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Autore: Sheep01    16/12/2015    2 recensioni
“Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, prima o poi.”
Clint si trovò ad osservarlo ancora una volta con stupore. Non era da Coulson parlare a quella maniera, non usare quel tono afflitto, sconfitto.
“Avete ingaggiato i migliori, Phil… il governo non arriverà certo prima di noi.”
“Magari non questa volta. Ma la prossima volta che succederà? Quando riusciranno a dimostrare quanto siamo superflui, smetteranno di affidarci qualsiasi tipo di lavoro.”
“Ma che stai dicendo?”
“Sto dicendo che dovremo cominciare a vedere come atterrare senza uno schianto, Barton.”
---
New York, la sua periferia, pioggia sporca che porta afflizione e la tecnologia che lentamente sta prendendo il posto della manodopera umana. Uno scenario dal sapore futuristico. Un'organizzazione da salvare. Pochi superstiti su cui fare affidamento.
Genere: Azione, Dark, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Sorpresa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 14

 

Quando i robot sono più umani dell'umanità.

(Isaac Asimov)

 

*

 

Le strade erano deserte. Straordinariamente deserte. Quell'atmosfera tipica di placida, statica calma dopo la tempesta.

Persino il cielo aveva smesso di piangere lacrime amare.

Il temporale della sera precedente aveva restituito alla città la sua aria da post sbronza.

Trasudava degli odori mefitici delle fognature. I tombini colmi avevano regalato alle strade diversi ricordini, vomitando acque oleose dalle loro più intime profondità.

Clint teneva d'occhio la strada. Il furgone della Jones avrebbe dovuto già essere lì.

Cercò di non concedersi di essere nervoso. Non ce ne era motivo. Non ancora almeno.

Se non si considerava il fatto che Natasha fosse lì con lui, apparentemente affatto turbata dalla piega a precipizio che avevano preso gli eventi in quelle ultime ventiquattro ore.

Non che lui avesse fatto qualcosa per indurla a essere meno ostile. Si era trincerato dietro un ostinato silenzio. Nemmeno troppo difficile da tenere a bada dato che Natasha si stava preoccupando di fare la stessa identica cosa.

Aveva bisogno di tempo. Quanto gli era persino difficile dirlo. Di regola non si curava del tempo e, quando aveva qualcosa da dire, non si faceva troppi scrupoli a muovere quella sua lingua biforcuta.

Ma si trattava di Natasha. E della rottura di una promessa. In realtà la promessa non riguardava il tacere le cose, ma – per come la vedeva lui – omettere un segreto tanto importante equivaleva a mentire… per come si erano sempre sinceramente posti l’uno nei confronti dell’altra.

Aveva paura che per lui fosse uno shock?

Cazzo, certo che era stato uno shock! Avrebbe potuto biasimarlo? Aveva appena scoperto che la sua migliore amica, barra amante, barra collega era una sottospecie di esperimento da laboratorio. Un cadavere ambulante. Un cyborg riprogrammato dall’alba dei tempi!

Da quanto tempo lo sapeva? Perché, soprattutto, nessuno si era mai accorto di niente? Nemmeno lo SHIELD sapeva, sospettava? Eppure, fisicamente, quei cosi non avrebbero dovuto essere… diversi?

Si pentì del pensiero quando lo stava ancora formulando.

Natasha non era diversa in niente. Un bel niente.

Certo un tantino algida, ma questo era per via del suo lavoro. Del suo passato…

Già, ma quale passato?

In ogni caso era fatta di carne e sangue. E passioni. Che aveva scorto e testato sulla sua pelle.

L’aveva vista ridere, l’aveva vista piangere, gioire e soffrire. L’aveva assistita quando sofferente, amata con tutto se stesso quando lo aveva reclamato.

Quindi in che cosa era diversa? In cosa poteva essere diversa se non… per il fatto che probabilmente era stata surgelata, alla stregua di Rogers. O Barnes. O chissà quanti altri individui là fuori.

Avesse messo un braccio dentro un frigorifero si sarebbe gelato. Il sangue si sarebbe fermato, ma una volta scongelato… non avrebbe certo smesso di essere il suo… braccio.

