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Autore: Losiliel    23/12/2015    12 recensioni
"Il suo corpo si riprese dai tormenti e riacquistò salute, ma l'ombra delle sofferenze subite era nel suo cuore" (Il Silmarillion, cap. XIII - Il ritorno dei Noldor).
Nelyafinwë, salvato da Findekáno, deve affrontare i propri demoni prima di riprendere il suo ruolo tra i Noldor quale erede di Fëanáro.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fingon, Maedhros, Maglor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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Capitolo Primo - Appeso


________
 

Nelyafinwë (Maitimo, Russandol, Nelyo) è Maedhros
Findekáno è Fingon

________

 

 

Dolore.

Il dolore dilaniava il suo corpo.

Tutto si riduceva a questo.

Non sentiva più l'ululato del vento, né avvertiva le raffiche che sferzavano il suo corpo nudo. Non vedeva più il nero abisso spalancarsi sotto di sé, né il cielo cupo costantemente coperto da una coltre oscura. Non percepiva più il passare del tempo. L'istante e l'eternità avevano per lui lo stesso significato: dolore.

Si irradiava dal polso, stretto in un freddo anello d'acciaio, incatenato a una roccia a strapiombo sul nulla. Si propagava lungo il braccio, ed esplodeva atroce in ogni ferita che ricopriva il suo corpo straziato e scheletrico. Pulsava al ritmo lento del battito del suo cuore, che con assurda tenacia continuava a pompare sangue all'organismo agonizzante. Ad ogni debole respiro, l'aria che scendeva attraverso la gola riarsa gli trapassava il torace come una lama rovente.

Il dolore lo circondava, lo permeava, lo possedeva.

Altro non era.

Ma prima… (un momento prima? un'era prima?)… aveva avuto una volontà propria, e con essa aveva tentato di abbandonare il suo corpo. Aveva implorato di poter abbandonare il suo corpo. Aveva supplicato.

Non il Nemico, no… nemmeno i Valar, o Eru stesso.

Aveva invocato il padre.

Portami con te. Svanisca in cenere questa prigione di carne marcia.

Ma la sua preghiera era rimasta inascoltata. Quale terribile maledizione agiva per tenerlo ancora in vita, in balia del vento gelido, senz'acqua né cibo, stremato dalla tortura, appeso? Era il potere del Nemico che vincolava il suo spirito a un patetico involucro, così come vincolava il suo corpo alla roccia? Oppure era Námo stesso che si rifiutava di accogliere nella sua dimora uno spirito che aveva subìto l'onta della Condanna?

Domande inutili. L'unica certezza era che non poteva morire.

Ma forse… poteva ugualmente seppellire sé stesso.

Aveva ancora una mente, da qualche parte. Aveva ancora dei ricordi nei quali affondare, insensibile a tutto, in attesa della fine. Bastava trovare la forza di andarli a cercare.

Con gli ultimi brandelli di pensiero coerente aveva richiamato la sua infanzia dalla profondità delle memorie.

Padre, portami con te, aveva chiesto tanto tempo addietro, quando lui era ancora l'unico e non uno di sette. E il padre, già fuori dall'uscio, vestito con abiti da viaggio, si era voltato verso di lui che gli correva incontro e l'aveva accolto tra le sue braccia sollevandolo da terra. Certo, gli aveva detto, sorridendo.

Sempre. Gli aveva detto, serio.

Solo che non era il piazzale di fronte casa ciò che era emerso dal suo passato, vincendo il gorgo oscuro della sofferenza, ma il laboratorio. E non era tra le braccia del padre, lui, ma dietro una porta socchiusa che osservava non visto. Il padre era presso la fucina, con lo sguardo fiero posato su un altro figlio, il prediletto, quello a cui aveva dato il suo stesso nome.

Che errore fatale aprire la mente alla ricerca di conforto!

Il Nemico non aveva aspettato che quello: una breccia per penetrare nel suo passato, una chiave d'accesso alle sue memorie per disporne a piacere ed esasperare il tormento. Ora non si limitava più ad infierire sul suo corpo, ma aveva il potere di umiliare anche lo spirito, evocando ricordi che deformava e corrompeva secondo il suo volere.

Sottoposti a questa tortura ambivalente, molti avrebbero ceduto alla follia. Altri si sarebbero votati al completo asservimento.

Ma non lui: Nelyafinwë Fëanárion.

In lui, si era scatenato l'odio.

Odio per il Nero Nemico, causa di quella insostenibile sofferenza.

Odio per il padre, che li aveva condotti alla dannazione.

Odio per i fratelli, che lo avevano abbandonato al martirio.

E più di ogni altra cosa, odio per sé stesso. Per ciò che era diventato: inutile. Per ciò che si era dimostrato: incapace.

L'odio infuriava nel suo spirito.

Il dolore dilaniava il suo corpo.

Un canto perforò il silenzio tetro e arrivò a trafiggere le sue orecchie.

Eccolo infine il colpo decisivo di quel massacro su due fronti: il Nemico aveva raggiunto il suo cuore.

