoi mancare assolutamente! Pasqui è già incazzato perché Marchesi non si è fatto vedere e non è nelle condizioni ideali per fartela passare liscia».
Martino però non si era lasciato convincere. Aveva sorriso ai suoi due colleghi, senza far intendere se fosse per sbeffeggiarli o per compatire il loro inutile tentativo.
«Grazie, ma accetterò le conseguenze. Non penso di essere capace ora di votare insieme a chi, prima, ha deciso di ridermi in faccia». Nicolò aveva sorriso, stupito di sentire quelle parole, forse le prime davvero sincere che Martino aveva mai pronunciato dentro quel palazzo. Thomas aveva insistito, promettendogli che se qualcuno avesse provato anche solo a ridere di lui lo avrebbe pestato con le sue mani, ma l’altro aveva declinato anche quell'offerta.
Per tutte quelle ore, Michele e Nicolò non si erano mossi da quel tetto, passando il tempo fumando sigarette e ascoltando musica alla radio, evitando ogni notizia che riguardasse il Parlamento o la politica. Avevano entrambi il bisogno primario di distrarsi da quel mondo, che ora sembrava così ostile.
«Sono le diciotto in punto e Pasqui non è ancora salito» annunciò Andreani, quasi sconsolato per la scena divertente che si erano persi
«penso che fumerò un'altra sigaretta». Michele gli lanciò il pacchetto.
«Già, a quanto pare è troppo arrabbiato anche per venire a insistere. Ora avranno finito, comunque».
Dopo pochi minuti, infatti, la porta esterna si spalancò di nuovo, facendo entrare tre deputati di Sinistra Democratica, che Andreani conosceva solo di viso. Riconobbe subito una delle facce, presente quella mattina al bar.
«Hai tradito il tuo partito, non ti vergogni?» iniziò uno. Martino sbuffò per la centesima volta in quella giornata. Restò appoggiato al tetto e guardò giù, fingendo di non sentire.
«Sta parlando con te. Pensi di farci una bella figura? Sei un parlamentare, non sei al liceo!» rincarò un altro.
Di nuovo, Michele non rispose. Chiese un’altra sigaretta a Nicolò per avere una scusa per non parlare e lui gliela offrì abbozzando un sorriso divertito. Quell'attività di cacciare con vari modi tutti quelli che salivano lassù stava quasi compensando l’amarezza della giornata.
«Frocio» borbottò acidamente il terzo ai due colleghi. Nicolò squadrò il tizio con odio mentre Michele continuava imperterrito a fissare la strada.
«Ripetilo davanti a me. Penso di aver sentito male» scandì lentamente, avvicinandosi a lunghi passi a quel gruppo di onorevoli. Era serio, abbastanza da incutere un certo timore, anche se era da solo contro tre. I deputati di SD si guardarono tra loro e andarono via.
«Simpatici» scherzò Nicolò, tornando vicino a lui, «soprattutto coraggiosi. Come devono essere i geni che li hanno votati, immagino».
Martino tornò a sedersi per terra. Non sembrava dell'umore di scherzare.
«Non dirmi che te la sei presa!»
In tutta risposta, il giovane abbassò lo sguardo.
«Ma dai, non ne vale la pena, hai visto che sono dei coglioni» sbottò Nico, «comunque, adesso ci ordiniamo una bella pizza, perché io sto morendo di fame, e di sicuro non ho voglia di scendere a mangiare insieme a quei minorati mentali».
Michele lo fissò stranito mentre componeva il numero di telefono del suo ufficio. Nicolò però non stava affatto scherzando.
 
 
*
 
 
La pizza arrivò tiepida e in ritardo, ma entrambi avevano talmente tanta fame e freddo che non si lamentarono.
Michele si dimenticò in fretta di essere un parlamentare, di essere seduto per terra sul tetto di palazzo Montecitorio e di avere tra le mani il cartone di una pizza di asporto. Mangiò come non aveva mai fatto in vita sua, senza avanzare nemmeno una crosta, e in quel momento gli sembrò che quella fosse la pizza più buona che avesse mai mangiato.
