"Cosa vuoi farmi leggere?" chiedo, per l'ennesima
volta. Ewan mi zittisce con un gesto. Per l'ennesima volta. Nel tragitto tra casa
mia e quella di Endre non ha praticamente detto una parola, e comincio a sentire
una strana tensione alla bocca dello stomaco. Ora sta cercando qualcosa di indefinito
nella sua valigia, che non è ancora stata disfatta.
"Eccola qui!
Sapevo di averla conservata!" esclama, soddisfatto, porgendomi un foglietto
spiegazzato. La scrittura è aguzza, e ricorda quella di un bambino che
ha imparato a scrivere da solo. Ewan sorride. "Endre mi ha spedito questa
lettera circa quattordici anni fa. All'epoca si era trasferito da poco in Italia,
e mi mandava fino a venti lettere al mese. Credo che gli mancasse Londra. Voglio
che tu la legga."
Spiego il foglio, passandolo tra le mani, e lo osservo
da vicino.
"Caro Ewan,
Ti scrivo per non
impazzire. Esiste forse un miglior motivo per scrivere? Mi sembra che fissare
i miei pensieri sulla carta dia una dimensione alle cose, le renda reali, palpabili,
vere. Perchè è come se stessi vivendo un sogno, qui. Uno di quelli
strani, né belli né brutti, in cui non desideri altro che svegliarti
e tornare a una realtà che non ti dia il capogiro. Ma dov'è il mio
pezzo di realtà?
Vivo in una grande casa con duemila stanze inutili.
Lo zio ha voluto che portassi Inga con me, e sebbene questo dovrebbe confortarmi,
non fa altro che ricordarmi che questo non è il mio posto. Non era il mio
posto neppure la villa di Londra, dove non ero altro che l'ospite dello zio Blanc.
Non era il mio posto, prima d'allora, l'angusto appartamento di Parigi in cui
la gente piangeva mia madre. Chissà se avrò mai un mio posto.
La
città è bellissima. Dovresti vederla. Le lezioni di italiano che
lo zio Blanc ha tanto voluto sono servite, perchè credo di parlare italiano
meglio di chi è nato qui. Probabilmente per te varrà lo stesso.
In
questo momento dovrei salutarti, eppure non voglio nasconderti che c'è
stato qualcosa, in questo mio soggiorno a Roma, che ha rotto la mia surreale monotonia.
Mi trovavo in una libreria per promuovere l'ultimo libro, e si è avvicinata
una bambina. Aveva gli occhi color acquamarina, brillanti come un mare da cartolina,
che sembravano riflettere tutta le luce di questo mondo. E sorrideva, uno di quei
sorrisi che fanno dimenticare tutto. Non saprei dirti perchè, o come; ma
guardandola, mi sono sentito come se fosse più facile respirare. Come se,
con lei nei paraggi, niente di male sarebbe potuto accadere. Si chiama Sophie,
la bambina dagli occhi color acquamarina. Non la conosco, e probabilmente non
la conoscerò mai, ma voglio regalarle un titolo. Un titolo è poco,
dirai. Un titolo è tutto ciò che posso offrire, ora come ora. Ma
voglio ringraziarla per avermi dato l'unico istante di felicità di questi
ultimi anni. Se mai un giorno la rivedrò, le regalerò delle rose.
La portarò in un bel posto, perchè per allora sarà cresciuta.
Le regalerò parole. Non ho molto altro, ma sono sicuro che lei le apprezzerà.
Saluti
da Roma,
Endre."
Senza sapere esattamente
cosa dire, apro appena la bocca, ma Ewan mi blocca, stringendomi la spalla. "Sophie,
sei importante per lui. Non importa quanto lui cerchi di negarlo, o quanto tu
voglia un pinguino; credo che l'albatro abbia bisogno di te."
Sospiro.
"Sono passati quattordici anni."
"Quattordici anni e gli sei
più vicina che mai."
"Mi ha allontanato." replico, ripiegando
con cura la lettera e porgendola a Ewan, che scuote la testa. "Dovresti tenerla
tu." sussurra, posando una mano sulla mia. "E dovresti parlare con lui."
Mordendomi
un labbro, infilo la lettera nella mia borsa. "Posso chiederti perchè
hai cercato in tutti i modi di farmi superare Endre nell'ultima settimana, per
poi dirmi che devo stargli vicino?"
"Ero convinto che in questo modo
te ne saresti accorta da sola. Aveva un significato? Il bar, lanciare occhiate a sconosciuti,
cercare qualcuno con cui fare sesso?"
Scuoto la testa. "Non sembra
essere un problema per te, però."