O no?

Il rumore di un motore lo riportò alla realtà.

Un furgone color cenere si stava trascinando lungo la via. Un vecchio modello, un po’ vintage, come quelli che piacevano a lui. Sulla fiancata un scritta in nero titolava: Rigattieri Jones & Cage, subito seguito da un improbabile numero di telefono a cinque cifre. Le altre doveva essere state cancellate dal tempo. A giudicare dal rumore con cui avanzava verso di loro, la marmitta non avrebbe dovuto nemmeno superare la revisione.

Clint sperò con tutto se stesso che non fosse quello il mezzo che li avrebbe condotti ai magazzini Stark.

Continuò a sperarlo anche quando si fermò a pochi passi di distanza da loro. E lo sperò nonostante Natasha avesse fatto cenno all’autista.

E lo sperò anche quanto una donna, dai lunghi capelli neri e il viso dall’aria tutt’altro che ordinario,  si affacciò al finestrino con un grosso sorriso sghembo.

“Hola. Ma guarda un po’… tu devi essere il famoso Clint Barton.”

“Famoso non direi.” Si trovò a rispondere senza aver quasi registrato che quella doveva essere la Jones.

“Nell’ambiente – il nostro ambiente – sì, lo sei”.

Clint rivolse a Natasha una rapida occhiata che lei evitò per un soffio.

“Ma temo non ci sia il tempo per una stretta di mano di presentazione. Salite. Le strade già pullulano di polizia.”

Montarono sul furgone dalla porta posteriore. Non appena prese posto si trovò a stringere fra le mani una specie di telo.

“Dentro quel vecchio divano. Sotto i cuscini c’è abbastanza spazio per tutti e due.”

“Dentro… al divano?”

“Per le perquisizioni. C’è un doppio fondo.”

“Ma perché dentro al divano?”

“Preferivi entrare in una poltrona chiodata? L’ho lasciata al negozio, ma volendo…”

Clint alzò le mani senza protestare. Il suono stonato di una sirena in lontananza fu un incentivo particolarmente convincente.

Natasha aveva già preso a sistemare il divano. Improvvisamente realizzò che avrebbero dovuto condividere uno spazio estremamente ristretto, per almeno i prossimi… venti minuti. Prendere in considerazione la poltrona chiodata fu quasi un pensiero consolante.

“Non potremmo aspettare di incontrare un posto di blocco?” tentò di nuovo, ben sapendo che sperare di poter sfruttare di nuovo i veli fotostatici non sarebbe stato possibile.

La Jones rimise in moto.

“Posti di blocco?” rise, “Le sentinelle robotiche non ne fanno, di posti di blocco. Sbucano da sotto le panchine dei parchi, dai cestini della spazzatura, dalle fogne, pure nei cestini della merenda… ma i posti di blocco… Ma dove diavolo hai vissuto in questi ultimi tre anni?”

Clint non ebbe bisogno di rispondere. Anche perché dopo le rivelazioni degli ultimi giorni, non ne era più sicuro nemmeno lui.

Si limitò a seguire silenziosamente Natasha. Dopo averla vista sparire sotto i cuscini stese il telo e fece la stessa identica cosa.

 

*

 

Gli era venuta voglia di bere.

Era dai tempi della disintossicazione che non gli veniva voglia di farlo. In modo massiccio per giunta.

Nemmeno il tempo di materializzare il pensiero, l’intenzione, che si era trovato a varcare la soglia del primo pub disponibile.

Un locale cupo, indolente, che sapeva di puzzo d’ascelle e fumo.

Era alla terza o forse quarta birra quando lei gli si sedette accanto.

Come lo aveva trovato era tutto da stabilire.

“Ehi.”

“Ehi… guarda chi si rivede”, squadrò Natasha dalla testa ai piedi; era solo un po’ abbronzata, le donava quel colore sul viso,“come è andata al… Cairo?” le lanciò uno sguardo acquoso, esausto, che dava l’impressione che in realtà non gli importasse un accidenti di niente del Cairo, prima di finire l’ennesimo boccale. Non lo faceva sentire meglio. Ma nemmeno peggio. E questo bastava.