Ad un certo punto, fecero la loro comparsa Giorgio e un altro parlamentare del Fronte, uno dei tanti giovani del partito, con un aspetto ribelle simile a quello di Nicolò.
«Freschino quassù» commentò subito Giorgio, sporgendosi dal muretto, «non avete freddo?»
Michele riuscì a vedere Nicolò lanciargli uno sguardo sospettoso, come a dirgli: vieni-al-dunque.
«No Andrè, non ti farò la predica. Non oggi almeno» sorrise Giorgio Iannello, «Martino, tutto a posto? La febbre?» chiese gentilmente.
«Passata» sorrise Michele.
«Ottimo!» rispose Giorgio, accovacciandosi sulle ginocchia «ho pensato che avreste avuto sete» sorrise gioviale, indicando il sacchetto stracolmo che aveva in mano.
Andreani non si fece pregare. Tirò fuori una delle bottiglie e la aprì facendo leva sul muretto del tetto. Il tappo schizzò giù e la schiuma della birra si riversò un po' ovunque.
«C'è il cavatappi, genio!» intervenne l'altro deputato del Fronte, mentre offriva una birra a Michele.
«Con questo non significa che condivido le vostre azioni» si affrettò a precisare Giorgio, senza però alcuna durezza nella voce, «significa solo che comprendo le vostre ragioni, e non trovo alcuna giustificazione dietro l'atteggiamento dei nostri colleghi. Volendo, potreste sporgere querela contro il giornale».
Michele restò a fissarlo, incredulo. Dopo una giornata dove entrambi erano stati ripetutamente rimproverati per la scelta di non entrare, le parole di quell'uomo erano una piacevole ventata d'aria fresca.
«Macché Giò, non servirebbe a niente. Li lasciamo nuotare nella loro mediocrità».
«Esatto» concordò Michele, che di certo non aveva voglia di far continuare quella storia offrendo altri pretesti. Prese anche lui una birra, la aprì e ne svuotò metà in un sorso.
«Anvedi Martino!» rise Giorgio, «una giornata con te e si è trasformato!»
«Ma va! Sta solo mostrando la sua vera natura!»
Gli strizzò l’occhio. Michele singhiozzò dopo aver bevuto tutta quella birra in un fiato. Non era realmente abituato all’alcool, ma in quel momento lo poteva aiutare a dimenticare la giornata.
La notte avanzò mentre le bottiglie vuote di birra si aggiungevano alle altre, allineate contro il muro. Michele iniziò a provare un senso di vertigini ogni volta che chiudeva gli occhi. Rideva in continuazione, mentre i discorsi si facevano via via più frivoli, mano a mano che il tempo passava e l’alcool saliva.
Quando salì un commesso per dirgli che il palazzo avrebbe chiuso a momenti, celando lo sguardo di disgusto dietro il solito contegno istituzionale, il gruppo scese le scale barcollando.
«Quello ci ha pure chiesto scusa!» biascicò Nicolò, «perché non si possono permettere di dirci qualcosa, perché siamo deputati. Capite? In che posto di merda siamo finiti!»
I due del Fronte ridacchiarono e Michele non rispose. Faceva già una fatica immane a trascinarsi nel corridoio.
«Oh, non mi svenire di nuovo!» scherzò Nicolò, reggendolo con un braccio, «che sennò ci becchiamo l’editoriale di Repubblica a ‘sto giro».
«Repubblica! Bel colpo, Repubblica!» rispose sconnessamente lui.
«S’è ‘mbriacato, ragazzi!» rise Nicolò.
«Mi gira la testa» si lamentò Michele, ridendo anche lui della sua condizione ridicola.
«Hai bevuto troppo» rispose Nicolò, «senti, prendo il taxi con te. Tanto ormai sputtanati siamo sputtanati, tanto vale che arrivi a casa senza problemi».
Il taxi arrivò in fretta e il deputato di SD dovette ripetere per tre volte la via per farsi capire, e alla prima curva cadde addormentato tra i sedili.
