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Autore: NightmareInsomnia    24/12/2015    1 recensioni
Camille si ritrova alla vigilia di Natale a scrivere una lettera per il compagno Niall e la figlia Eliza.
Le sue mani ghiacciate stringono la penna mentre cerca le parole per spiegare alle due persone più importanti della sua vita che ha un tumore.
[One-Shot partecipante al contest indetto su Facebook "Letters to you".]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Mani ghiacciate
 

 

 

24 Dicembre 2015

 

Nevica.

Stamane il mio cellulare ha squillato. Eri tu Niall.

Non ti ho risposto e ho spento il telefono. Quando sono scesa dal letto, per poi affacciarmi alla finestra di questa camera d’albergo, il paesaggio era ricoperto da questa distesa bianca che nasconde ogni cosa, cancella i colori della natura, ammorbidisce gli angoli spigolosi dei tetti aguzzi delle casupole in lontananza, e improvvisamente ha portato nuovamente purezza nella mia vita, anche se solo per qualche fugace istante.

Mi mancate.

Ormai è passata una settimana da quando ho preso in prestito la macchina di mia sorella e ho accompagnato Eliza a scuola per poi sparire nel nulla.

All’uscita c’era qualcuno ad attenderla? O quel giorno sarebbe dovuto spettare a me riportarla a casa e lei è rimasta ore ad aspettarmi sui gradini di quell’orrendo edificio a mattoni rossi?

Ti ringrazio per aver letto quell’unico messaggio che ti ho inviato e di non aver avvertito nessuno della mia scomparsa.

Voglio subito dirti che sto ancora prendendo medicinali e che di sciocchezze eclatanti non ne ho fatte e nemmeno ho intenzione di farle.

Il mio corpo è scosso da brividi di freddo che dilaniano il mio cuore. Ho bisogno di voi.

Non riesco a portare avanti un discorso.

Ho pianto, tanto.

Sto resistendo.

Ho bisogno della tua mano dalle dita perennemente ghiacciate appoggiata sul mio fianco sinistro mentre stringe spasmodicamente la mia carne pallida e del tuo naso poggiato al mio collo, il viso nascosto nei miei capelli per nascondere le lacrime.

Mi ami.

Mi ami poco meno o quanto nostra figlia.

Ho bisogno di te.

Ho bisogna di Eliza.

Ho bisogno di avervi accanto.

Ho bisogno di starvi lontana.

Sono fatta, stanca e lacerata.

Sto provando a mettere un ordine ai miei pensieri per provare a scriverti qualcosa di concreto, spiegarti perché me ne sono andata, che altro c’è che non va in me, perché forse non tornerò tanto presto a casa.

Solo che non ci riesco.

Ho un tumore.

Lo so da un po’ più di due settimane circa e per l’intera settimana che ho passato con voi due, facendo finta di nulla, mi sono sentita soffocare. Avevo bisogno di scappare. Perdonatemi.

E’ al cervello.

Di giorno stavo dietro ad Eliza e sentivo la sua vocina ovattata parlarmi, come se io avessi invece la testa immersa in acqua e il corpo senza forze, che in realtà si teneva saldo tutto il giorno al letto per via della nausea e del mal di testa, galleggiasse leggero, libero da ogni controllo mentale che lo avrebbe in realtà costretto a nuotare per tenersi stretta la vita. Mi sentivo un cadavere. E per la maggior parte del tempo mi sento ancora così.

La notte mi stendevo nuovamente al tuo fianco. Riuscivo a percepire la tua preoccupazione dal tuo sguardo carico di dubbio misto al lieve, ma aspro, dolore dell’impotenza e dalla tua mano che mi sfiorava incerta. Entrambi siamo rimasti in silenzio. Tu non avevi il coraggio di chiedermi cosa mi stesse succedendo, terrorizzato dalla possibile risposta, e io non sono semplicemente capace di aprirmi. Quando ti addormentavi le mie sensazioni cambiavano. Non ero più un cadavere ma una povera anima che dibatteva l’intero corpo alla ricerca di ossigeno.

