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Autore: David89    07/03/2009    3 recensioni
...Era lì. Potevo ucciderlo, fargli saltare il cranio. Premere il grilletto. Si, era lontano, ma in Russia addestrano anche i migliori cecchini del pianeta. Dicono. Cosa, cosa m'ha spinto a non ucciderlo? La croce del mio M40 con la sua bella faccia in mezzo. Vento leggermente da Ovest. Stavo mirando alla donna a fianco a lui, sapendo che tanto avrei colpito la sua fronte, un buco in testa. PUM! Un lavoro pulito. Sarei ora in qualche isola del Pacifico. Sole, caldo, soldi e donne. Cosa potevo desiderare di più?...
Genere: Thriller, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Bersaglio. Capitolo 2

Dedicato a chi ha apprezzato il primo capitolo.

Capitolo 2.



Cling. Cling... cling.
Porca vacca.
I proiettili erano caduti al suolo, producendo quell'inconfondibile rumore metallico. 7.62 mm NATO. 
Piotr, il mio fornitore di fiducia, li chiamava anche “supposte per il culo”.
Dovevo chinarmi dalla sedia e rischiare di capottarmi per dei fottutissimi proiettili? Due li avevo visti, lì davanti ai miei occhi, a fianco del comodino. L'altro chissà dove era finito. Presi quelli a vista. La mano sinistra a reggersi sulla gamba del tavolo. Il terzo era probabilmente rotolato sotto al letto.
Cazzi suoi, pensai, mentre inserivo le supposte dentro la scatola, che prima sbadatamente avevo urtato.
Di fronte a me la mia donna. Il Fucile più bello del mondo, il mio fiorellino. Lo pulivo, ad ogni uso. Lo smontavo, pulendo ogni pezzo, con una cura maniacale. E poi mi divertivo a rimontarlo, come se fossi stato un ragazzino.
A fianco la custodia rigida che mi portavo da quando l'avevo fregata a quel trafficante. Era una valigetta per l'esplosivo, simile a una ventiquattr'ore, solo un po' più grande, ma dentro ci stava benissimo il mio M40, e così non dava neanche nell'occhio.
A sinistra la finestra che dava al municipio. E prima un piccolo parco, dove solitamente vedevo bambini giocare, con le madri nei pressi, a spettegolare come al solito.
Erano le 7.
A quest'ora sarà uscito di casa, pensai, mentre guardavo l'ora sul mio orologio russo al polso.
Le 7.01 in quest'istante, pardon. A quest'ora sarà in macchina.
Staccai il mirino telescopico Unerlt dal fucile, e lo usai a mo' di cannocchiale. Mi affacciai alla finestra. Bambini, strade, alberi, altre persone, macchine, altre macchine.
Erano le 7 e due minuti, ma c'era già movimento fuori.
Dovevo ancora fare colazione, ma volevo aspettarlo. Capire quanto ci metteva ad arrivare al lavoro.
Abbassai le veneziane, e un buio imperversò nella camera. Amavo stare al buio. Solo dei piccoli raggi di luce entravano nella stanza, dalle fessure delle veneziane.
Rimasi a guardare fuori, protetto dalle veneziane, cui facevo uscire appena appena il mirino.
Alle 7.23 arrivò la macchina. Sempre la solita fottuta giacca del cazzo. Blu come anche la giacca dei bodyguard. Se non mi avessero dato la Sua descrizione, probabilmente avrei potuto colpire gli energumeni che lo scortavano. E lui sarebbe rimasto illeso, già al sicuro. E io fottuto, come un coglione.
Basta, ho fame.
Riattaccai il mirino all'M40. Smontai in due parti il fucile, per farlo entrare nella valigetta. La chiusi con la combinazione, e la riposi dentro l'armadio.
Uscii.
Per le strade, la città era come se fosse nell'orario di punta.
Gente che a passi svelti, sbucava da dietro gli angoli, probabilmente per recarsi in tempo al lavoro. Macchine che nel traffico cittadino clacsonavano all'impazzata, imbottigliate negli incroci, con i semafori impazziti. Diamine, neanche a New York c'è un casino così.
Alzai gli occhi al cielo. Era sereno, c'era solo qualche nuvola bianca, appena accennata, appena dipinta su quel blu che stonava con il grigio della città.