«Ehi» lo scosse l’altro, «non stare sdraiato, non va bene se hai bevuto. Lo dico per te».
Fu l’ultima cosa che ricordò di quella notte, prima di crollare di nuovo con la testa schiacciata contro il finestrino.
 
 
*
 
 
Michele dormiva silenziosamente, con ancora i vestiti addosso. Nicolò era rimasto a controllarlo per almeno due ore, per essere sicuro che non vomitasse. Aveva preferito entrare anche lui nel suo appartamento, dal momento che l’altro non era riuscito nemmeno a infilare le chiavi nella toppa, e alla fine aveva deciso di restarci a dormire, essendo già molto tardi e non avendo voglia di chiamare un altro taxi per farsi mezza Roma. Probabilmente l’altro era così intontito che si sarebbe accorto solo la mattina dopo che c’era anche lui in casa, il che rendeva la situazione quasi divertente.
La luce che entrava dalle finestre rivelava tutti i contorni della stanza, molto più povera di oggetti rispetto alla sua. Annoiato e sprovvisto di sonno, si aggirò silenziosamente tra gli scaffali. La camera di Michele era veramente sgombra. Non c'era quasi niente, solo una scrivania con un PC, un armadio, una televisione e un ripiano colmo di libri. Lesse qualche titolo, notando che per la maggior parte erano saggi di politica. Alcuni, quelli dalla copertina più malridotta, erano classici della letteratura: Verga, Pavese, Pirandello e altri, nomi che Nicolò aveva sentito per l'ultima volta al liceo.
Un raccoglitore più spesso degli altri attirò la sua attenzione. Era di color mattone, con la copertina di un cartone spesso.
Lo prese in mano, scoprendo foto di Michele ai tempi dell'università. Le persone ricorrevano nelle foto, in particolare Arturo Costa in vari momenti della campagna elettorale e un uomo con una folta barba scura dentro un ufficio disordinato. In quelle foto, Michele non sorrideva praticamente mai. O meglio, aveva quel suo solito sorriso finto che mostrava sempre.
Dall'album cadde una busta gonfia. Nicolò la raccolse subito, controllando che Michele stesse ancora dormendo. La busta non era sigillata. Dentro c'erano dei fogli a righe ripiegati uno dentro l’altro. Vinto dalla curiosità, accese la torcia del cellulare per leggere.
La calligrafia era piccola e ordinata, senza sbavature.
 
“Caro Antonio,
come stai? Mi fa uno strano effetto scriverti una lettera. Sono a Palermo solo da tre mesi, ma mi mancate già tutti e non vedo l’ora di venire a trovarvi, anche se mi piace tanto studiare qui. Convincere i miei genitori a iscrivermi non è stato semplice, come tu sai bene. Ora mi sto cercando di arrangiare con qualche lavoretto, ma l'aria che si respira qui odora di mafia da tutte le parti.
A proposito, alla prima lezione è venuto Arturo Costa a parlarci. Tu l'hai mai conosciuto? Qua sembra essere molto popolare. Viene spesso in università ed è un uomo dalla cultura eccezionale. Sono contento di averlo incontrato, magari potremmo invitarlo al circolo. Comunque, non ti sto scrivendo solo per raccontarti della mia vita a Palermo. Sono altre le cose che sento l'urgenza di scriverti, e che in tanti anni non ho mai avuto il coraggio di dirti di persona. Anzi, penso che se non ti invio oggi stesso questa lettera non avrò mai la forza di farlo, quindi spero capirai quanto mi pesano queste parole. Per favore, non preoccuparti per quello che leggerai. Te lo sto scrivendo in un momento molto brutto per me, ma è solo un momento. Non voglio che ti preoccupi inutilmente, non c'è davvero nessun motivo per cui tu debba farlo, anzi, se puoi, non rispondere nemmeno a questa lettera. Vorrei che tu la leggessi e basta, solo questo. Non ho mai raccontato a nessuno nulla di ciò che sto per raccontarti, e penso che non lo dirò mai a nessun altro, ma non pensare che è per mancanza di fiducia. Voglio molto bene a Serena, a Gennaro, a Totò, che mi ha sempre spronato a continuare sulla strada della politica, ma non voglio mostrare questo lato di me. Vorrei continuare a essere quel ragazzo che tutti voi avete sempre conosciuto. So che mi capirai.