Lacrime amare sgorgarono dai suoi occhi aridi e gli scesero lungo il viso. Bruciavano sulla pelle secca e spaccata, ma ancor di più bruciavano l'anima, straziata dal ricordo di ciò che aveva perduto.

Di chi aveva perduto.

Basta. Era tempo di arrendersi. Travolto dal flusso di memorie, e schiacciato dalle sue colpe.

Veri o corrotti che fossero, si abbandonò ai ricordi.

Lasciò che quel canto lo riportasse a verdi terre sotto luci d'oro e d'argento, a tiepidi venti profumati tra i capelli, sfrenate corse a cavallo, boschi ombrosi tra le cui foglie si accendevano faville di smeraldo.

Lasciò che lo riportasse a una città splendente sopra una collina, giardini pensili, un palazzo bianco, un luminoso studio, pergamene vergate da grafie sottili, voci amate che chiamavano il suo nome.

Lasciò che lo riportasse in Aman.

 

 

*******

 

 

Un mattino radioso nel Reame Beato.

La luce di Laurelin all'inizio della fioritura sprigionava barbargli sul mare increspato, accendendolo di mille scintille. La costa era battuta da una leggera brezza salmastra. Grida di gabbiani permeavano l'aria, il loro volo disegnava traiettorie sinuose nel cielo limpido. Una stretta lingua di terra separava la riva dalla scogliera, sabbia bianca, bagnata e compatta, ideale per i due cavalli al galoppo.

Suo cugino Findekáno lo precedeva. Oro intrecciato nei capelli scuri, vestito del blu che prediligeva, stava spronando il suo purosangue a un ritmo sostenuto, come se volesse invitarlo alla sfida.

Era sempre così con Findekáno. Da quando aveva raggiunto la maturità, non perdeva occasione per confrontarsi con lui, che per anni era stato un esempio inarrivabile. Si lasciò sfuggire un sorriso. – E va bene – sussurrò, chinandosi sul collo del suo destriero, – mostriamo al ragazzo di cosa siamo capaci.

Lanciato al galoppo, col vento che gli sferzava il viso e gli scompigliava i lunghi capelli ramati, pervaso dalla tensione gioiosa della sfida, si trovò ancora una volta a pensare a quanto fosse importante per lui l'amicizia del cugino. Un legame nato molti anni addietro, che col passare del tempo era diventato sempre più saldo e profondo, a dispetto del fatto che, a prima vista, loro due non potevano sembrare più diversi.

Findekáno affrontava la vita aggredendola. Si buttava in ogni impresa con travolgente entusiasmo, senza mai un dubbio, un'esitazione… e molto spesso senza ascoltare i consigli di nessuno! Non si poteva dire che trascurasse i suoi doveri, ma appena poteva andava alla ricerca di situazioni estreme, sfide alle quali dedicarsi con una tenacia e una determinazione fuori dal comune, e con una buona dose di follia. Questo comportamento, che gli era valso il soprannome di Valoroso, era forse il suo modo di dare un senso all'esistenza interminabile che li caratterizzava: trovare ogni giorno una nuova occasione per mettersi alla prova.

Lui, al contrario, gravato fin dalla nascita da aspettative alle quali non voleva disattendere, destinato a diventare Re se mai un giorno suo nonno e suo padre avessero deciso in tal senso, era cresciuto dominando con rigore la propria volontà ed esercitando con costanza le proprie abilità in ogni campo di studio, sempre teso a dimostrare con le azioni di essere all'altezza di ciò che gli veniva richiesto. Il suo modo di dare un senso all'esistenza era la perenne ricerca di perfezione, di equilibrio, di armonia.

Cosa l'avesse spinto a cercare la compagnia di quel giovane cugino, che suo fratello Makalaurë non esitava a definire un pazzo incosciente, ancora faticava a spiegarselo.

Forse era solo il fatto che quando stava con lui poteva svestirsi del pesante ruolo di primogenito di Fëanáro, e di quello altrettanto faticoso del maggiore tra sette fratelli e concedersi una tregua dalle responsabilità.

Ma in momenti come questi, in cui sembravano esserci soltanto loro due in tutta Arda e la gioia dello stare insieme era tangibile come il calore irradiato da una fornace, la verità che si insinuava nella sua mente era più semplice e, in qualche modo, più pericolosa da ammettere: Nelyafinwë si sentiva realmente vivo solo quando era con Findekáno.

– Nelyo!

Il grido lo riportò alla realtà. Si accorse che, perso nei propri pensieri, era di nuovo rimasto indietro. Findekáno era già arrivato al limite della spiaggia dove la scogliera, piegandosi verso Est, si gettava direttamente nel mare.

Quando lo raggiunse, il cugino stava scendendo da cavallo.

– Non capisco perché tirarmi giù dal letto così presto – lo rimproverò Findekáno, – se non per cominciare la giornata con una bella gara. – Poi sembrò valutare le sue stesse parole e gli occhi gli si accesero di curiosità. – Già – disse, – perché tirarmi giù dal letto così presto…

Nelyafinwë lo interruppe, consapevole di non poter più rimandare le spiegazioni.