Riabbassai gli occhi. Era verde. Attraversai le strisce pedonali, assieme ad altra gente. Gente d'affari, semplici cittadini, qualche barbone che la gente evitava con buffi slalom.
Davanti a me un bar. Varcai la soglia della porta, mentre un campanellino annunciava il mio ingresso, al tocco con quest'ultima.
Alcune facce mi guardarono per qualche istante, d'istinto mosse dalla curiosità di sapere chi entrava. Non ero tra le loro conoscenze: tornarono a quello che facevano prima. Mi avvicinai al bancone.
Caffè e un tramezzino al formaggio. Il menu meno costoso, e quello più preso dai clienti di quel bar.
Sapevo di aver fatto la scelta più giusta, nonostante odiassi il formaggio, per giunta dentro al tramezzino. Ma sapevo quello che facevo, e sapevo che mi avrebbe aiutato, nel futuro.
Il proprietario si apprestò a servirmi, senza obiettare. Mi diede quello che ordinai, e mi guardò, aspettando di essere pagato. Tirai fuori qualche moneta dal portafoglio, e gliela posi sul bancone, senza dire niente.
La mano destra a reggere il caffè, contenuto in un bicchiere della Coca, la sinistra a reggere il tramezzino. Con la punta del piede aprii la porta, infilandola in una piccola fessura. Poi, con un colpo di muscoli, tirai la porta verso di me, e questa si aprii quanto basta per farmi passare, e poi richiudersi immediatamente.
Alternavo il bere e il mangiare, mentre facevo qualche giro per la città, a guardar le vetrine dei negozi, attratto dai manichini femminili, che erano sempre vestiti con un bikini e un reggiseno.
Nessuno che si curava di me, che mi guardasse, anche per qualche secondo, o qualche istante. Ognuno era preso dai suoi pensieri, dai problemi al lavoro, ai problemi in famiglia, al marito, alla moglie, ai figli, allo strozzino a cui dare i soldi, al regalo da fare all'amante.
Li guardavo quasi dall'alto in basso. Io, che stavo con una che era come me, assassina e spietata. Ci sentivamo solo quando non avevamo niente da fare, cioè mai. Quando avevo qualche lavoretto da fare, lei era a riposo; e viceversa. Nessuno di noi portava niente dell'altro. Né una foto, una lettera, un rossetto, un capo di biancheria come ricordo. Per chiunque fosse interessato a noi, io e lei non stavamo assieme, e non lavoravamo per la stessa Agenzia.
Si chiamava Emily. Ma per l'Agenzia era Agente 34E. Ed E non stava per Emily.
Io invece ero l'Agente 12C. E C non stava per l' iniziale del mio nome, ma per Cazzone.
Finii di mangiare il mio tramezzino in fretta, trattenendo una smorfia di disgusto, appena sentii la sottiletta di formaggio tra i denti, e il caffè che era rimasto lo ingurgitai in un colpo solo.
Le 9.56. Avevo tutta la mattinata per me. Potevo comprarmi qualche vestito, andare al parco e guardare la gente che passava. Ero sicuro di essere coperto dal perfetto anonimato. Nessuno in questa città mi avrebbe riconosciuto, in qualche foto segnaletica, o in qualche mio identikit sul giornale. Forse il barista? No, avevo preso il menu più in voga. Quasi tutti lo prendevano, e di certo non si sarebbe ricordato di me. Avevo pagato in contanti ovunque. Non potevano rintracciarmi.
Mi guardai attorno, per decidere sul da farsi, ma preferii tornare in albergo.
Nessuno alla reception. Salii le scale che portavano alla mia stanza. La 34. Era un caso?
Il letto sfatto, la stanza nel completo buio. Avevo dato disposizioni precise, come tutti dell'albergo del resto. Che nessuno faccia niente in camera mia. Ero capitato nel posto giusto, perché quasi tutti i clienti della topaia non volevano inservienti a rovistar nella loro stanza.
Difatti la figa che doveva pulire le camere, se ne stava a spazzar polvere nei corridoi, minacciata dallo stesso proprietario di non azzardarsi ad entrare in nessuna camera dei clienti.
Pensai a lei, e pensai subito a Emily.
Mi distesi sul letto.
Mi addormentai.

  
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