Ricordi il primo giorno in cui ci siamo conosciuti? Io lo ricordo benissimo, soprattutto perché diluviava ed ero in giro senza ombrello quando sono entrato nel circolo di Cutro per la prima volta. Non sai quanto vi sono ancora grato ancora per avermi fatto entrare. Penso che tu l'abbia intuito, perché sono stati tanti i pomeriggi in cui sono venuto a studiare in sezione: non c’era un bel clima in famiglia. Mio padre aveva il vizio di sfogare la sua rabbia su di me. Comandava lui in casa e se qualcosa non gli piaceva di come ti comportavi era la fine. Con gli anni la situazione si è un po' allentata, ma quando avevo quattordici anni ricordo che avevo sempre paura di tornare.
Alle scuole medie è successo più di una volta che sono stato picchiato per aver saltato la scuola. So che difficilmente crederai al fatto che marinassi la scuola, visto che mi hai visto studiare molte volte e conosci bene le mie pagelle, ma prima che tu rimanga deluso ti voglio spiegare perché lo facevo.
Qua a Palermo si cita molte volte una frase di Paolo Borsellino, che dice: “chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Penso sia una grande verità. Io ho vissuto ogni giorno, per anni, con una costante paura. Ma non una di quelle paure che hai un giorno e poi ti passa. È stata una paura che mi ha immobilizzato e che ha continuato ad ossessionarmi. Forse la mia storia sarà simile a tante altre. So bene di non essere l'unica persona ad avere vissuto cose del genere, ma non passa un giorno in cui non mi chieda il perché di tutto questo.
È iniziato tutto alle elementari. Sono sempre stato scarso il più scarso tra i maschi negli sport, e alcuni bambini avevano iniziato a prendermi in giro. La cosa mi dava fastidio, ma per tutti era normale che da piccoli si facciano e si dicano cattiverie. Nessuno lo chiamava bullismo, per i maestri erano giochi e basta. A volte, durante l'ora di ginnastica, mi tiravano apposta il pallone in faccia, ma ancora non immaginavo quello che sarebbe successo gli anni dopo.
In prima media, sempre gli stessi ragazzi mi chiesero di fargli copiare un compito in classe. Negli sport ero negato, ma sapevano tutti che ero bravo a scuola. Non glielo lasciai fare, perché lo ritenni scorretto. Fuori dalla classe, mi picchiarono per la prima volta. Due mi tenevano immobilizzato, un altro mi tirava calci nello stomaco.
Ancora lo ricordo vividamente. Nessuno lo seppe mai.
Però, lì non avevo ancora paura. Era stato solo un caso e non l'avrebbero più fatto, pensavo, perché era rischioso: un insegnante avrebbe potuto notarli facilmente, anche se quella volta l'avevano passata liscia.
Invece, quella situazione andò avanti. Prima accadeva solo quando mi rifiutavo di far copiare i compiti, perché nonostante sapessi che mi avrebbero picchiato non volevo cedere. Dopo un po', invece, diventò quasi uno svago per loro. Lo facevano anche alla fermata dell'autobus, e lì mi accorsi in fretta che nessuno degli altri ragazzi mi avrebbe difeso. Ridevano e basta, guardando un povero bambino che veniva spintonato per terra ogni volta che si rialzava.
A volte mi chiedo se, al loro posto, mi sarei aiutato o avrei fatto come loro. Non mi so dare una risposta. Non li voglio incolpare, è difficile non seguire il branco, soprattutto quando si è ancora piccoli, però sarebbe bastato uno solo. Uno che fosse stato dalla mia parte, anche solo a parole.
Ma la cosa peggiore accadde a dicembre di quello stesso anno, quando mi rinchiusero per scherzo dentro ad uno sgabuzzino. Pensavo che mi avrebbero tirato fuori subito, ma mi sbagliavo. Non sono mai stato claustrofobico, ma lo spazio era stretto e dopo mezz'ora iniziai a sentire l'aria mancare.