Non ne dovrei morire, così mi hanno detto.

Ma la morte è la cosa meno spaventosa che riesco ad immaginare.

Continuo a pensare a mia madre.

Questi pensieri dovrebbero darmi forza. E’ una donna forte, spensierata ma concreta, felice.

Ha me, mia sorella che la ama, una bella casa, ricordi di una vita fatta quasi esclusivamente di primavere, la memoria di mio padre, suo vero amore.

Eppure riesco a ricordarmi solo della me stessa adolescente, che in fondo non è così diversa dalla me attuale, a cui nessuno spiega cosa ha la madre, nemmeno la donna stessa, e lei non chiede abituata com’è ad ignorare i problemi e le possibili cause di dolore quando se li trova davanti.

Nessuno mi ha mai detto che mia madre avesse un tumore. L’ho capito da sola quando era ormai impossibile che riuscissi ancora ad ingannare la mia mente.

Ricordo i giorni della cura come alcuni fra i peggiori.

Dopo quelli non vidi mai più gli occhi di mia madre gonfiati e arrossati dal pianto.

Io non voglio questo per Eliza.

Non so cosa fare.

Non so se sia piu` giusto starle accanto, farmi vedere debole e vulnerabile, mostrarle le mie lacrime e tenerla stretta mentre le racconto della mia malattia, o se invece dovrei rimanere lontana da lei. E da te.

Ci siamo incontrati quando io di anni ne avevo quindici e tu sedici.

Nelle mura della scuola non eravamo nessuno.

Io avevo il mio gruppo di amici, tu il tuo. Non eravamo popolari, non eravamo particolarmente brillanti e nemmeno avevamo qualche dote particolare.

Non volevo mai tornare a casa per via di mia madre e per quell’aria di non curanza che si addensava in quelle stanze infettando l’ossigeno che respiravo, e cosi` buona parte dei miei pomeriggi li trascorrevo in quella piscina dismessa e vuota adiacente al parco.

A uno dei confini dello sprazzo verde cittadino c’era questo muretto sovrastato ulteriormente da una ringhiera in metallo.

Mi arrampicavo grazie ai mattoni sporgenti e con non poca fatica lanciavo la cartella al di là dell’inferriate che io stessa poi scavalcavo.

Passavo delle ore semplicemente seduta al bordo della piscina, alternando lo studio con del fumarmi dell’erba.

Ti incontrai in dicembre.

Non mi accorsi subito delle tue gambe a penzoloni che sporgevano dal noce e ti notai soltanto quando balzasti giu` dall’albero e ti sedesti al mio fianco.

Non so quanto tempo passammo a guardare l’acqua stagnante, depositata sul fondo poichè i tubi di scarico erano intasati dalle foglie che in quello stesso autunno avevano abbandonato gli alberi, agitarsi grazie al leggero vento, so solo che per qualche motivo ci sembrò così normale che due sconosciuti si sedessero accanto senza fare domande e condividessero quel gelo invernale che irrigidì i nostri corpi.

Mi aiutasti ad accendere una sigaretta dopo il mio ventesimo tentativo di farlo con le dita paralizzate dal freddo e dopo la condividemmo continuando a non parlarci.

Solo quando te ne andasti ti abbassasti al mio orecchio per sussurrare con voce strozzata il tuo nome.

Niall.

Da quel giorno appena arrivavo tu eri già lì pronto ad aiutarmi con la borsa e con una canna già rollata pronta da offrirmi.

Non fosti nessuna delle mie prime volte, ma io che da ragazzina sbuffavo alla parola “amore” non potei fare a meno di ricredermi e di pensare che quei pomeriggi condivisi talvolta nel silenzio, talvolta nelle nostre lacrime che si univano e altre volte ancora con i mie racconti, fossero proprio questo. Amore.

