Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: fireslight    20/12/2015    3 recensioni
[Crossover: Sense8 – Game of Thrones]
Di fronte a lui, dall’altra parte dello specchio, vi era una ragazza. Aveva circa la sua età.
Poco più bassa di lui, minuta, lunghi capelli biondi tendenti all’argento, era intenta a sistemarsi un asciugamano poco sotto il seno. Jon abbassò lo sguardo per un momento, certo che fosse solo un’illusione.
[..]
Daenerys lo vide da lontano, e lui vide lei. Si scambiarono uno sguardo a diversi metri di distanza, mentre lui si fermava nel bel mezzo del viale e nessuno sembrava essersi accorto della sua presenza. Era alto, slanciato, i capelli neri come pece, l’espressione lievemente concentrata dalla corsa.
Gli immancabili auricolari alle orecchie che si tolse in quell’esatto momento.

[Jon/Daenerys♥][AU – 21°century][Crossover, What If • Slice of life, Dramatic, Introspective]
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daenerys Targaryen, Jon Snow
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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III


Lui e Sam avevano girato apparentemente senza meta per il resto del tardo pomeriggio, quando quest’ultimo aveva finito il turno in commissariato e Mormont lo aveva lasciato andare non senza trafiggerlo con un’occhiata che aveva del sospettoso e del paterno insieme.
«È un brav’uomo, Sam.» stava dicendo Jon, cercando di cambiare argomento.
«Certo che lo è, solo che qualche volta..» interloquì lui, «qualche volta è come se dimenticasse quanti anni abbiamo e che il commissariato non è una scuola elementare. Insomma, sappiamo cavarcela, no?»
«Puoi ben dirlo.»
Mancavano circa un paio di ore all’incontro con Daenerys, anche se non era del tutto certo che entrambi potessero gestire questa cosa dell’apparire quando volevano nella vita dell’altro, soltanto desiderandolo. No, davvero, ma forse bastava pensarci.
«Sam, a proposito di questa mattina..»
«Alla fine chi era la norvegese?» fece quello, curioso.
«Ehm, proprio di questo io−»
Squillò il telefono. Sam lo tirò fuori dalla tasca della giacca, mormorando un arrivo subito, dammi cinque minuti, e Jon scosse il capo, irrequieto. Avrebbe dovuto parlare al suo migliore amico di questa ragazza che vedeva solo nella sua testa, senza un motivo apparente? Non ne era sicuro, ma qualcosa gli fece presagire che, se l’avesse fatto, niente sarebbe stato come prima.
«Ehi, stavi dicendo a proposito della norvegese?»
«Nah, niente. A quanto pare aveva sbagliato numero.» mentì, di riflesso – nonostante gli dispiacesse, alla fine − «A volte capita.»
Camminavano sulla Quinta Strada già da un po’, quando Jon si era fermato a prendere due pizze da portare a casa e Sam, perplesso e con un sorrisetto consapevole in volto, gli aveva chiesto: «Ospiti a cena?» e lui aveva risposto, con disinvoltura: «No, ma non ho mangiato a pranzo.»
Mezz’ora dopo essere arrivato a casa, Jon aveva preso un paio di lattine di Coca Cola dal frigo e portato le pizze sul tetto, ancora calde e fumanti.
Si affacciò alla ringhiera sul cornicione in cemento, scrutando la città dall’alto. Lì, alla sua sinistra, c’era Central Park, illuminato di luci per tutta la sua ampiezza, nei suoi viali come una foresta dorata; l’Empire State Building si intravedeva da lontano, la facciata illuminata d’argento, come un gigante di ghiaccio in una landa di edifici simili, un panorama di colori che si estendeva da una parte all’altra della città.
Jon pensò a quella busta sul piano della cucina, lì dove l’aveva lasciata quel pomeriggio, dopo essere tornato a casa e aver chiamato Sam, di nuovo a New York..
Una busta che alla fine conteneva probabilmente una buona parte del suo futuro.
«C’è una bella vista.»
Jon sorrise, continuando a fissare la città davanti a sé, senza scomporsi. Sapeva per certo a chi appartenesse quella voce dall’accento straniero, musicale.
«Uno dei pochi vantaggi nell’abitare qui.»
Daenerys si sedette a terra a gambe incrociate, facendogli cenno di imitarla. Jon, allora, prese le pizze rimaste lì nei loro cartoni color sabbia, poco distanti.