Mi lasciarono lì l'intera giornata. Fu il custode a trovarmi dentro, quando stava chiudendo la scuola. Ricordo chiaramente la paura che provai ogni singolo minuto di morire soffocato. Sei ore erano sembrate sei giorni. Nessuno della mia famiglia sembrò comprendere appieno tutto quello che mi trascinai dietro dopo quella volta.
Attacchi di panico, incubi, paure improvvise. Dormivo due ore a notte, mangiavo pochissimo, marinavo la scuola per la paura di tornare in quello sgabuzzino, non riuscivo più a stare in luoghi chiusi o bui. Mi inventavo dei metodi per non dormire, perché dormendo i miei sogni erano sempre vuoti, spaventosi, oscuri. A scuola, ogni tanto, avevo attacchi di panico improvvisi, e tutti pensavano fosse l'ansia per l’interrogazione. Nessuno ha mai saputo la verità.
Gli insegnanti parlarono con i miei genitori, che mi portarono da uno psicologo. Ressi la bugia della paura delle interrogazioni, perché dire la verità era troppo doloroso. Mio papà sapeva che ero stato chiuso in uno sgabuzzino, sapeva che mi prendevano di mira. Voleva che mi difendessi da solo, ma non ne ero in grado, e mi dava la colpa per ciò che subivo.
Mi vennero prescritti dei farmaci. Gli attacchi di panico finirono, e da lì iniziai a diventare apatico e spento. Con il passare dei mesi, mi accorsi che non riuscivo più a sorridere. Un giorno, un mio compagno di classe fece una battuta che fece ridere tutti, persino il professore. Io cercai di ridere, ma mi uscì solo una smorfia poco convinta. Trovavo divertente la battuta ma, per qualche motivo, non riuscivo ad esprimere ciò che provavo.
Smisi anche di piangere. Continuavo a essere preso di mira, quando non ero abbastanza svelto per scappare, ma cercavo di non mostrare segni di cedimento. Una volta riuscirono a slogarmi un braccio e per un po' dovetti nasconderlo a tutti per la mia paura di chiedere aiuto. È un altro dei miei incubi ricorrenti.
Se ora ci ripenso, credo che sia stato grazie al circolo, alla politica e al vostro affetto che tornai lentamente a sorridere. Ma non fu facile, perché ormai avevo passato troppi anni dentro quella bolla di odio, e solo quando diventai maturo mi accorsi di quanto mi aveva cambiato. In quarta superiore ho smesso i farmaci. Volevo smettere di essere dipendente da quella roba, sapevo che mi toglieva un pezzo di me stesso, e invece ora sono tornato a prenderli. Pensavo di aver superato tutto questo, e invece questa notte sono finito di nuovo dentro quello sgabuzzino. Quell’inferno continua ad inseguirmi anche qui.
Mi serve aiuto, lo so, forse dovrei andare da uno psichiatra. Ma non posso ammettere a me stesso di dover ricominciare ad affrontare tutto. Ora che sono un po' cresciuto, so che avrei potuto difendermi da piccolo, e se lo avessi fatto ora sarebbe diverso. Avevo dei genitori e degli insegnanti e, se non vedevano, io avrei potuto convincerli in qualche modo. Ma ho avuto troppa paura anche per fare questa semplice cosa che mi avrebbe salvato.
Qualche prepotente è riuscito a togliermi tutte le cose belle che avrei potuto vivere e che invece non avrò mai vissuto, tutti quei ricordi piacevoli che hanno gli altri della loro infanzia. È questa consapevolezza a farmi più male dei ricordi.
Però, Antonio, non voglio che tu faccia niente per me. Mi dispiace di averti turbato. Non era questa la mia intenzione. Ti ho scritto solo perché”
 
La lettera si interrompeva con quella parola. La fine del foglio aveva l'inchiostro sbavato, come se ci fosse caduta sopra dell'acqua.
Acqua salata. Lacrime.
   
 
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