Cinquieme Chapitre :
Histoires.
Tu-tutum tu-tutum. Tu-tutum tu-tutum
Il
ritmo della metropolitana veniva scandito dalle luci
di emergenza che lampeggiavano a tratti al di là dei finestrini, squarciando il
riflesso dei loro volti sui vetri.
Tu-tutum tu-tutum
Jakotsu
ormai aveva rinunciato a tentare di far parlare Kagura e non poteva far altro
che studiarne il riflesso cupo e stanco, le labbra rosse pizzicate nervosamente
dai denti. Dalla sera precedente, qualsiasi risposta che otteneva non era più
lunga di un semplice monosillabo. Aveva cercato di intavolare una conversazione
già al mattino appena svegli, chiedendole se fosse
riuscita a dormire la notte precedente, o come si sentisse. Di ritorno, aveva
ricevuto solamente uno sguardo torvo attraverso le occhiaie vistose, che gli
sembrava una risposta abbastanza esauriente.
Che cosa le starà passando per la testa,
in questo momento? Si domandò per
l’ennesima volta. Gli aveva ripetuto più volte che era inutile darsi pena per
il bambino, che non l’avrebbe mai accettato e che non l’avrebbe tenuto. La sua
determinazione e il occhi fiammeggianti l’avevano
fatto desistere dai suoi propositi convincitivi. Era soltanto riuscito a strapparle l’accordo
di accompagnarla dal dottore, quel pomeriggio.
Kagura
aveva scelto la dottoressa dopo una breve scorsa all’elenco telefonico. Questa
o quella per lei non faceva la differenza, dato che aveva già preso la sua
decisione.
Eppure…
c’era qualcosa che gli sfuggiva. Qualcosa che non quadrava. Jakotsu non era di
certo un genio, ma aveva il pregio di essere un grande osservatore. Era abituato
a studiare le persone che lo circondavano, semplicemente osservandone i gesti e
i modi di parlare. A volte gli capitava di farlo anche con la gente per strada.
Il motivo vero e proprio non lo sapeva nemmeno lui, a dire il vero. Forse
sentiva semplicemente il desiderio di incontrare una persona che stimolasse la sua curiosità e con cui condividere uno stato empatico, qualcuno che valesse davvero la pena conoscere. Quella
donna era una sfinge dagli occhi enigmatici. E dura come la roccia. La persona
più complessa che gli fosse mai capitato di
incontrare.
Ah,
glielo diceva sempre, sua madre, che sarebbe dovuto diventare uno psicologo…
eppure la trovava una professione così noiosa da non prenderla mai davvero in
considerazione.
Così,
teneva la psicanalisi coatta come hobby, da fare nei momenti vuoti, come mentre
mangiava un panino in un bar o mentre si trovava in una metropolitana. Sembrava
strano, ma non era forse vero che la fotografia, cioè la sua professione, fosse
l’hobby di milioni di persone?
Ecco,
beh, d’altronde lui non era l’antiabitudinario per eccellenza? L’eclettico?
L’imprevedibile?
Il
Weird?
Oh, dannazione, ancora con questa
storia. Si stava stancando del suo
stato piagnucoloso. E isterico.
Piagn-isterico. Bel neologismo, in quale si identificava in quel momento. Piagn: perché non
riusciva ancora a metabolizzare bene la sua “perdita” e sentiva sempre la sua mancanza, e Isterico
perché non riusciva a sopportare tutto ciò.
Per
fortuna che c’era Kagura, a ricordagli che i problemi
erano ben altri, e che lo distraeva. Senza di lei a quest’ora sarebbe
impazzito.
La metro
si fermò ad una stazione. Gente che scendeva dal vagone, gente che saliva. La
maggior parte di loro erano turisti. Tra un paio d’ore sarebbe stato l’orario
di punta dei pendolari che uscivano dagli uffici. Sperò che la visita non
durasse tanto. Se c’era una cosa che detestava era quella di dover prendere la metrò quando era affollata: lo irritava essere pressato
come una sardina in scatola.