«Uh, cena sul tetto alle dieci-e-mezza-di-sera, ma che carino.» rise divertita, scostandosi una ciocca argentea dal viso, guardandolo per poi esclamare: «Cavolo, ma come sapevi che era la mia preferita?», all’indirizzo della propria pizza.
Al che Jon si fece pensieroso, riflettendo tra sé per un momento con un sorriso in volto.
«A dire il vero, non so.» disse, «Probabilmente è per questa, be’, per questa connessione. Ci conosciamo meglio di quanto non vorremmo.»
Lei rimase in silenzio forse meditando su ciò che lui aveva appena detto.
«E tu,» riprese poi, come se nulla fosse, «che ci fai proprio qui, a New York?»
«Diciamo pure che sono scappato. Da Londra.»
«Una volta ci sono stata a Londra.» fece lei, posando la propria lattina di Coca Cola.
«E come l’hai trovata?»
Jon la osservò attentamente. Da che ne ricordava, Londra gli era sempre parsa una città ricca di storia, certo, ma triste e perennemente affogata nell’acqua delle proprie nubi.
Era una città malinconica, il che gli aveva fatto capire, non molto tempo dopo, come non facesse per lui.
Città e persone e anime malinconiche erano pessime combinazioni.
«La definirei malinconia.» Daenerys tornava indietro nel tempo, a volte, perdendosi nella coltre spessa e invisibile dei suoi ricordi. «Perennemente grigia, piovosa. Preferisco di gran lunga Oslo. Ma tu,» riprese, testarda, «perché te ne sei andato?»
E se non era connessione con i suoi pensieri, quella..
«Mia madre è morta quand’ero piccolo, mio padre non l’ho mai conosciuto. Così mio zio Eddard, il fratello di mia madre, mi ha praticamente adottato.» i primi tempi erano stati i più duri. Jon chiedeva spesso dove fosse sua madre, nonostante sapesse che non sarebbe più tornata, cercando in quella nuova famiglia un affetto che aveva ricevuto a tratti, ma non da chi avrebbe realmente voluto. «Sono cresciuto con i suoi figli, con cui vado d’accordo. L’unico punto dolente era−»
«Fammi indovinare.» mentre lui aveva finito la pizza da qualche minuto, Daenerys era ancora a metà e mangiava lentamente, gustando ogni boccone come se quella cena fosse la migliore da settimane. «La tua matrigna, eh? Di solito sono quelle, il problema.»
«Be’, in effetti sì. La signora Stark è sempre stata convinta che avessi voluto soffiare al marito l’affetto per i suoi figli in mio favore. Il che non era assolutamente vero.»
«Volevi solo un po’ dell’amore che avevano i tuoi cugini, no? Una famiglia.»
«Credo di sì. Poi, a quindici anni ho vinto una borsa di studio, sono andato a vivere in Spagna per un po’. E tre anni fa ho preso il primo volo per New York.»
La vide sorridere malinconica. Forse, a conti fatti, non erano poi così diversi: avevano perso la possibilità di costruirsi e avere una famiglia come tutte le altre. Erano i sopravvissuti di una guerra combattuta con lacrime silenziose e mai versate, vivendo di ricordi che li corrodevano come acido dall’interno.
«Tuo zio.» fece lei qualche minuto dopo. «Ti voleva bene?»
«Diceva che somigliavo molto a mia madre, che gliela ricordavo. Mi ha sempre trattato come un figlio. A sua moglie non andava giù, e quindi ha pensato bene di rendermi la vita, be’, un inferno
Si erano seduti sul cornicione del tetto, osservando il centro della città da lontano, come sentinelle di ghiaccio nella notte.
«Un po’ triste come storia.»
Jon notò che la voce le si era incrinata. Inarcò un sopracciglio, sorridendo.
«Non stai piangendo, vero?»
Lei rise, nervosa e scocciata insieme, con una punta di incredulità. Si voltò a guardarlo, le spalle di entrambi così vicine da potersi toccare.
«Certo che no, Jon Snow. Ti sembro forse il tipo di ragazza che versa lacrime amare per le disgrazie altrui? Nah, ho solo freddo.»
«Vieni qui.» le disse, cingendole le spalle minute con un braccio. Daenerys si poggiò a lui, il capo nell’incavo fra il collo e la spalla.
«Mh, si sta meglio.» rise, e Jon potè sentire l’odore della sua pelle, di neve e rose e ironico sarcasmo, perché era fatta così ed erano un po’ come anime naufragate nei rispettivi, tempestosi oceani.
«Davvero?»
Lei alzò appena il capo per rispondere, i volti così vicini da poter sentire il respiro del ragazzo sulla pelle, caldo e rassicurante. Prima che potesse ribattere con una delle sue brillanti, colorite battute, Jon la baciò.
                                                                 