“È tutta la sera che ti cerco.”

“Bè… hai avuto fortuna, mi hai trovato.” Fece cenno al barista di versargliene dell’altro. Il tipo gli lanciò uno sguardo sospetto e Clint sbatté sul bancone una banconota da cinquanta dollari. Una sorta di assicurazione. Il barista ne sembrò rincuorato anche se perplesso.

“Di che avevi bisogno?” le domandò tentando pateticamente di tenersi dritto sullo sgabello. Quando finalmente si voltò a guardarla, Natasha non sembrava affatto contenta. Non che di solito esibisse espressioni di estatica gioia, ma ci lesse un che di pericolosamente cupo, nel suo sguardo.

“Di niente”, gli disse, scoccandogli un’occhiata valutativa, “volevo solo essere sicura che andasse tutto bene.”

“Bene? Alla grande! Sto festeggiando! Anzi dovresti proprio unirti al party. Johnny, un’altra pinta, per favore.”

“Non mi chiamo Johnny”, intervenne il barista, passando a entrambi il proprio boccale.

“Fa’ lo stesso… domani non ricorderò comunque come ti chiami.” Lo liquidò rapidamente per tornare a fissare Natasha.

“Che cosa staremmo festeggiando?” gli domandò lei, attirando a sé la sua birra.

“Come, non lo sai? Credevo ormai fosse di dominio pubblico.”

“No. Sono rientrata meno di due ore fa.”

Clint recuperò il proprio bicchiere e se lo portò alle labbra, concedendosi l’ennesima corposa sorsata, senza toglierle gli occhi di dosso.

“Bobbi mi ha chiesto il divorzio.”

“Come… ?”

“Ehi, sono io quello duro d’orecchi, non tu. Bobbi ed io–”

“Lo so, ho capito. Volevo dire: come è successo?”

“È successo che lei me lo ha chiesto… ed io ho detto di sì”, le rispose, “un po’ come quando le ho chiesto di sposarmi. Domanda. Risposta. Solo che stavolta non c’è stato del sesso… dopo.”

“Clint…” lo sguardo di rimprovero lo aveva colto. Rimprovero e pietà? No, la pietà proprio non se la meritava.

“Se te lo stessi chiedendo: no, non è stata solo colpa mia.”

“Non me lo stavo chiedendo.”

“Ah, ecco, grande… perché non lo è stata.” E di nuovo ad ingollar birra, che adesso scendeva un po’ più a fatica, “Differenze… inconciliabili. Che poi che cazzo vuol dire, dico io? Solo perché, che ne so, lei voleva un figlio ed io no? O perché me ne sto sempre in giro per il mondo… e ci si incrociava per sbaglio un fine settimana no e quell’altro pure? Oppure che io non abbia preso poi così bene la sua idea di un trasferimento sulla costa ovest? Insomma, fammi un elenco almeno. Differenze inconciliabili per me non vuol dire un cazzo!” si asciugò le labbra umide di birra prima di riprendere fiato. “Penso mi creda un fallimento. Tipo un fallimento su tutta la linea.”

“Non sei un fallimento.”

“No? Bè, magari non nel lavoro, quella è l’unica cosa che so fare… bene.”

“Non mi sembra irrilevante.”

Le lanciò uno sguardo strano. Natasha non sembrava cogliere il problema, ma non se ne stupì. Natasha non era granché incline a relazionarsi o empatizzare con certi tipi di cose.

“No certo, non per te. Se ti salvo il culo in missione o tu lo fai con me… irrilevante non lo è… per niente. Ma… non basta questo in un matrimonio.”

“No, però basta a me…” le sembrò di sentir pronunciare a mezza bocca, ma non volle indagare oltre. Le sue percezioni erano già abbastanza falsate dall’alcool, “Comunque pensavo il matrimonio fosse una battaglia.”

Questo l’aveva sentito bene però, e sorrise amaramente a quella constatazione.

“Quante volte me lo hai… sentito dire?”
“Abbastanza per ricordarmelo.”