– Perché ieri Curvo ha portato a casa una gemma dal laboratorio di nostro padre…

– Ai – gemette Findekáno.

– … e i gemelli hanno voluto assicurarsi che la cosa non passasse inosservata: glie l'hanno rubata e l'hanno gettata nella pozza sotto la Roccia Spaccata.

– Eru santissimo… – bisbigliò il cugino, – sottrarre un gioiello a Fëanáro… non ha limiti la temerarietà di quei due!

Il suo sguardo inorridito contrastava col tono della voce, che grondava ammirazione.

Nelyafinwë li ignorò entrambi, il tempo stringeva. Prese una sacca dal dorso del suo cavallo e se la mise di traverso sulla schiena. Poi disse: – Se riuscissimo a recuperare la gemma e a riportarla al suo posto prima che mio padre se ne accorga, potremmo evitare un grave danno.

– Potremmo evitare un omicidio! – puntualizzò Findekáno, e dopo un attimo aggiunse – anzi, un pluriomicidio per essere precisi... In effetti non so se voglio entrarci, sembra essere una faccenda troppo pericolosa!

– Ma se tu ami il pericolo – gli ricordò distrattamente Nelyafinwë, mentre già rivolgeva la sua attenzione alla parete di roccia.

– Sarà per questo che frequento casa tua! – esclamò il cugino, ma subito chiuse la bocca, come accorgendosi di aver parlato a sproposito. Quella che fino a poco tempo prima sarebbe stata una battuta scherzosa, ora era troppo vicina alla verità per risultare divertente.

Nelyafinwë si voltò a guardarlo, cercando di mantenere un'espressione neutra sul viso. Ma erano lontani i tempi in cui riusciva a mascherare i propri sentimenti a colui che gli stava davanti.

Infatti il cugino sussurrò: – Va così male?

Nelyafinwë pensò all'umore instabile del padre, alle insinuazioni sempre più pesanti dirette contro il fratellastro, ai suoi discorsi ai limiti della blasfemia. Pensò alla fucina segreta che presto avrebbe cominciato a produrre armi. Pensò a sua madre, che aveva lasciato la loro dimora forse per non farvi più ritorno.

Ma disse soltanto: – Diciamo che sarebbe meglio ritrovare quella gemma.

Findekáno avanzò deciso e gli afferrò una spalla. Standogli così vicino dovette reclinare il capo all'indietro per incrociare il suo sguardo. I suoi occhi brillavano di determinazione. La sua stretta forte conferiva fiducia.

– Allora muoviamoci! – gli disse con impeto e, lasciatolo, affrontò per primo la parete.

 

-

 

La scalata non richiese molto tempo. Era un percorso impegnativo, ma lo conoscevano bene per averlo fatto diverse volte. Si arrampicarono agili, servendosi di appigli ormai noti, e raggiunsero la cima senza fatica.

Da lì, invece di dirigersi al promontorio che si protendeva sul mare, girarono verso l'interno della costa, fino a raggiungere un'ampia apertura nel terreno di forma vagamente circolare che qualcuno, dotato di scarsa fantasia, aveva chiamato la Roccia Spaccata. Si trattava di un foro sul soffitto di una profonda grotta, al cui interno il mare aveva formato un piccolo lago sotterraneo.

Vi si affacciarono spalla contro spalla. L'acqua, distante sotto di loro, riluceva debolmente di un cupo turchese. Nonostante Findekáno l'avesse proposto un numero incalcolabile di volte, non avevano mai osato tuffarsi da lassù, incerti sia sulla profondità dell'acqua, sia sull'esistenza di una via d'uscita da loro percorribile.

– Come è fatta questa gemma? – domandò il cugino, protendendosi pericolosamente sull'apertura.

Nelyafinwë allungò automaticamente un braccio davanti al petto dell'amico, e cercò di elaborare una risposta che non fosse un mero elenco delle caratteristiche di ogni artefatto del padre… unico, perfetto, stupefacente... Alla fine disse: – Verde.

– Verde? – esclamò Findekáno, ignorando del tutto il braccio che si frapponeva tra lui e il vuoto, e sporgendosi ulteriormente, – la cosa si fa interessante!

Nelyafinwë, suo malgrado, sorrise. L'abitudine del cugino di definire "interessante" ciò che chiunque altro avrebbe detto "impossibile" l'aveva sempre affascinato.

– Andiamo? – lo invitò impaziente Findekáno, che già cominciava a togliersi camicia e stivali. 

– Aspetta – disse Nelyafinwë, rovistando nella sua sacca, – ho portato una corda, cerca un appiglio al quale…

Parole vane: un rapido movimento percepito con la coda dell'occhio gli disse che il cugino si era tuffato.

Per tutti i Valar! Si fermava mai un attimo a pensare quel Noldo? Nelyafinwë abbandonò immediatamente l'idea della corda e, dando prova di una certa incoerenza, si sfilò maglia e stivali a sua volta e lo seguì.