Mai
una volta che gli capitasse di essere nello stesso vagone di una
aitante squadra di rugby. O di un team di pompieri. Beh, quello sarebbe
stato indubbiamente più interessante. Si lasciò sfuggire un
sorrisetto sognante, lasciando la mente libera di costruirsi una fantasia.
Quanto era probabile che la nazionale di Rugby dovesse prendere il metrò in
maglietta e calzoncini? Con tanto di palla ovale in mano?
O
che cinque bei pompieri smontassero dalla caserma con ancora indosso le loro
divise, appena sporchi di fuliggine?
“La
prossima fermata è la nostra” lo informò Kagura, dando un’occhiata al foglio
degli appunti. “siamo in perfetto orario.”
Lui
annuì, scendendo dalle nuvole. Quella era un’occasione per dimostrare di avere
i piedi per terra, qualche volta.
“Non
c’è bisogno di nessun controllo, né tanto meno di nessun esame, ho già deciso
di non tenerlo, dottoressa.” Il tono di Kagura era
freddo, controllato, calmo. La frase stonava con l’ambiente circostante:
L’ambulatorio in cui erano stati accolti era un inno alla gravidanza, con le
pareti tappezzate di poster informativi e di foto di avanzamenti fetali.
Jakotsu, sinceramente, li trovava un po’ inquietanti.
“Non
prenda decisioni affrettate, Kagura.”, rispose il medico, invitandola ad
accomodarsi sul lettino e a sollevarsi la maglia, mentre accendeva
l’apparecchio per l’ecografia. “Prima di tutto controlliamo che effettivamente
sia in corso una gravidanza, e di quanto è avanzata.”
Kagura
sembrava tesa e nervosa, mentre la dottoressa le spalmava il gel sul ventre. Il
ragazzo le si sedette di fianco, cercando di
sorriderle confortante, prendendole la mano. Era curioso. “Come le dicevo,
secondo i miei calcoli, non dovrei essere a più di quattro settimane.” Spiegò Kagura.
“Sta
entrando nella quinta.” La corresse la dottoressa.
Voltando verso di loro lo schermo dell’apparecchiatura e indicandogli un punto “Eccolo qui.”
Sia
Kagura che Jakotsu strizzarono gli occhi per cercare
di vedere meglio. Non si riusciva a distinguere granché. La dottoressa ingrandì
l’immagine. “E’ lungo già 2millimetri. Un vero gigante.”
“Ma…
è brutto!” esclamò Jakotsu, deluso dalla foto sfuocata che vedeva sullo
schermo. Si tappò subito la bocca con la mano, certo di aver detto qualcosa di
terribilmente sbagliato, gettando lo sguardo allarmato verso la donna sul
lettino. Lei non sembrava nemmeno essersene resa conto,
assorta com’era dalle immagini.
La
dottoressa, con uno sguardo trionfante, sicura di riuscire a calamitare
ulteriormente la positiva reazione della paziente, premette un pulsante, e un
rumore gracchiante e ritmico provenne dal macchinario.
“Questo, signora, è il cuore del suo bambino.”
Rimasero
entrambi in silenzio, mentre lei gli illustrava la posizione, spiegandogli
quali rischi ci potevano essere sino all’ottava settimana, la più delicata, in
cui si formava il sistema nervoso del feto.
Jakotsu
accarezzò con un dito la guancia di Kagura, non sorprendendosi di trovarla
umida. Era sicuro che avrebbe cambiato idea, quando si sarebbe davvero resa
conto di aspettare un vero bambino.
Alla fine lei avrà qualcuno che l’amerà
incondizionatamente pensò, con una
fitta leggera di invidia.
Ripresa
dall’iniziale stupore, la donna domandò se si potesse
definire precisamente la data del concepimento.
La
dottoressa si avvicinò al terminale, non prima di aver stampato un’immagine
dell’ecografia, e inserì nel computer i dati che Kagura le forniva.