“Dunque immagino avrei dovuto aspettarmi questo epilogo.”

Natasha non rispose immediatamente, ma il solo fatto di averla lì di fianco ad ascoltare i suoi disillusi deliri, lo fece sentire meno miserabile di quanto non vi riuscisse l'alcool.

“Ci si riprende più facilmente da un cuore spezzato che da una testa rotta.”

Rialzò la testa perché un’uscita del genere, da Natasha, proprio non se la sarebbe mai aspettata.

“Credi che io e Bobbi avremmo finito per farci fuori a vicenda?”

“L’agente Morse non ha la fama di essere esattamente uno stinco di santo. E tu non sei da meno.”

“Grazie tante.”

“Non c’è di che.” Gli sorrise nel suo modo un po’ ambiguo e poi la vide alzare il boccale: “Credevo che fossimo qui per festeggiare.”

“Giusto”, si riprese, “Allora a che festeggiamo?”

“Ai fallimenti, no?”

Clint, per la prima volta da giorni, scoppiò a ridere.

 

*

 

Il lento dondolio del camioncino della Jones avrebbe finito con il conciliargli il sonno.

Certo, non fosse stato a pochi centimetri dal viso di Natasha Romanoff.

Di buono c’era che non poteva vederla. Forse intuirne appena le forme o il baluginio dei suoi occhi aperti dai pochi, soffusi spiragli di luce che penetravano dalla trama di quel divano enorme.

Però ne sentiva il respiro. Caldo e familiare, a solleticargli la pelle.

Il silenzio e la vicinanza si erano fatti scomodi da subito. E qualsiasi movimento, sebbene misurato onde evitare crampi di sorta, diveniva difficile. Anche solo per la paura di entrare inaspettatamente in un più intimo contatto l'uno con l’altra.

Si chiese se non avrebbe dovuto spezzare il silenzio. Se non le avrebbe dovuto dire qualcosa. Ma la mancanza d’aria – o la quasi mancanza – lo costringevano a tacere. A restare lì. A sbirciarla nell’oscurità, a sentire il calore dei suoi respiri e la tensione dei suoi muscoli.

E cosa avrebbe potuto dirle dopotutto? Non era il momento giusto per delle spiegazioni… o delle scuse. Perché sì, le doveva delle scuse, certo. Non era ancora così ottuso da non aver capito dove… avesse sbagliato. Solo non era sicuro che il suo orgoglio o la sua scarsa capacità di relazione diplomatica gli avrebbero permesso di farlo.

Cercò di muoversi su un fianco quando il dolore alla spalla diventò improvvisamente insopportabile.

Con la mano, che si era agitata per un secondo nell’oscurità, aveva finito per urtarle il viso.

“Scusa…” disse solo, vagamente congestionato, mentre si ritraeva nemmeno avesse preso la scossa per paura che se ne avesse a male.

Dalla donna non arrivò nessuna risposta, ma la vide ritrarsi di conseguenza, come a facilitargli il compito di distanziarla. La mossa per un istante lo confuse.

Poi comprese. O pensò di farlo. Ancora vivida nella memoria la pessima mossa giù, nel bunker di Steve Rogers, quando si era ritratto nemmeno avesse a che fare con il mostro della laguna.

Doveva dire qualcosa, qualsiasi cosa, per sbloccare la situazione; peccato che il suo cervello sembrasse essere andato completamente in tilt.

Il suo respiro, il suo timore, la delusione, le cose taciute. Un peso che poteva quasi sentire, massiccio e concreto, stretti in pochissimi centimetri quadri.

“Non è una cosa facile da digerire… Natasha.” Esordì all’improvviso, senza preamboli, introduzione, niente. Glielo disse così come si strappa un cerotto: all’improvviso.

Il respiro di lei era cambiato. O così gli sembrò.

“Perché non me lo hai mai detto?”

Di nuovo gli rispose il silenzio, ma quando volse il capo per individuarne le forme, si rese conto che il baluginio dei suoi occhi era vivido e attento.