L'acqua era gelida, ma grazie a Ulmo sufficientemente profonda da non provocare danni. Emerse a prendere fiato e ad assicurarsi che ci fosse una via d'uscita. Poco distante vide una breccia dalla quale entravano acqua e luce. Rassicurato, si immerse alla ricerca del cugino.

Lo vide quasi a livello del fondale, in un punto in cui la corrente aveva ammassato sassi, pietrisco e detriti a formare una struttura pericolante, che ricopriva per un lungo tratto la parete di dura roccia. Sulle prime non capì cosa stesse facendo, sembrava volesse infilare un braccio in una fessura parzialmente chiusa da un grosso masso. Quando intuì le intenzioni dell'amico e si precipitò verso di lui, era ormai troppo tardi. Findekáno aveva rimosso l'ostacolo, senza rendersi conto che in quell'accozzaglia di macerie ogni pezzo sosteneva gli altri. L'intera struttura franò.

Una nube di sabbia si alzò in seguito al crollo e la vista di Nelyafinwë ne fu offuscata. Si trovò a nuotare cieco verso il fondale, cercando a tentoni, col respiro che cominciava a mancargli.

Si costrinse a resistere finché alla fine vide il cugino. Sembrava privo di sensi, le braccia aperte, i capelli ormai parzialmente sciolti che formavano una nuvola nera attorno al suo viso pallido. Una ferita sul sopracciglio stillava piccole gocce di sangue. Un piede era impigliato sotto un cumulo di macerie.

Raggiungerlo fu un attimo, ma liberargli la gamba richiese un tempo che gli parve infinito. Appena riuscì a sottrarlo alla presa che lo intrappolava, lo strinse tra le braccia e cominciò a nuotare verso la superficie, verso la debole luce. Ma l'ascesa era lenta, troppo lenta, sembrava non dovesse terminare mai. Quando cominciò a credere che sarebbe durata per sempre, ecco che sbucarono nell'aria. 

– Respira, Findo, respira!  – ansimò al cugino, che non poteva sentirlo. Lui stesso era a corto di fiato.

Facendogli appoggiare la schiena sul proprio petto per tenergli il viso fuori dall'acqua, nuotò verso la breccia intravista poco prima. Ebbe fortuna: una breve insenatura conduceva a un piccolo golfo. Qui la scogliera terminava con alcune pietre a livello del mare.

Riuscì a trascinare entrambi fuori dall'acqua e, tenendo ancora il cugino stretto sopra di sé, gli fece scorrere una mano sul petto fino all'altezza del cuore. Batteva ancora, grazie a Eru! Il torace che si espandeva debolmente tra le sue braccia gli diceva che respirava, anche. Solo allora gli sembrò di riprendere a respirare a sua volta.

Quel pazzo incosciente! Lo aveva spaventato a morte.

D'istinto lo strinse più forte, come avesse paura che lasciandolo andare gli sarebbe potuto sfuggire per sempre e, senza pensarci, piegò il capo in avanti affondandogli il viso nell'incavo tra il collo e la spalla. La pelle del cugino era fresca e levigata, permeata dall'odore del mare e da quello rassicurante di Findekáno stesso, che gli era familiare quanto il proprio.

Eppure, questa volta, respirare quel profumo scatenò lui una sensazione completamente nuova. Travolgente. Improvvisa. La solida consapevolezza del corpo di Findekáno disteso sopra il proprio.

Una sensazione totalizzante. Nient'altro sembrava più importare. Non il pericolo corso, non la gemma perduta, non l'ira del padre. Nulla importava se non quel torace snello stretto tra le sue braccia, quella schiena scolpita che aderiva al suo petto, quella pelle bagnata che premeva contro le sue labbra. 

In preda alla confusione cercò di spronare il suo corpo a reagire e si accorse, con orrore, che il suo corpo aveva già cominciato a reagire per conto proprio, fuori da ogni controllo. Sentì il battito del cuore che accelerava e il respiro che si faceva più affannato. Sentì le proprie labbra schiudersi leggermente, come dotate di una loro volontà, e il sapore del sale sulla lingua, e l'accenno di una calda tensione all'inguine…

Fu il terrore. Il desiderio di fuggire invase la sua mente, eguagliato soltanto da quello di restare.

Rimase come paralizzato per un momento che parve interminabile, poi finalmente riuscì a reagire. Si sfilò da sotto il cugino e mise un minimo di distanza tra i loro corpi.

In quell'attimo, forse a causa del brusco movimento, Findekáno aprì gli occhi. Cristalli di cielo al crepuscolo che custodivano un'anima indomita.

E davanti a quello sguardo Nelyafinwë comprese, chiaro come il riverbero di Laurelin sul mare del mattino, che l'attrazione fisica che stava sperimentando per la prima volta, per quanto forte e travolgente, non era che un aspetto di un bisogno più profondo, di un desiderio inconfessato che da sempre albergava nel suo cuore, e che solo ora quegli occhi avevano portato alla luce.