Ci baciavamo, facevamo sesso, uscivamo insieme, provavamo dei sentimenti uno per l’altra ma non stavamo insieme.

Dicevo che tutto questo mi andasse bene ma penso che quel tuo amico, Ben, me lo facessi soltanto per sperare di ingelosirti in qualche modo.

Ricordo il tuo primo “ti amo”. Avevo diciasette anni quando lo dicesti a voce alta nel bel mezzo della notte ancora disteso nudo sotto il leggero strato di lenzuola del mio letto. Io, che ero seduta sul davanzale a guardare fuori dalla finestra, tornai a letto e mi addormentai con le tue mani gelate che mi stringevano forte.

Io te lo dissi quasi un anno dopo, mentre con le lacrime roventi che solcavano le mie guance sbattevo forte la porta del monolocale, in cui ti eri da poco trasferito, pronta a lasciarti andare per sempre.

Quanto stemmo realmente lonatani uno dall’altra?

Due mesi dopo ero già seduta sulla tua lavatrice a stringerti rabbiosamente i fianchi con le mie gambe, mentre le nostre labbra lottavano mordendosi e fuggendo una dall’altra per poi attirarsi di nuovo reciprocamente.

Non passò molto tempo da allora quando mostrai i miei segni di instabilità.

Ricordo il tuo volto ad appena ventuno anno, quando tornasti a casa dall’università e mi ritrovasti nella vasca grondante di sangue con i polsi aperti rivolti verso l’alto.

Vorrei riuscire a cancellare completamente quello sguardo dalle mie memorie, ma mi è impossibile.

Eri così spaventato mentre mi urlavi contro e cercavi di fermare lo scorrere del liquido vermiglio che si era sparso ovunque.

All’ospedale i medici mi costrinsero a una valutazione mentale.

Sapevamo entrambi da mesi che qualcosa di cattivo si era depositato nella mia anima, solo che non volevamo dargli un nome e nemmeno riconoscerne l’esistenza.

Mi lasciasti e mi affidasti a mia madre.

Mi arrabbiai così tanto perchè mi avevi abbandonata proprio nel momento in cui ne avevo più bisogno.

Mamma aveva paura di lasciarmi da sola anche per andare in bagno.

Non molti giorni dopo sembravo però essermi completamente ripresa. Ero piena di voglia di fare e non riuscivo a rimanere seduta davanti alla televisione per più di un paio di minuti.

Mia madre sorrideva.

Solo due settimane dopo, dal mio vecchio letto di quando ancora abitavo in quella casa, la sentii chiamarti al telefono fra le lacrime pregandoti di venirmi a riprendere.

Non venisti. Scoprii soltanto dopo che eri tornato in Irlanda con tuo padre.

L’anno dopo abitavo con mia sorella Grace e con la sua famiglia. Io non riuscivo a fare meno di sentirmi un peso per qualsiasi cosa facessi, suo marito mi sorrideva cordialmente ma sapevo che pregava Grace di buttarmi fuori di casa e la folla di figli, che nonostante la giovane età aveva già sfornato, mi considerava “la zia svitata”.

Un giorno di fine estate Lucy, la più piccola fra le bambine, corse su per le scale e spalancò la porta della mia camera mentre ero intenta a fissare il muro bianco che mi sovrastava.

Mi tirò la mano con l’intento di farmi uscire dal letto strillando qualcosa su un ragazzo che era in soggiorno e che era venuto per me.

Però, mentre poggiavo lentamente i piedi nudi uno dopo l’altro sul tiepido pavimento in legno non la stavo realmente ascoltando.

Capii il significato delle sue parole quando vidi i tuoi capelli biondi, che erano stati prima di allora sempre scuri, comparire alla mia vista mentre scendevo le scale.

Rimasi così pietrificata su quel gradino. Mi mancava anche la forza per voltarmi e rifugiarmi nella mia stanza.