“Il
concepimento è avvenuto tra il 27 dicembre e il 1° di Gennaio.” Rispose, sicura. “Al massimo il 2, verso le prime ore del
mattino”
Invece
di mostrare qualsiasi segno di sollievo, Kagura si infilò una mano nei capelli,
deglutendo faticosamente “Non c’è qualcosa di più preciso?” incalzò. Il ragazzo
notò una nota di panico nella voce. Non si sarebbe messa ancora a piangere,
vero?
La
dottoressa alzò le braccia. “Ha solamente quattro giorni di dubbio…”
“Esiste
un test del dna da effettuare subito?”
“Oh
no, signora, mi dispiace. Il test può essere effettuato solo dopo la nascita
del bambino.”
Lo
sguardo di Kagura scese sulla propria pancia, che pulì delicatamente dal gel
con un fazzoletto di carta.
“Allora
non posso proprio tenerlo.”
Kagura
era sprofondata nuovamente nel suo mutismo. Non aveva parlato più parlato nella
fase finale della visita, né tanto meno durante il tragitto verso casa.
Così
Jakotsu decise di prendere in mano la situazione non appena chiusa la porta
dell’appartamento alle sue spalle.
“Dunque…
non sei così sicura che sia del tuo Leggendario Uomo?”
Lei
annuì con noncuranza, fingendo di trovare interessante il contenuto del
frigorifero e di pensare a cucinare la cena.
Il
ragazzo si appoggiò alla parete, le braccia incrociate sul petto. “E’ pur
sempre tuo figlio.” Mormorò, cercando di mantenere un tono calmo e confortante.
Kagura
sbatté il vaso di sugo che aveva in mano sul tavolo, alzando gli occhi al
cielo, furiosa. “Non è una cosa rilevante.” Sibilò, puntandogli addosso gli occhi infuocati. “Non è una cosa che ti
riguarda, perciò, stanne fuori. Ho già preso la mia decisione, e non tornerò
indietro.”
Un
silenzio pesante riempì la stanza, mentre lei tornava ad occuparsi dei
fornelli, voltando le spalle al suo coinquilino appoggiato alla parete.
“Mia
madre era sposata, quando rimase incinta.” Disse il
ragazzo.
“Mi
fa piacere per lei, ha avuto qualche problema in meno.”
Lui
scosse la testa, sbuffando una risatina. “Non era sposata con mio padre, però.”
Continuò. Notò, con piacere, che Kagura lo stava osservando con la coda
dell’occhio. “Lei e mio padre erano colleghi. E mio padre aveva già famiglia in
Giappone. Si trovava qui a Parigi per lavoro, doveva starci solo un anno. Però
iniziò una relazione con mia madre. Lei stava portando avanti un matrimonio
basato sulla reciproca indifferenza, trascinato semplicemente da qualche pseudo obbligo morale. Credo. In ogni modo, rimase incinta.
Non credo che sapesse subito con certezza chi fosse il
padre, ma comunque accettò il rischio. Era sposata da quasi dieci anni, e
nonostante tutte le cure del mondo non era ancora riuscita ad avere figli.
Forse pensava che non fosse tanto evidente da farlo notare al marito. Ma,
disgraziatamente, i miei tratti orientali si notarono prepotentemente sin dalla
nascita. Tra l’altro, sia mia madre che suo marito erano entrambi biondi, e io
avevo questa zazzera nera come la pece! Se ne sarebbe accorto persino un cieco.
Così suo marito l’abbandonò, proibendole addirittura il suo rientro a casa. Mio
padre era disperato: di certo non poteva aspettarsi che la sua ‘avventura’
avesse questo effetto! Però per i primi tempi accettò di far vivere mia madre
nel suo stesso appartamento. Lei sperava che sarebbe rimasto a Parigi, ma
invece se ne tornò, senza battere ciglio, ad Osaka.” Il ragazzo si avvicinò ad una sedia del
tavolo, la spostò e vi si sedette a cavalcioni.