«Trasferimento?»
«Sì, signore.»
Mormont pareva tranquillo, quella mattina, con la sua sempre perennemente tazza piena di caffè zuccherato nella destra, penna degli Yankees nella sinistra, block-notes davanti a sé. Quello sguardo immancabilmente scettico che assumeva ogni qualvolta trovasse qualcosa non in esatta, precisa linea con i suoi pensieri.
«Hai inoltrato una richiesta di trasferimento per−» il vecchio s’interruppe, prendendo un sorso di caffè e ispirando forte, come per prepararsi a sgridare un nipote eccessivamente vivace. «Oslo, Norvegia, Europa?» lesse ad alta voce dal foglio sotto i suoi occhi.
«Sì, signore.»
Calò il silenzio. Mormont lo osservò a lungo, e Jon ricambiò l’occhiata − a detta di Sam, tra il sospettoso e il paterno. Si fissarono a vicenda per quelli che a Jon parvero lunghi, interminabili minuti.
Poi, altrettanto quietamente, Mormont posò il fascicolo relativo al suo curriculum sulla propria scrivania ordinata. Jon pensò che avrebbe sospirato − di nuovo, − si  sarebbe poggiato allo schienale della sedia girevole − un’abitudine mai del tutto persa − e poi avrebbe fatto quel suo sorrisetto da vecchio nonnino consapevole.
E così accadde, in effetti.
«Qualcosa mi fa pensare, Snow,» e sorrise, dannazione, aveva indovinato − «Che tu abbia battuto la testa da qualche parte, tra questa mattina e l’intera giornata di ieri. Ho ragione?»
Gli fece un cenno distratto verso la sedia, e Jon si sedette, rigido.
«È fattibile, signore?»
«Fattibile..» Mormont finì il suo caffè con la rigida calma di un lord inglese. «Cosa, esattamente, dovrebbe essere fattibile, ragazzo?»
«Il mio trasferimento a Oslo, signore.» replicò lui, paziente.
«Il tuo−» Jon ebbe l’impressione che, da un momento all’altro, sarebbe potuto saltare giù da quella sedia e andarsene via, uscire da quell’ufficio e non tornare mai più. Una volta, quando un agente particolarmente in vista aveva mancato la cattura di un pericoloso criminale, Mormont l’aveva fatto: era rimasto in silenzio qualche minuto, poi si era alzato, zoppicando appena per via di quella vecchi ferita di guerra − “Non ci sono più i giovani di una volta”, aveva borbottato − e se n’era andato via, senza una parola, sotto gli occhi esterrefatti del sopracitato poliziotto.
«Oh, sì, vedrò cosa posso fare, Snow. Ma ti avverto..» così dicendo, si era guardato intorno come per assicurarsi che nessuno potesse sentirlo, «Non ci sarà più un agente come te, Snow, in questo commissariato. Mi venga un colpo se qualcuno acciufferà di nuovo tutti quei figli di puttana drogati e violenti che hai buttato al fresco, eh.»
«Ho fatto solo il mio dovere, signore.» si schermì con un sorriso. «Ho fatto ciò che qualunque agente avrebbe fatto.»
«Ah!» Mormont aveva colpito il legno della scrivania con una mano, facendo cadere qualche post-it a terra in piccoli mulinelli d’aria e barcollare pericolosamente la tazza edizione limitata anch’essa dei New York Yankees, «Sciocchezze, ragazzo, e tu lo sai. Ho sempre avuto l’impressione che tu e quel tuo amico Simon−»
«Sam, signore.»
«Sì, be’, è come se aveste sempre condotto una sorta di crociata personale, mi spiego?»
«Credo di sì, signore.» annuì, sebbene non fosse mai stato del tutto certo di aver condotto una sorta di crociata solamente facendo il proprio lavoro, che era anche l’unica cosa per la quale fosse tagliato.
«Bene, Snow. Mi dispiace davvero lasciarti andare, ragazzo, ma se è il fottuto freddo norvegese che vuoi, chi sono io per impedirtelo?» e allargò le mani ossute ma ancora incredibilmente forti come a dire che lui non poteva farci niente.
Quella domanda, come Jon aveva precedentemente afferrato, non necessitava davvero di una sua risposta. Aveva ringraziato Mormont con un cenno del capo, sicuro che il vecchio lo avrebbe interpretato com’era solito fare: all’inizio, quand’era entrato in quel commissariato, Mormont era stato il primo a credere in lui e nelle sue capacità.
Uscì dall’edificio sentendosi quasi più leggero, immergendosi nel traffico umano della Quinta Strada che a quell’ora sembrava non poter dare tregua a nessuno. Mezz’ora dopo essere tornato a casa, Jon cominciò a fare le valigie.
 
 

 

Note dell'autrice.
So di essere una persona davvero pessima, sì. Mi spiace aver fatto penare chi, magari, si aspettava un aggiornamento più immediato, ma non ho proprio avuto tempo.
Vorrei soltanto spendere due parole in più del solito: all'inizio, dato l'universo di Sense8, sapevo che Jon e Daenerys facessero già inconsapevolmente parte di una cluster che, a conti fatti, deve ancora formarsi e conoscere; ho davvero tutto in testa, giuro, ma questa mini-long è dedicata a loro. Possibile che più in là, a mente serena, scriverò qualcosa in proposito, magari una raccolta, non so davvero. Anche se mi piacerebbe davvero, proprio tanto.
Questo terzo capitolo, inoltre, è il penultimo della long.
Ringrazio chi ha recensito finora - Farkas, papergirl e pandamito - e chiunque abbia preferito leggere silenziosamente: sappiate che sarei davvero felice di sentirvi!
Alla prossima,
fireslight.



PS:
Merry Christmas!
  
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