“Ci conosciamo da più di dieci anni… e non me lo hai mai… detto.”

Serrò le labbra quando, di nuovo, non sembrò intenzionata a rispondere. Non era sicuro di capire a che gioco stesse giocando, ma forse non era intenzionata nemmeno in quel momento, nemmeno a carte scoperte, ad ammettere di avergli mentito. A concedergli una spiegazione.

Si passò una mano sul viso, mantenendola lì ferma sugli occhi che gli dolevano per la mancanza di sonno o l’indolenzimento dovuto a tutte le violenze mentali delle ultime ore.

“Non sapevo nemmeno io cosa fossi… fino a tre anni fa.” Una replica flebile, incerta. Un tono rigido, ma che sapeva di scuse, se aveva imparato a interpretarla un poco in quegli anni.

Si scoprì il viso e tornò a voltare la testa. Di nuovo fu solo la luce raccolta dai suoi occhi quella che poteva scorgere.

Doveva crederle? E perché no?

“Allora è vero”, le rispose, “Sei come Rogers? Come… Barnes?”

“… e come te.”

Assorbì il colpo come avrebbe fatto con uno schiaffo: stavolta se lo era meritato.

“Non volevo dire…”

“So cosa volevi dire”, la sentì riprendere fiato, “e sì, in parte hai ragione. Sono come Rogers. Come Barnes.”

Clint rimase in silenzio a rielaborare la notizia. A farla sua, definitivamente. Nessun fraintendimento, nessuna conversazione percepita attraverso una porta socchiusa. Una confessione in piena regola, finalmente.

“Di' qualcosa…” sentì la sua voce per la prima volta carica di tensione, timore, aspettativa.

“Non so cosa dire.” Rispose e si stupì nell’apprendere che era vero. Non sapeva cosa dire, come reagire. Non in modo razionale almeno.

“Pensi che io sia uno scherzo della natura”, pronunciò dunque per lui. E le parole erano arrivate così brusche e dirette, così cariche di amaro sarcasmo che dovette fare uno sforzo per non risponderle immediatamente con un secco diniego.

“Non penso niente del genere”, ribatté non senza dimenticare il tono piccato. Nemmeno lui sapeva che diavolo pensava di lei. O di quello che aveva scoperto fosse, “Penso… che vorrei che mi raccontassi tutto.”

E per la prima volta, in quell’assurdo dialogo fatto di lunghe pause e frasi a mezza bocca, si sentì sincero. Non era così che era abituato a parlare con lei. Ora che ricordava cosa volesse dire… parlare con Natasha. Che i suoi ricordi, uno dopo l’altro, cominciavano ad accavallarsi senza sosta, permettendogli di rammentare quello che lei aveva rappresentato in quegli ultimi anni, di riportare alla mente tutte quelle sensazioni, quei sentimenti che aveva provato… per lei. E che adesso erano così tanti, così confusi, così mischiati indissolubilmente alla gamma di tutto ciò che aveva sentito in quelle ultime ore che gli era difficile ricollocarli, capirli, selezionarli. Dar loro un ordine.

Ordine… era ciò di cui aveva disperatamente bisogno. Doveva conoscere i fatti, trarre le sue conclusioni, rimettere ordine in quella sua testa sconvolta.

La sentì sbuffare una risata: “Non ti piacerà quello che sentirai.”

“Lascia giudicare me.”

Il camioncino sobbalzò bruscamente e frenò.

“Ispezione!” Sentirono la voce della Jones dall’abitacolo.

La conversazione avrebbe dovuto essere rimandata.

 

*

 

Attraversò la strada, lasciando che un taxi frenasse bruscamente.

“Anche a tua sorella!” rispose all’epiteto poco carino che gli era arrivato per direttissima dall’autista.

“Per poco non mi ammazzava.” Raggiunse Natasha sotto uno dei portici, scrollandosi di dosso la pioggia che gli doveva essere entrata fin dentro le mutande.

“Hai attraversato senza aspettare il semaforo verde.”

“Bè, non c’era nessuno.”

“Voi americani siete molto fantasiosi con l’interpretazione dei regolamenti.”