“Così
mia madre si ritrovò senza casa e con un pargolo strillante a carico. E senza
lavoro, tra l’altro, perché quel bastardo del suo capo aveva fatto i salti
mortali per licenziarla. Anche i miei nonni le avevano voltato inizialmente le
spalle. Erano persone estremamente religiose, reputavano l’intera storia uno
scandalo inqualificabile. Fummo ospiti a casa di vari suoi amici. Qualcuno di loro ne divenne anche amante, più per interesse economico
che per altro. Si arrabattava con lavoretti occasionali, cercando di non farmi
mancare nulla. Poi finalmente, i miei nonni decisero che avevano fatto penare
la figliola abbastanza, e le permisero di tornare presso di loro.
Avevo
5anni, quando sbarcammo a Belle-Ile, il luogo
d’origine di mia madre. E’ un’isoletta molto bella, in Bretagna,
ma Souzon, il paese, è piccolo, e la gente
mormorava alle spalle di mia madre. Lei oppose a tutti i pettegolezzi una
stregua resistenza. E ce la fece a lungo. I miei nonni erano terribili, non
facevano altro che rinfacciarle tutto il disagio che le causavamo. Non hanno
mai mostrato qualche segno d’affetto nei miei confronti, e credo davvero che
abbiano permesso a mia madre di tornare solo per renderle la vita un inferno.
Quando dovetti iniziare le scuole superiori le chiesi di tornare a Parigi. Non
ne potevo più di quel paesino piccolo, mormorante e insignificante. Ma non
avevamo abbastanza soldi, mio nonno, tra l’altro, era anche morto da poco. Mi
promise che, se avessi pazientato, sarei riuscito a frequentare l’Università a
Parigi. Fece molti sacrifici, anche io lavoricchiavo a tempo perso, ma mantenne
la promessa, e riuscì a scappare da quel posto. Sarò sempre grato a mia madre
per quello che ha fatto per me. Anche se so di averle
dato un dispiacere, abbandonando gli studi. Mi sarebbe piaciuto davvero
riuscire a restituirle l’immenso favore che mi aveva fatto.”
La
donna l’osservava, appoggiata alla scalcinata cucina. Aveva lasciato perdere
pentole e fornelli e aveva dedicato al ragazzo tutta
la sua attenzione. “E non ce l’hai ancora fatta?”
Lui
scosse la testa, sorridendo tristemente. “Mia madre si è ammalata gravemente, ed è
morta quattro anni fa. Sono solo riuscito a farle passare i suoi ultimi giorni
qui a Parigi, la città che amava più di qualsiasi altro posto al mondo, e che
aveva dovuto lasciare per me.”
“Mi
dispiace… mi dispiace davvero tanto…”sospirò, avvicinandosi e prendendo posto
nella sedia accanto. “Tuo padre è mai più tornato?”
“Oh,
si. Qualche volta. Veniva, ma poi andava. Poi veniva, e andava di nuovo.”
Spiegò, sottolineando con un movimento della mano. “Pensavo di compiacerlo
imparando il giapponese. Ma non è servito a nulla, se non a comprendere gli Anime in lingua originale. Quando mia madre si è
ammalata è definitivamente sparito. Ho provato a contattarlo, ma si è reso
irreperibile.” Cercò di togliere il più possibile il
tono grave della sua voce, che non aveva potuto fare a meno di assumere nel
raccontare di sua madre.
“Quello
che ti volevo dire, Kagura, è che se mia madre si fosse
abbandonata ai suoi timori, io non sarei mai nato. Non sarei qui a
parlare con te, e lei avrebbe continuato la sua bigia quanto sicura esistenza. Con
qualche sicuro rimorso. Lei non ne aveva. Me l’ha detto in uno dei suoi ultimi
giorni: lei non aveva alcun rimorso, avrebbe rifatto tutto da capo.”
Kagura
posò una mano sulla sua, un contatto che apprezzò molto. “…e Bankotsu?”