Il desiderio di una promessa immortale, che vincolasse le loro vite l'una all'altra per l'eternità.

Findekáno sbatté le palpebre e sembrò mettere a fuoco il volto sopra di lui. Un sorriso incerto si disegnò sulle sue labbra rese scure dal freddo. Su quello di sotto, notò Nelyafinwë, spiccava un piccolo taglio verticale. Fu assalito dallo stupidissimo impulso di baciarlo. Cercò disperatamente qualcosa da dire, per tenere impegnata la bocca.

Ma il cugino lo precedette: – Nelyo – sussurrò.

Allora lui rispose, all'istante: – Chiamami Maitimo.

Ma poi non ebbe il coraggio di continuare. Chiamami Maitimo, avrebbe voluto dirgli, col nome che mi ha dato mia madre, la cosa più intima che io possegga, perché hai raggiunto il mio cuore e nulla ti è più negato. Chiamami Maitimo, il ben fatto, perché la perfezione del mio corpo a nulla vale se non è dedicata a te, come la mia vita.

Findekáno capì? Con gran sollievo misto a una fitta di dolore, Nelyafinwë si rispose di no. Il cugino sembrava perso in altri pensieri.

– Eru in Eä! – esclamò. – C'è mancato poco. Questa è la volta che tuo fratello mi compone quell'Ode alla Stupidità di cui mi parla sempre!

Avvicinò la mano a quella di Nelyafinwë, ancora appoggiata sul suo petto, e la aprì rivelando la gemma. Era grande quasi quanto il suo palmo e aveva la forma di un'enorme goccia. E ad una goccia di rugiada poggiata su un tenero germoglio, che alla mescolanza delle luci accende il verde di scintille d'oro e d'argento, somigliava il suo brillare nella mano del cugino.

Ancora una volta Findekáno aveva vinto la sua sfida! Nelyafinwë non riuscì a trattenere una risata. Tutta la tensione che lo attanagliava si sciolse in un istante. Davanti a lui aveva di nuovo il suo amico più caro, inseparabile compagno di tante avventure, il folle impulsivo che riusciva sempre ad ottenere ciò che si proponeva.

– Considerato il guaio dal quale ci hai tolto – gli disse, – anche Makalaurë sarà costretto ad ammettere che hai fatto onore al tuo soprannome.

– Il Valoroso? – ribatté il cugino, – scherzi? Tuo fratello mi chiama "pazzo incosciente".

– Chissà perché – commentò Nelyafinwë.

I loro sguardi si incrociarono e in un attimo i due amici scoppiarono a ridere insieme. Sì, tutto sembrava davvero tornato alla normalità. Pervaso dal sollievo, Nelyafinwë prese la gemma e la infilò in una tasca dei pantaloni fradici, poi si alzò e aiutò il cugino a fare altrettanto.

Insieme si dedicarono ad esplorare la roccia alle loro spalle. Una parete sconosciuta e all'apparenza difficile, ma l'alternativa sarebbe stata nuotare lungo la costa fino a ritrovare la spiaggia, e nessuno dei due era troppo ansioso di ritornare in acqua. Quando Nelyafinwë gli chiese se se la sentisse di affrontarla, per tutta risposta il cugino trovò un appiglio e cominciò a salire.

La scalata si rivelò davvero impegnativa. Preoccupato dallo stato di salute di Findekáno, che aveva un evidente ematoma sulla fronte e faticava ad appoggiare il piede che era rimasto intrappolato nella frana, più volte Nelyafinwë propose di proseguire da solo per tornare a prenderlo con la corda, ma lui si rifiutò categoricamente.

– Non puoi chiedere di abbandonare a Findekáno il Valoroso – scherzava, ansimando. E quando finalmente raggiunse la cima della scogliera, sfiancato, troncò di netto tutti i suoi rimproveri con una di quelle sentenze con cui era solito chiudere le loro discussioni: – Dove vai tu, vado io, cugino.

Nelyafinwë gli lasciò volentieri l'ultima parola. Erano entrambi al sicuro ed erano riusciti a recuperare la gemma. Il suo pensiero era già rivolto al discorso che avrebbe dovuto fare ai fratelli responsabili di quel guaio, per evitare che una cosa del genere si potesse ripetere, soprattutto in un momento così delicato per la loro famiglia.

Sostarono brevemente, seduti sul bordo della spaccatura, appoggiati all'indietro sui gomiti, con i piedi che pendevano nel vuoto e le spalle che si sfioravano appena. Una volta recuperate le forze, si vestirono e ridiscesero alla spiaggia.

Quando furono sul sentiero che riportava in città, tuttavia, Nelyafinwë tornò ad essere assalito da pensieri cupi. Ciò che era successo sulla scogliera insinuava nel suo cuore dubbi e incertezze su sé stesso, sul proprio futuro e, quel che era peggio, su ciò che finora aveva considerato come l'unico punto fermo della sua vita: l'amicizia col cugino.

Findekáno, al contrario, sembrava essersi completamente ripreso. Anzi, cavalcando al suo fianco a un trotto tranquillo, dava l'idea di essere persino più sereno del solito. All'improvviso si mise a cantare.