“Noi americani abbiamo vinto il primo premio per le manifestazioni pubbliche di libero arbitrio…”

Natasha gli scoccò un’occhiata perplessa. E per un attimo si sentì in colpa. Era ancora in piena fase di reclutamento. Spesso e volentieri assorbiva informazioni come una spugna. Tragicamente, sembrava che la sua influenza avesse giocato un ruolo fin troppo consistente nella sua formazione emotiva.

“Stavo scherzando”, si decise a specificare, “non dovresti prendermi sempre così seriamente, sai?”

“Infatti non lo faccio. Ho preferito esercitare il mio libero arbitro nel non commentare la tua battuta scadente.”

Clint assorbì il colpo e poi scoppiò a ridere.

Woah… questa sì che era un stoccata.”

“Che dovevi prendere?” gli domandò alzando il cappuccio della felpa, pronta ad affrontare la lunga strada verso casa.

“Questi…” tirò fuori dalle tasche una busta per potergliela passare.

“Una busta di plastica?”

“Dovresti aprirla.”

“Ma è roba tua.”

“Natasha… aprila e basta, okay?”

La vide di nuovo lanciargli quello sguardo strano, diffidente e perplesso. Cominciava a farci l’abitudine, ma una volta era in grado di frustrarlo enormemente.

“Sono post-it.”

“Già... avevi detto che volevi provarli, ne ho presi un po’ anche per te.”

“Come quelli che ha il tuo pc a lavoro. O sul frigorifero di casa.”

“Esattamente come quelli.”

Natasha era sempre stata affascinata da quei cavolo di foglietti gialli. Abituata come era a ricordare tutto a memoria, o a usare i promemoria digitalizzati, si era sempre chiesta a cosa servissero. Di tanto in tanti Clint gliene lasciava uno sulla scrivania. Spesso e volentieri solo per augurarle il buongiorno o salutarla con qualche orribile battuta prima di un’imminente partenza.

Clint era arpionato alle vecchie tradizioni. Di fatto uno dei pochi al mondo che ancora li usavano.

La vide porgergli la busta.

“Che fai?”

“Non ho soldi da restituirti.”

“Finiscila, è un regalo.”

“Non voglio regali. Non mi piacciono i regali.”

“Non dire stupidaggini, a tutti piacciono i regali.”

La vide scuotere la testa e guardarlo dritto negli occhi. Un lampo di paura o forse solo di confusione.

“Ma avevi detto che volevi provarli…”

“No. Sì, voglio provarli, ma non voglio essere in debito con te.”

“Non sei in… che cavolo stai dicendo, Nat? Non c’è nessun debito, per quello che costano, poi? Non voglio niente in cambio. Mi andava solo di farlo.”

Recuperò la busta solo per infilarglieli nella tasca della giacca.

“Davvero?”

“Davvero”,  allargò le braccia, per dimostrare che non aveva niente da nascondere, che non voleva niente in cambio.

“Okay.”

Le sorrise: “Benone.”

La vide esitare solo un momento, prima di fare un passo nella sua direzione: era convinto non sapesse come ringraziarlo e tentò di levarla dall’impiccio, cercando l’ennesima battuta idiota da elargirle.

Ma prima che potesse anche solo arrivargli alle labbra una soluzione, furono quelle di lei ad impedire alle sue di dire alcunché. Prima ancora che potesse capire che stava succedendo, Natasha lo stava baciando.

Non uno di quei baci casti, di ringraziamento, teneri e soffici. Ma uno di quelli di slancio. Un incontro di labbra, denti e lingua. Non si sorprese nemmeno abbastanza, quando si trovò a risponderle senza indugi.

Era la prima volta che baciava Natasha Romanoff. La prima volta dacché aveva realizzato quanto avrebbe desiderato farlo, un giorno. Quello e altro, certo, ma per come la vedeva lui, non riusciva a immaginare niente di meglio per cominciare.

Si scostò che era ancora piuttosto confuso e disorientato. Nello sguardo un’unica domanda: perché?