“Sei
proprio curiosa, eh!” rise lui. “L’ho conosciuto quando
facevo il corso di fotografia e andavo ancora all’Università. Era un ex
compagno di scuola di Suikotsu, sai, il mio rivale.
Frequentavamo il corso insieme, e, sinceramente, avevo anche una mezza cotta
per lui. Mi piaceva quella sua personalità imprevedibile. Mi affascinava il
pericolo. Una sera Suikotsu lo invitò a mangiare una
pizza con noi del corso. Un colpo di fulmine, da parte mia. Lui era davvero
tutto quello che potessi desiderare: bellissimo,
forte, allegro, spontaneo e un amico leale. E un campione di arti marziali,
impegnato a prepararsi per le olimpiadi. Con la scusa del lavoro che dovevo
mostrare a conclusione del corso, gli proposi un servizio fotografico. Ho scattato una cinquantina di foto, in palestra mentre si
allenava. Poi ho scelto la più bella, quella in cui lui stava eseguendo un
esercizio, con i muscoli tesi nella penombra della palestra – l’ho chiamata Forza – e l’ho presentata. Beh, ho
ricevuto un sacco di lodi per quel mio scatto, davvero. E il servizio è
piaciuto tantissimo anche a lui. Mi ricordo che, per ringraziarlo, di quelle
foto ne feci un book e glielo diedi. Iniziò ad uscire con noi, tra un allenamento
e l’altro. A volte osavo addirittura sperare che uscisse con noi perché mi
trovava interessante. Ma mi sembrava impossibile. Era perennemente circondato
da ragazzine in fregola, che non aspettavano altro
che l’occasione buona per saltargli addosso. Occasioni che lui non si lasciava
di certo scappare.
Quando
mia madre morì, fu il primo a venirmi a trovare, e quello che mi stette più
vicino. Anche lui aveva perso sua madre da poco, mi capiva. Una sera, mentre
stavamo radunando le cose di mia madre da portare a qualche ente caritatevole,
ci baciammo. E da li nacque… tutto.”
Le
raccontò di come si sentiva bene con lui, ma anche di come lui avesse messo in
chiaro, sin da subito, che voleva tenere la loro relazione segreta. “Si
vergognava. E’ assurdo ma è così. Avrei dovuto capirlo
sin da subito che non sarebbe stata una cosa buona per me. Mi facevo bastare
quel poco che lui mi concedeva. Un vero idiota, eh?”
“Comprensibile”
alzò le spalle Kagura. Rimasero in silenzio per qualche secondo, con gli occhi
neri del ragazzo che saettavano da un lato all’altro della stanza, indecisi.
Poi si decise. “Ora che ti ho raccontato la mia storia, muoio di curiosità per sentire la tua.”
Lei
inizialmente girò la testa dall’altra parte, quasi risentita delle sue parole.
Sospirò, titubante, abbassando gli occhi sulla superficie lignea del tavolo.
Tamburellò con le dita. “La mia storia è molto diversa dalla tua.” Iniziò. “E non è affatto piacevole da ascoltare, ed è
difficile per me raccontarla.” Sospirò nuovamente,
appoggiando il mento sulle braccia. “Quando avrò finito, capirai perché non
voglio tenere il bambino.”
“Ti
ascolto.”
“La
mia famiglia era –è –molto ricca. Mio
padre era un imprenditore molto importante nel mio Paese, ha proprietario di un
colosso multinazionale. I miei genitori adoravano
letteralmente mio fratello, il loro erede.
Lo viziavano, gli davano ragione in tutto e per tutto. Ed io per loro…beh, ero
l’altra. Nemmeno io sono stata una
bambina cercata e voluta. Sono capitata. Ma per loro non aveva alcuna importanza.
Mio fratello era il loro orgoglio e niente e nessuno poteva abbatterlo. Già da
bambino era arrogante e saccente, insopportabile. Mi considerava la stregua di
un giocattolo, di una bambola, da vessare in ogni modo. E questo suo atteggiamento
peggiorò con l’età.”