La scelta della canzone sorprese Nelyafinwë e lo distolse per un attimo dalle sue preoccupazioni: non era una delle ultime ballate che si sentivano a Tirion alle feste e che il cugino si divertiva a eseguire, spesso storpiandone le parole. Era un canto antico della tradizione Noldorin, composto molti anni addietro, che parlava di una vita piena di grazia e della certezza che il futuro avrebbe portato solo gioia e felicità.

Era un canto pervaso di speranza. La speranza di un popolo giovane appena giunto in una terra promessa.

 

 

*******

 

 

Era il canto che sentiva ora, appeso, in agonia.

Fino a quel punto, dunque, era giunto il Nemico.

Dopo aver umiliato il suo corpo, trasformando la perfezione in brandelli di carne aggrappati a un misero scheletro, dopo aver violato il suo spirito, corrompendo i suoi ricordi più cari, ora arrivava a profanare il suo cuore, esponendolo alla più grave delle sue colpe: il tradimento.

Nella disperazione più nera non restava che un misero conforto: dopo questo nulla avrebbe più potuto ferirlo. Avrebbe atteso la morte, se fosse arrivata, ultima grazia dei Valar, o sarebbe rimasto chiuso nel dolore per sempre, con la sola compagnia della tenebra e dell'odio. Dopotutto non aveva forse chiamato la Tenebra su di sé, se avesse fallito ad adempiere al suo voto? E di certo aveva fallito.

Eppure il canto diveniva a poco a poco più chiaro, e insieme al canto Nelyafinwë si accorse che aveva ricominciato a sentire anche l'ululato del vento, il suono del suo debole respiro che graffiava i polmoni, i lamenti delle creature che popolavano quegli anfratti orridi.

Quella voce lo stava trascinando fuori dal buio! Non poteva essere opera del Nemico.

Da un remoto angolo della sua mente scaturì la speranza che i suoi fratelli si fossero infine messi alla sua ricerca. Makalaurë, forse.

Ma per quanto sembrasse impossibile, non poteva sfuggire alla realtà delle cose: quella non era la voce di Makalaurë, potente e melodiosa. Quella era una voce cristallina che cantava la speranza e la sfida, che non conosceva paura e non contemplava l'abbandono. Una voce incisa nel suo cuore.

Findekáno.

Prima ancora di rendersene conto, percepì le proprie labbra secche muoversi per seguirne le parole. Da troppo tempo non usava la voce, nemmeno più per emettere urla o gemiti, e restò sbalordito quando dalla sua gola eruppe un suono, prima rauco e debole, poi via via più forte. Infine armonioso.

Per qualche istante le due voci si intrecciarono in una melodia di struggente bellezza. Un suono che mai si era udito in quelle terre e che spense ogni altro rumore. Perfino il vento sembrò tacere.

Poi la voce di Findekáno cessò. Nelyafinwë capì che il cugino lo aveva sentito e che aveva bisogno di un segnale che lo guidasse. Gli sembrò naturale proseguire il canto… per quanto ne sapeva poteva anche non essere in grado di emettere altro suono.

La sua voce proseguì solitaria nel silenzio innaturale che perdurava. Sapeva che presto le sentinelle si sarebbero sciolte dall'incantesimo. Si aspettava di udire, da un momento all'altro, l'urlo acuto che avrebbe lanciato l'allarme.

Invece sentì gridare il suo nome.

– Nelyafinwë!

Come poteva una sola parola racchiudere la più profonda pena e la più radiosa speranza?

Il suo nome lo trascinò definitivamente fuori dal buio. Ora i suoi occhi vedevano. E subito scrutò nell'abisso, in preda all'ansia, con lo sguardo che faticava a insinuarsi tra le ombre, finché riuscì a distinguere distante sotto di lui, in cima a uno dei picchi acuminati che popolavano quelle terre, Findekáno.

Non si chiese come potesse essere giunto nell'Endor. O come avesse fatto ad arrampicarsi fin lì. Nel caso del cugino la risposta era scontata: Findekáno non si arrendeva mai. Anche ora si stava guardando intorno frenetico alla ricerca di una via per proseguire la scalata. Ma questa volta non sarebbe bastata la sua determinazione: da dove si trovava, Nelyafinwë vedeva chiaramente che non c'era passaggio o appiglio che l'avrebbero potuto condurre fino a lui.

La terra intorno a loro ricominciò a prendere vita, brusii e lamenti si levarono da anfratti e fessure. Avevano poco tempo. Entro breve sarebbero arrivati i servi del Nemico, a frotte, e avrebbero fatto prigioniero Findekáno, riservandogli un destino peggiore della morte. Lui lo sapeva bene.

L'amico era arrivato fin lì, ma non per liberarlo. Quando vide l'arco sulle sue spalle, il motivo gli fu chiaro.

– Findekáno – chiamò. E la sua voce era chiara, anche se debole. – Uccidimi – disse.