"E' perchè non ho
ancora trovato qualcosa che abbia significato. E non sto parlando di amore, Sophie,
perchè non credo all'amore." Ewan respira profondamente, assumendo
un'aria grave. "Non a quello romantico, ai fiori, agli appuntamenti, al matrimonio,
alla comunione dei beni e alle fedi. Ma quando tra due persone c'è una
connessione così forte da sembrare inevitabile, allora queste persone dovrebbero
stare vicine. Non importa come."
"Avevi intenzione di farmelo capire
portandomi in un locale per scambisti?" chiedo, vagamente scettica.
"Oh,
no. Quello era solo per divertirmi un po'."
"E'
la cosa più bella che abbia mai letto." sussurra Davide, tenendo la
lettera tra le mani come se fosse la cosa più preziosa del mondo. "Credo
che potrei piangere."
Dafne, accoccolata sulla sua poltrona, sbuffa. "Hai
il ciclo, per caso?" chiede, facendo roteare gli occhi.
"Solo perchè
non sono insensibile come te..."
"Io non sono insensibile."
replica Dafne, senza battere ciglio. "Io osservo la realtà. E i fatti
sono chiari. Endre può aver buttato giù quattro parole quattordici
anni fa, ma questo non giustifica i suoi comportamenti."
Alzo le spalle.
"Dovrei parlargli?"
"No!" esclama Dafne, mentre Davide
grida un "Sì!", alzandosi in piedi. "Sì, Sof, devi
parlargli!"
"Assolutamente no." lo interrompe la mia amica,
sbattendo le palpebre più volte. "Non siamo in Jane Eyre, qui. Niente
fantasma dell'Opera. Gli uomini che devono combattere con i propri mostri sono
perfetti sulla carta, ma insopportabili nella realtà."
"Hai
ragione!" esclamo, vedendo tutto più chiaramente. "Hai assolutamente
ragione, Dafne. Combattere contro i propri mostri deve essere insopportabile."
"Beh,
non è proprio quello che ho det..."
"Devo andare da lui. Devo
andare da lui. Devo andare da lui." ripeto, afferrando la borsa e il cappotto
e precipitandomi fuori, senza salutare i miei coinquilini. Improvvisamente, tutto sembra andare al proprio posto, come
il preciso momento in cui si completa un puzzle. La situazione è davanti
a me, nella sua totalità, ed è come se capissi cosa che non avevo
compreso prima.
Non appena Endre mi apre la porta,
quella sensazione di liberatoria chiarezza svanisce, lasciando spazio a una confusione
che mi impedisce di respirare profondamente. Indossa un completo scuro, con una
camicia color carta da zucchero e una cravatta dal nodo perfetto. Il viso, stanco
e non perfettamente rasato, mi rivolge quello che vorrebbe essere un sorriso.
"Cosa ci fai qui, Sophie? Devo andare a Londra tra un paio d'ore."
"Posso
venire con te?" chiedo, quasi sussurrando.
"Non è necessario."
"Ma
posso lo stesso?" c'è qualcosa di infantile nella mia voce, e quando
me ne rendo conto arrossico violentemente. "Mi fai entrare?"
"Per
pochi minuti." precisa Endre, aprendo la porta abbastanza da permettermi
di entrare. Mi dirigo a grandi passi verso il salotto, dove siedo su una poltrona
scura.
"Mi dispiace." dico, semplicemente.
"Ti dispiace."
"Sì."
"E'
piuttosto interessante, dato che non hai nulla di cui dispiacerti." afferma
Endre, prendendo posto nella mia stessa poltrona. I suoi vestiti frusciano a contatto
con i miei.
"Mi dispiace per quello che c'è stato tra di noi."
spiego.
"Non c'è stato nulla, tra di noi."
Respiro profondamente.
Sono forte. Sono sempre stata forte, e posso tenere a bada i miei punti deboli
ancora per un po'. "Allora mi dispiace per quello che non c'è
stato, tra di noi." sospiro. "Ricordi quando mi hai detto che sono una
brava ragazza, ma l'amore è un'altra cosa?"
Endre annuisce, senza
mutare espressione, impassibile come una maschera. "Lo ricordo."
"Non
mi sembra una valida ragione per farmi sparire dalla tua vita."
Lui scuote
flebilmente la testa. "Non voglio farti sparire dalla mia vita."
"Mi
hai tagliato fuori dal tuo tour europeo, per cominciare. E praticamente non ho
avuto nessun incarico nell'ultima settimana. Hai smesso di parlarmi." spiego
semplicemente, mentre lui sembra infinitamente triste. "Non voglio farti
sparire dalla mia vita." ripete.
"Ma lo stai facendo. Non ho la presunzione
di conoscerti, ma so che devi lottare contro i tuoi mostri, ogni giorno. Ti sto
solo chiedendo se posso farlo accanto a te."