Le
braccia della donna erano ora stesse sul tavolo, le nocche strette tra di loro,
bianche. “Lui mi considerava una sua proprietà, e ben presto le angherie di un
bambino viziato divennero i soprusi di un adolescente prepotente, e le
umiliazioni di un giovane violento e arrogante. La prima volta che mi mise le
mani addosso, io avevo quattordici anni e lui diciassette, riuscì a scappare e
corsi dai miei genitori. Loro non cedettero ad una parola di quello che gli
raccontai, ma, anzi, mi accusarono di cercare di rovinare mio fratello, di
provare un’invidia così forte nei suoi confronti da volerlo distruggere. Non
riuscì a sfuggirgli una seconda volta.”
Jakotsu
la guardò a bocca aperta, gli occhi spalancati dal terrore. “Non è possibile…”
“Oh,
invece lo era, lo era eccome. Come ti ho già detto,
mio fratello mi considerava una sua proprietà personale. Ben presto se ne
accorsero anche i miei genitori, ma non fecero nulla, per non creare uno
scandalo, gli chiesero, senza rimproverarlo, di smettere, e cercarono di
tenermi sotto controllo. Di sera mi chiudevano in camera mia, e nascondevano le
chiavi. Una soluzione semplice, no? Quando la situazione stava sfuggendo loro
di mano, e Naraku, mio fratello, era diventato ormai
abbastanza grande da poter definire questa sua ossessione pericolosa, mi
diedero il permesso di venire a studiare a Parigi. I mesi che passai qui sono stati i più belli della mia vita. Ma dovetti
tornare indietro, quando Naraku mi chiamò per
informarmi che i nostri genitori erano deceduti in un incidente con il loro
elicottero. Sprofondai nell’inferno più cupo. Senza mio padre e mia madre, Naraku non aveva freni alla sua ambizione. Mi costrinse ad
accettare un incarico in una delle aziende di famiglia, sotto sua stretta
sorveglianza. Strinse accordi con le più potenti associazioni mafiose della
nazione, e lui stesso divenne uno dei capi fondamentali. Costruiva il suo
impero scellerato sulle mie spalle, facendomi muovere come una marionetta a suo
piacimento, gettandomi tra le braccia di chi credeva utile per una
collaborazione.”
“E
non hai mai cercato di scappare?” il ragazzo era stupito. Mai e poi mai si
sarebbe aspettato un racconto simile.
“Oh,
si. Eccome. Ma, come ti dicevo, ero sotto stretta sorveglianza. L’illimitata
ambizione di Naraku, però, lo portò a voler stipulare
un accordo un un’altra importantissima azienda della
città. Come da copione, mandò me a fare le sue veci, a presentare l’accordo e a
cercare di sedurne il titolare. Cosa che, puntualmente accadde. Ma mio fratello
non aveva fatto bene i conti di chi si trovava davanti. Mi aveva spinto tra le
braccia di un uomo più intelligente e duro di lui; un uomo che non scendeva a
compromessi con nessuno, e che non avrebbe ceduto a alcun accordo, né a nessun
ricatto.”
“Sesshomaru?
Il tuo Leggendario Uomo?”
Kagura
annuì, le dita che si stringevano meno nervosamente tra di
loro, gli occhi che si velavano di malinconia. “Tra me e Sesshomaru nacque
quasi da subito un’intesa. Non credo si potesse
definire amore. Io avevo bisogno di evadere dalla mia realtà quotidiana, e a
lui piacevano le donne e le avventure. Era un appassionato di film di 007. Il
soprannome Vesper
viene da lui. Era il nome in codice che usavamo al telefono. Io lo chiamavo James Bond e lui Vesper Lynd. Che
stupidaggine. Ma poi le cose crebbero. Io gli fornivo informazioni su come
ripararsi dai danni che il mancato accordo tra la sua azienda e la nostra gli
avrebbe portato. Diventammo assidui amanti, ci incontravamo ogni giovedì sera,
in segreto. Dovevo uscire di nascosto dalla siepe, per incontrarlo. Con lui
passavo le poche ore libere che potevo concedermi. Le ore in cui stavo bene. Ma
a mio fratello non sfuggirono i nostri incontri. E…
beh, ci tenne a ricordami, con i suoi metodi, che ero proprietà sua.”