Ma il cugino non diede segno di averlo sentito. Con lo sguardo acuto seguitava a perlustrare la parete alla quale era appeso, cercando di individuare un percorso adatto a un'arrampicata.

Non lo trovò.

I brusii divennero scalpiccii, i lamenti quasi ululati.

Nelyafinwë ebbe una visione dell'amico che soffriva il suo stesso destino e sfiorò la follia.

– Findekáno! – gridò disperato, – per l'affetto che ci ha legato, se ancora ne sopravvive una traccia dentro di te, tirami una freccia dritta nel cuore e poni fine a tutto questo.

A queste parole il cugino finalmente si bloccò e levò lo sguardo su di lui. Nelyafinwë non riusciva a distinguerne il viso, ma lo vide passarsi rabbiosamente una mano sul volto. Si asciugava le lacrime che gli annebbiavano la vista: il tiro doveva essere preciso. Con la determinazione che gli era propria, impugnò l'arco e incoccò una freccia. Indugiò per un attimo, il tempo forse di una preghiera. Poi prese la mira.

Nelyafinwë chiuse gli occhi. Non affidò a Námo, né ad alcun Vala il suo spirito devastato, ma all'unico essere di cui gli fosse mai importato il giudizio.

Padre, sto arrivando.

Attendeva una freccia, arrivò invece una breve raffica di vento. Lo fece ondeggiare, riversandogli addosso nuovo dolore. Poi un'altra raffica. Aprì gli occhi: un'ombra incombeva su di lui. Per un attimo temette che fossero arrivati i Valaraukar. Ma non c'era fuoco in vista, né quel calore infernale che portava con sé l'odore di terra bruciata. Riconobbe la forma di un'enorme Aquila proprio quando questa si abbassò sotto di lui e lasciò il posto, come in una visione, a Findekáno.

Il cugino cavalcava il rapace con la stessa grinta con cui avrebbe cavalcato un purosangue irrequieto. Indossava vesti e mantello di un blu così scuro che, nel buio che li avvolgeva, non si distingueva dal nero. Nessun ricamo li adornava, nessun gioiello a illuminare il suo viso, nemmeno l'oro che solitamente intrecciava tra i capelli. Era un'ombra più nera del nero che lo circondava.

Ma i suoi occhi brillavano come zaffiri alla luce di Telperion mentre cercava di allungare le braccia verso l'amico di un tempo. Ed erano occhi che Nelyafinwë non conosceva più; svanita ogni traccia di spensieratezza, ora ospitavano una determinazione non più fiduciosa, ma feroce, temprata da qualcosa che lui non aveva condiviso. Occhi di ghiaccio.

L'Aquila trovò un appiglio adatto agli enormi artigli, aderì alla parete e ripiegò parzialmente le ali. Findekáno, alzandosi in piedi sul suo dorso, si trovò ad essere leggermente più in alto di lui. Il cugino lo strinse in un abbraccio delicato e lo sollevò. L'articolazione divelta, rilasciata dal peso, mandò una fitta lancinante. Nelyafinwë emise un gemito spezzato e cadde come un corpo morto tra le braccia dell'amico, la testa reclinata in avanti sulla sua spalla, le gambe e il braccio che pendevano inerti. 

– Uccidimi – implorò, di nuovo, in un soffio di fiato che pensava essere l'ultimo. 

Findekáno questa volta sembrò ascoltarlo, perché lasciò la presa con il braccio sinistro ed estrasse il lungo pugnale che portava al fianco. Nelyafinwë si trovò a rivolgere un pensiero di gratitudine a Eru che gli permetteva di morire tra le braccia del suo amico.

Ma la lama non era destinata al suo cuore: sentì un colpo sferrato alla catena, poco sopra il polso. Il riverbero gli procurò una stilettata che lo fece quasi ripiombare nel buio. Il suono del metallo contro il metallo rimbombò per tutta la valle.

Un lungo ululato sovrastò ogni altro rumore. Era stato dato l'allarme.

Findekáno tentò un nuovo colpo. Nuovo dolore. Nuovo rumore. Nuovi ululati che rispondevano al primo.

– Uccidimi, uccidimi… – continuava a mormorare Nelyafinwë in una litania senza fine, che sembrava dargli la forza di sopportare la sofferenza. Ma quando realizzò che il cugino non si sarebbe mai dato per vinto, implorò per quello che gli stava veramente a cuore.

– Ti prego, fuggi.

– Fuggire? – fu la risposta immediata, – non puoi chiedere di fuggire a Findekáno il Valoroso. – Parole spavalde, ma la voce del cugino tremava, la paura stava facendo breccia nel suo cuore.

Lo schianto del metallo contro la roccia, ora. Evidentemente Findekáno aveva deciso di svellere ciò che non era riuscito a spezzare.

Comandi urlati ai piedi del picco, frecce che sibilavano e si infrangevano sulla roccia poco sotto di loro. Anche gli Orchi erano costretti ad aspettare i rinforzi se volevano prenderli. I Valaraukar non avrebbero tardato.

Altro colpo inutile contro la roccia.