“Mi andava solo di farlo.” Gli rispose lei, facendo sparire il labbro inferiore fra i denti, come a non lasciarsi sfuggire l’ultimo assaggio di lui.

Si infilò la busta nelle tasche e si sistemò il cappuccio che le era scivolato dalla testa.

“Muoviamoci o ci daranno per dispersi”, disse.

La seguì con lo sguardo per un solo istante, prima di decidersi a seguirla, chiedendosi che cosa sarebbe successo se invece dei post-it le avesse regalato un’intera confezione di quelle penne a sfera che sembrava amare tanto.

 

*

 

“Il nostro viaggio finisce qui.”

La Jones venne a liberarli dopo quella che a Clint era sembrata un’eternità. Nemmeno da dire quanto ossigeno avessero consumato nel timore di essere scoperti durante l’ispezione sommaria di una sentinella robotica. Avevano sentito un rumore secco e poi il furgone era ripartito.

I resti della sentinella robotica giacevano ai piedi del divano, ancora bollenti.

“Sei stata tu?”

Le domandò uscendo a fatica, tendendo una mano a Natasha che sembrò sorpresa del gesto.

“Sì. Succede quando devi giustificare perché non hai una patente… o guidi in stato di ebbrezza”, Clint non riuscì a dire se fosse sincera o meno, nel caso lo fosse, strano a dirsi, non se ne sarebbe stupito. “Comunque mi serviva qualche pezzo di ricambio. Sono modelli vecchiotti, di periferia, ma alcune componenti non le trovi più da nessuna parte.”

“Voglio sapere come hai fatto a disattivarlo?”

“Se hai un paio d’ore.”

Clint si sfregò gli occhi e sgranchì le gambe, le braccia e la schiena, avvertendo distintamente lo scricchiolio delle ossa ad ogni movimento. Sbirciò fuori dal vetro del parabrezza solo per rendersi conto che erano incastrati in un vicolo della periferia.

“E ora che succede?”

“Aspettiamo un paio di minuti.”

“Aspettiamo cosa?”

Nemmeno il tempo di finire la frase che l’aria si riempì del suono di una miriade di sirene della polizia.

“Questo”, sorrise la Jones, passando a Natasha le sue armi, “Rogers e Barnes devono aver fatto saltare qualche esplosivo là fuori. Il vostro diversivo.”

“Che discrezione.”

“Vi conviene muovervi. Da questo momento mi sento di dire che avrete al massimo mezz’ora per andare a recuperare le teche. Mi farò trovare fuori con il furgone.” Li guardò uno dopo l’altro, “se qualcosa va storto, usate il bat-segnale”, mostrò loro il cellulare, “buona fortuna ragazzi.”

Rivolse a Natasha uno sguardo significativo, prima di smontare e tornare a collocarsi al posto di guida.

Clint non poté far altro che saltare giù e infilarsi la giacca. Cominciava a fare un freddo cane, là fuori e il respiro gli si condensava in nuvole bianche vicino alla fessura fra le labbra.

Le tenebre erano scese da qualche minuto e già non si percepiva più un cazzo dei dintorni; per di più un leggero strato di nebbia velava l’intero isolato.

“Vieni…” gli disse Natasha, cominciando a muovere passi veloci e sicuri in una precisa direzione.

Pensò – con l’esatta sensazione di essere ingiusto – se, oltre ad essere una specie di cyborg, non avesse sviluppato anche la visione notturna.

Scacciò il pensiero che quella strada doveva averla percorsa talmente tante volte da risultarle più familiare del suo stesso appartamento.

Si sfregò la testa, ripromettendosi di avere pazienza. Che quello non era il tempo e il luogo adatto per le spiegazioni, ma che sarebbe arrivato.

Un paio di lunghi nastri olografici della polizia delimitavano la zona. Senza ombra di dubbio direttive dell’FBI, in attesa delle tanto agognate svolte burocratiche.

Man mano che si avvicinavano però, Natasha sembrò esitare, rallentare il passo per poi riguadagnare l’andatura fin quasi a mettersi a correre.

La vide fermarsi proprio di fronte a quella che doveva essere la porta dei laboratori di Stark.