Fu
Jakotsu ora a cercare la sua mano e a stringerla convulsamente.
“Ma
fu disattento, e sicuro di avermi sufficientemente ridotta ad uno stato
inoffensivo, ed io non avevo nulla da perdere. Riuscì a sfuggirgli. Calandomi
dalla finestra, ci credi? Dovetti ricorrere alle cure del pronto soccorso… E
dovetti chiamare Sesshomaru, perché il medico di turno si rifiutava di
dimettermi se non fossi stata accompagnata. Ero messa
abbastanza male: costole incrinate e dolori ovunque. Sesshomaru arrivò in un
battibaleno, e mi portò con sé. Credo che mi abbia davvero salvata. Mi ha
aiutato, confortato, ha cercato di tenermi al sicuro.”
“Bravo!”
esclamò il ragazzo. La storia di Kagura era terribile, provava rabbia al
pensiero che il suo feroce aguzzino altro non era che
suo fratello. Ma, allo stesso tempo, le invidiava quel’uomo che, dalle sue
parole, sembrava un principe azzurro uscito dalle fiabe.
“Passai
con lui un paio di settimane, nascosta a casa sua. Sapevo che mio fratello
cercava di stanarmi e che gli stava rendendo la vita impossibile, colpendo
illecitamente la sua azienda. Così decisi di agire. Mi avvalsi della
collaborazione del fratello di Sesshomaru – una testa calda diciassettenne- e
dei suoi amici, e penetrai all’interno della nostra azienda, nottetempo. Filmai
tutto ciò che poteva risultare compromettente. Compreso il racconto di quello
che avevo subito. I ragazzi consegnarono il filmato alla polizia. Spero che sia
andato a buon fine.”
“In
che senso, scusa? Non sai se…”
“No.
Era troppo pericoloso per me, restare dove ero. E avrei trascinato
ulteriormente nei guai Sesshomaru. Così finsi il mio suicidio. Gettai la mia
auto da una scogliera, con alcuni miei effetti personali all’interno,
quella sera stessa. La vita di Kagura Onigumo
finisce lì.
Poi
mi diressi verso un ricettatore che conoscevo, e che aveva reso dei servizi a
mio fratello, e mi feci dare dei documenti falsi. Si, esatto, il mio passaporto
è falso. Infine, il biglietto per Parigi e il primo volo al
mattino.”
Jakotsu
non trovava le parole. Ammirava la forza di volontà della donna, la sua
determinazione, la sua forza. Lui non ne sarebbe mai stato capace. “E’ tutto
incredibile” mormorò.
“Mi
dispiace di averti mentito sulla mia identità.”
Lui
alzò le spalle. “Figurati. Sarebbe stato meglio per te essere una spia russa,
che aver vissuto quella vita d’inferno.”
La
donna annuì, sorridendo tristemente. “Ma ora sono un’altra persona, sono
libera, e non permetterò che la mia vita venga
rovinata.” Il ragazzo l’abbracciò, accogliendo sulla sua spalla il suo pianto
liberatorio. La lasciò sfogare, accarezzandole la schiena.
“Tieni
il bambino, Kagura.”
“Potrebbe
essere il figlio di Naraku.”
“Non
sarebbe colpa di tuo figlio. E poi il padre potrebbe essere davvero Sesshomaru.” La fissò negli occhi gonfi di pianto. “Tu lo ami ancora. Hai
l’opportunità di avere una parte di lui sempre con te. E non è una fortuna che
capita a molti.”
La
donna scosse la testa. “Non posso. Non sarebbe giusto. Non voglio rischiare di
partorire il figlio di una violenza. Come potrei crescerlo?”