Un bagliore rosso comparve nel cielo a Nord. L'Aquila fremette sotto i loro piedi. Anche Findekáno si avvide del pericolo incombente e avvicinandogli le labbra all'orecchio sussurrò: – Perdonami.

Non era la morte che voleva dargli il cugino. Non era la misericordia dell'oblio. Voleva dargli la libertà a qualsiasi costo e con essa la possibilità di riscatto, la possibilità di adempiere al suo voto e liberarsi dalla maledizione che lo condannava. Findekáno non si arrendeva neanche di fronte al destino.

Percepì una leggera torsione nel corpo del cugino che premeva contro il proprio, intravide il suo braccio stagliarsi contro il cielo plumbeo, il lungo pugnale che si preparava alla sua corsa micidiale.

Poi un dolore improvviso, come un lampo accecante, gli fece quasi perdere la ragione. Urlò. Urlò affondando il viso nel mantello di Findekáno e artigliandogli la schiena con la mano libera, mentre il cugino con uno strattone liberava la lama che si era conficcata nell'osso dopo aver lacerato muscoli e tendini. 

Quando arrivò il secondo colpo le sue urla si erano ridotte a un penoso lamento inarticolato, sovrastato dalle grida del cugino, folli, strazianti, tra spruzzi di sangue scuro che si riversavano sui loro corpi stretti in un macabro abbraccio.

Imprecando contro il pugnale, contro il fabbro che l'aveva forgiato e contro il destino stesso, Findekáno strappò l'arma dalla presa della sua carne e sferrò il colpo decisivo all'ultimo brandello di tessuto che ancora vincolava il polso alla mano. Nelyafinwë, ormai sull'orlo dell'incoscienza, rovinò addosso all'amico che lo accolse tra le sue braccia in una presa disperata. Il coltello abbandonato nel baratro, insieme alla mano recisa.

L'enorme rapace si staccò dalla roccia e si lanciò in picchiata nella gola per sfuggire alla minaccia di fuoco che arrivava dal cielo. Findekáno si gettò sul suo dorso, bloccando Nelyafinwë sotto di sé e aggrappandosi alle penne con entrambe le mani.

L'Aquila doveva conoscere bene quelle vette, perché le bastarono due virate audaci per insinuarsi tra strette gole e seminare l'inseguitore. Ben presto il suo volo si assestò su un planare leggero e regolare.

Findekáno lasciò subito la presa e si sfilò la cintura. Gliela strinse forte attorno al braccio, nel tentativo di rallentare l'emorragia. Poi strappò un lembo della sua casacca e glielo fasciò stretto al moncherino, celando alla vista quell'orrido spettacolo. Infine si sfilò il mantello e lo avvolse attorno al suo corpo nudo e sofferente. Si sistemò meglio a cavallo dell'alato destriero, lo prese tra le braccia con molta delicatezza e gli fece appoggiare la testa sul suo petto.

Nelyafinwë tremava di freddo e di dolore. Bruciava di febbre. In un breve momento di lucidità sollevò la testa e vide il cugino chino su di lui, il bel viso imbrattato di sangue, solcato dalle lacrime, la mascella contratta, lo sguardo colmo di apprensione. Lo vide togliersi anche la casacca e la camicia e avvolgergliele intorno. Indifferente al freddo.

Sentì che le forze lo abbandonavano.

Appoggiò di nuovo il capo sul petto del cugino, ora pelle contro pelle. Respirò quel profumo mai dimenticato e pensò confusamente che era un bel modo di andarsene, stretto a lui, cullato dalla sua voce che mormorava il suo nome.

Un attimo prima di affondare nell'oblio, si rese conto che non aveva mai sentito Findekáno pronunciare quel nome prima di allora.

– Maitimo.

 

 

_______________________

 

Note Finali:

00.
Grazie per aver letto!
Sono gradite le critiche.
Le correzioni al tentativo di utilizzare vocaboli Quenya sono ancora più gradite.

01.
Quenya - Sindarin
Fëanárion: figlio di Fëanáro (cioè di Fëanor)
Makalaurë: Maglor
Curvo (abbreviazione di Curufinwë): Curufin
Valaraukar: i Balrog

02.
"Chiamami Maitimo…"
Maitimo è il nome che Maedhros ha ricevuto da sua madre, significa "il ben fatto", riferito al suo corpo perfetto.

03.
Námo, più frequentemente chiamato Mandos, dal nome della sua dimora, è il Vala che presiede al luogo in cui sostano, dopo la morte, gli spiriti degli Elfi prima di essere "reinseriti" nei loro corpi.

04.
Endor: la Terra di Mezzo, in Quenya
Indecisa se usare la versione più arcaica (Endórë) o quella meno arcaica (Endor, appunto), ho scelto quest'ultima solo perché fa "scorrere" meglio il testo.

05.
E l'arpa, che fine ha fatto? Chi lo sa, Maedhros non l'ha vista… forse Fingon, preso dalla trepidazione, l'ha abbandonata quando ha smesso di cantare per seguire la voce del cugino…

  
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