"E' una battaglia persi in partenza."
sussurra Endre, coprendo il volto con le mani per qualche secondo.
"Credi che potremmo
provarci di nuovo?"
"Mi stai chiedendo di essere amici, Sophie?"
"Sì,
credo." rispondo piano, pur sapendo bene che quello che voglio è molto
di più. "Possiamo essere amici."
Endre fa scorrere il dito
lungo il mio braccio. "Ho qualcosa per te."
"E' un regalo?"
Lui
annuisce, tirando fuori dalla tasca una minuscola scatola verde smeraldo. "Volevo
lasciarlo sulla tua scrivania, ma credo che dovrei dartelo di persona."
Apro
il piccolo contenitore e scorgo un anello di platino con tre pietre, la cui gemma
centrale è... "Un diamante, Endre? Credo sia un po' troppo."
Lui
sorride, accarezzandomi il viso. "I diamanti hanno circa due miliardi e mezzo
di anni. Non è incredibile? Sono sulla terra da molto più tempo
di noi eppure ci permettiamo di portarli al dito. I diamanti sono fatti
di grafite, nient'altro che grafite. La stessa grafite che costituisce la mina
delle matite." Endre fa una pausa, infilando l'anello al mio anulare destro.
"Al mondo, siamo tutti grafite. Abbiamo pensieri, sentimenti, idee e bisogni.
Ma ci sono milioni, miliardi forse, di matite, pronte a spezzarsi non appena si
presenta l'occasione. I diamanti, le pietre più dure e più brillanti
tra tutte, si contano sulle dita di una mano. Tu sei un diamante, Sophie, e lo
dico unicamente perchè ne sono certo."
"Io..." tento,
sopraffatta dalle sue parole.
"Vedi le due piccole pietre accanto al diamante?
Le hai riconosciute? Sono due berilli. I berilli sono minerali formati da berillio,
alluminio, silicio e ossigeno, ma a seconda delle impurità presenti posso
assumere tante sfumature diverse. Possono diventare smeraldi, ad esempio, smeraldi
dal color cupo come i miei occhi; ma possono anche trasformarsi in lucenti, vibranti
acquamarine. Sono del colore dei tuoi occhi." mi spiega Endre, indicando
le pietre che contornano il diamante. "Non lo trovi meraviglioso? I miei e i tuoi occhi non sono altro che due aspetti diversi della stessa identica cosa."
Sopraffatta dalla sua voce forte e calma, non
posso fare a meno di sorridere. "Sei davvero bravo, con le parole." osservo il mio anello. "Ma voglio fare qualcosa per te anche io. Mi chiedo
se, per una volta, me lo permetterai."
Endre annuisce con un cenno, prendendomi
per mano.
Ci vuole quasi un'ora per preparare tutto,
ma finalmente posso togliere la benda dal volto Endre, che spalanca gli occhi
di fronte a sei tazze di cioccolata.
"Cosa diavolo è?" chiede,
scettico.
"Cioccolata calda."
"Hai intenzione di farmi venire
il diabete?"
Sorrido. "So che sembrano uguali. In parte lo sono,
ma voglio che tu le assaggi, una a una, e mi dica che sapore hanno."
Imprevedibilmente,
Endre obbedisce e porta alle labbra la prima tazza. "E' dolce. Troppo dolce.
E ha dei granelli di zucchero dentro." commenta, disgustato.
"E'
meringa." spiego, porgendogli la seconda tazza.
Endre chiude gli occhi,
lasciando che il liquido scuro gli inondi la gola. "E' dolce, fruttata, eppure
acidula. Fragola, forse?"
"Fragola e Lichi."
"Questa,
invece, è indubbiamente al cocco. E questa... è forte e amara. Caffè.
Odio la cioccolata calda." aggiunge poi, rivolgendomi una smorfia di disgusto.
"Te
ne mancano solamente due."
"Mandorla!" esclama lui, sorseggiando
la tazza numero cinque. Quando porta la sesta tazza alle labbra, un sorriso irriverente
compare sul suo viso. "Oh, eccoti, Sophie! Cioccolato al peperoncino."
Ridendo,
afferro la tazza e ne mando giù un sorso bollente. "Sembravano tutte
uguali all'inizio, non è vero?"
"Sì."
"Ma
non lo sono."
Endre corruga la fronte. "Qual'era lo scopo, Sophie?"
"Senti
i sapori, Endre. E li senti perfettamente. Se ti fermi all'apparenza insipida
delle cose, rischi di perderti il meglio."
"Sei una buona amica,
Sophie." la sua voce è limpida e sembra riempire ogni angolo di questa stanza.
Già. Un'amica perfetta.