“Dagli una possibilità.” Insistette Jakotsu. “Appena nato
faremo il test di compatibilità genetica. Se la compatibilità tra te e il
bambino sarà solo del cinquanta per cento, allora il padre è l’uomo che ami.
Altrimenti…”
Lei
scosse di nuovo la testa. Lui la pregò. “Non meriti rimpianti, Kagura. E così
facendo li avresti. Concedigli una possibilità. Potrai darlo in adozione, se
non vorrai tenerlo, ma non toglierti la possibilità di avere una persona che ti
amerà davvero.”
“Non
è vero che i figli amano sempre i genitori. Io li ho odiati a morte.”
“E’
impossibile odiare una persona come te.” Un lampo di
incredulità balenò negli occhi della donna. “Hai tanto da insegnare, tanto da
dare. Kagura, concediti la possibilità di ricevere quello che meriti.”
La
vide interdetta, senza parole, abbassare di nuovo lo sguardo, stupita.
Di
certo non si aspettava quelle parole da uno semisconosciuto. Jakotsu fu lieto
che avevano avuto un seppur vago effetto. “Riflettici. Te ne prego. Non ti
chiedo di promettermi nulla. Ma pensaci bene.”
Alzando
gli occhi verso di lui, la donna annuì, l’ombra di un sorriso sulle labbra
scarlatte.
“Bene,
per ora può bastare, direi.” Annunciò il ragazzo, alzandosi in piedi.
“Scrolliamoci di dosso tutta questa mestosità…”
“Mestizia” lo corresse
lei, asciugandosi le guance. Lui alzò gli occhi al cielo. “…mestizia, così sia,
e infiliamoci qualcosa sotto i denti. Cosa avevi intenzione di cucinare prima?”
Lei
alzò le spalle. “Il frigo è vuoto, come sempre. Prima spostavo le pentole
giusto per fare qualcosa.”
L’altro,
sospirando, prese il telefono in mano, proponendo una pizza. “Gusti
particolari?” domandò, digitando il numero della pizzeria d’asporto all’angolo.
Ancora
seduta al tavolo, la donna fece un segno vago con la mano. “Doppia mozzarella e
acciughe”
“Bon Soir,
volevo ordinare una pizza con i funghi e una con doppia mozzarella e acciughe…”
“E
peperoni!”
“…Ci
aggiunga anche peperoni, s’il vous plait.”
“E
salsiccia!”
“Se
è possibile anche salsiccia…”
“Facci
aggiungere la rucola e i funghi…ti prego. E’ da un secolo che non li mangio”
“Va
bene, facciamo così: metta tutto quello che è possibile metterci. Salumi,
formaggi, cani, gatti… tutto quello che può. Come? Ah, no, è solo incinta. E ha
già iniziato con le voglie. Pensi un po’, è solo al primo mese… e… come? Ma come
si permette!” strillò, riagganciando con aria offesa
Kagura
gli rivolse uno sguardo incuriosito. “Quel cretino del pizzaiolo ha consigliato
A ME di stare attento, la prossima
volta!” spiegò, livido in volto dallo sdegno.
La
donna non ce la fece a rimanere seria. Scoppiò a ridere di gusto. “Non volevi
fare il donatore di seme?”
Jakotsu
incrociò le braccia risentito: non ci trovava nulla da
ridere.
Ok,
capitolo lungo e tedioso… Scusatemi per questi primi capitoli, erano necessari.
Ora cercherò di rendere la storia più interessante e meno pesante… Ho dovuto
inserire qualche spiegazione, direttametne da This Time Around, per chi non ha
letto la mia precedente Fic da cui è stato tratto il
personaggio di Kagura.
Scusassero lor signore…
Ad
ogni modo, ringrazio sentitamente le mie fedeli recensore. I commenti sono
vitali per me, e non disdegno mai critiche o suggerimenti. Apprezzo
sentitamente.
Grazie
e scusate ancora per questa palla che vi sto rifilando….