Persino Clint, una volta vicino, si rese conto del danno: l’intera struttura dell’ingresso era stata sradicata, ceduta come sotto la forza distruttrice di una palla da demolizioni.

Il primo pensiero fu che qualcuno da fuori avesse forzato la faccenda; la cosa straordinaria però fu che ad un’occhiata più approfondita Clint comprese che lo slancio che aveva abbattuto la porta arrivava dall’interno.

“Ma che diavolo… ?”

Natasha non restò ad ascoltare il resto della sua esclamazione, inforcò l’ingresso e prese a correre lungo i corridoi.

Clint non poté far altro che seguirla. Solo fantasmi di luci al neon ad illuminare scarsamente quel dedalo di passaggi, e lo scalpiccio dei loro passi sui pavimenti inondati d’acqua. Una sensazione peggiore di quando erano finiti nelle fogne a far compagnia a ratti e schifezze di ogni genere, perché l’urgenza di capire cosa fosse successo, adesso, andava a rinfoltire la già nutrita schiera delle loro ansie.

Barney era ancora vivo? Al sicuro? La stanza era ben nascosta, ma chi poteva assicurare loro che non fosse stata ritrovata?

Il dubbio venne fugato pochi istanti dopo: il laboratorio di Stark sembrava esploso e tutti gli attrezzi dell’uomo erano stati sparpagliati in giro; così come i robot che, invece di essere impiccati in una macabra esposizione meccanica, adesso giacevano al suolo – né più né meno come la sentinella robotica fatta a fuori dalla Jones, dopo l’ispezione del furgone.

La porta segreta che custodiva le teche di vetro era spalancata.

Clint, per una volta tanto, fu più veloce di Natasha a raggiungere la stanza e con il cuore che ancora batteva furiosamente nel petto per la corsa, per la paura e l’aspettativa, dovette reprimere un gemito frustrato alla realizzazione che persino le teche erano state distrutte, i vetri frantumati, disseminati come cristalli su tutto il pavimento. E la stanza era completamente vuota.

Natasha apparve immediatamente al suo fianco, il respiro affannato e il timore di dire qualsiasi cosa.

“Che cazzo è successo qui?” esalò Clint, più una rabbiosa invocazione che una reale richiesta di spiegazioni.

Un rumore alle loro spalle fece voltare entrambi di scatto. La mano di Clint già sollevata verso l’arco agganciato alla schiena, quella di Natasha pronta sul grilletto.

Si ritrovò a sgranare gli occhi quando di fronte a loro sembrò materializzarsi una visione da sogno.

Un uomo di altissima statura si ergeva loro davanti, aveva fattezze umane ma niente, né il colore della pelle – che sembrava più una tuta lucida – né gli occhi freddi e indagatori, suggerivano che lo fosse veramente. Clint riconobbe quella sottospecie di cyborg steso nella teca accanto al corpo di Barney. Non un essere umano,  non un vero robot.

“Il signor Barton se ne è andato”, disse solo.

L’accento e il timbro del suo esordio vocale, così simile alla voce di Jarvis.

 

*

 

Note:

Quando dicevo che sarebbero comparsi altri personaggi, sono sicura che nessuno si aspettava quello che compare alla fine del capitolo. O della nostra Jessica Jones (quando ho scritto il capitolo non sapevo chi fosse Jessica Jones, all’effettivo. L’avevo usata come pretesto. Ora che lo so, sono ancora più felice di averla usata nella storia, anche se solo come breve comparsata).

Clint e Natasha hanno ancora diverse cose da dirsi, ma almeno adesso si parlano, no? Mezzo muro è stato abbattuto. Così come i laboratori Stark. Dove è finito Barney? Lo scopriremo… presto.

Forse prima di Natale, se mi ricordo di pubblicare… ma come dicevo, sono coooosì presa… e ho cosììììì poco tempo.

Grazie come sempre a tutti quanti leggono, commentano, alla socia beta Sere che sti giorni ho assillato più con Star Wars che la Marvel… insomma… che la Forza sia con voi. Sempre.

Alla prossima!

  
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