Quando le tue braccia mi avvolsero sentii la bile salirmi dallo stomaco, il battito del cuore accellerato e gli schiamazzi dei bambini mi raggiunsero ovattati.

Dopo svenni.

I mesi seguenti furono un susseguirsi di campanelli trillare, passi leggeri sulle scale e la voce di Grace che mi infirmava che mi stavi aspettando giù in salotto.

Dalla mia parte furono mesi di odio verso di te, di lacrime che scorrevano incessanti e urla assolutamente poco adatte per un pubblico di bambini venire da dietro la porta, perchè no, non riuscivo più a guardarti negli occhi. Provavo solo schifo per te.

Poi litigai con Grace.

Una delle bambine mi aveva trovato sniffare coca nel bagno.

Presa dalla rabbia e urlandomi quanto le facesse schifo il fatto che io nemmeno ci provassi a stare meglio nonostante i suoi sacrifici nell’ospitarmi in quella casa, dove ovviamente non era la benvenuta, impacchettò le mie cose e ti chiamò.

Per i mesi seguenti fui costretta a guardarti in faccia mentre ti urlavo contro quanto mi facessi schifo, e, quando ero io a farmi troppo schifo, ti appoggiavi allo stipite della porta della mia camera e io ti davo le spalle fingendo di dormire.

Ti eri infatti trasferito in un appartamento un po’ più squallido, ma da due camere. Probabilmente speravi fin da subito di riuscire a rientrare nella mia vita.

Dopo un anno di urla dalla mia bocca non riusciva a uscire più niente se non qualche sossurro stanco e tu non mi avevi più abbandonato. Sembravi cresciuto. Più maturo e paterno mentre mi strappavi le sigarette le canne dalle mani lanciandomi uno sguardo di rimprovero che allo stesso tempo sembrava chiedere scusa, oppure mentre mi mettevi a letto o mi servivi qualcosa a tavola sembravi quasi rassegnato alla vita.

Era dicembre, ed era passato quasi un anno e mezzo dal tuo ritorno, quando mi infilai nel letto con te e le tue braccia corsero ad abbracciarmi e la tua bocca a mormorare un “ti amo”.

Era un “ti amo” dal gusto diverso. Era cresciuto negli anni, insieme a te.

Il dicembre dopo le tue braccia già sostenevano nostra figlia.

Ora ho trent’anni e mi ritrovo la vigiglia di Natale a scriverti questa lettera senza mai averti perdonato per ciò che facesti dieci anni fa, e adesso sono io ad averti abbandonato.

Voglio tornare a casa, Niall. Voglio passare il Natale con te e Eliza, facendo finta che non sia successo niente. Voglio ma non posso fare una cosa del genere a te, che, anche se non te lo ripeto spesso, amo ancora, e a nostra figlia, che non deve affrontare la malattia della madre come io ho fatto ai miei tempi.

Ho deciso di lasciarti questa lettera sull’uscio di casa questa stessa sera.

Dopo averla letta chiamerai Eliza, la farai sedere sulle tue gambe, e le racconterai per filo e per segno tutto il contenuto.

So che è ancora una bambina, ma voglio che sappia la nostra storia, voglio che conosca la malattia che mi porto dentro fin da prima della sua nascita e quella nuova, che, se mi vorrete ancora a casa, tutti e tre saremo costretti ad affrontare.

Ho sempre vissuto ignorando e tacendo, ma in questa nuova famiglia voglio cambiare.

Non sono però capace di raccontarle tutto guardandola negli occhi e quindi perdonami per questo infelice compito che ti ho dato e che non ti spetterebbe.

Dopo questo ti chiedo di pensare se siete realmente pronti ad accogliermi a casa.

Non hai giorni per farlo. Voglio il primo pensiero, quello naturale, quello crudo.

E poi busserò.

E poi passeremo il Natale insieme.

E poi vedremo se sarà il caso che io rimanga.

Ora mi rivolgo a entrambi.

Vi amo. Vi amo sopra a qualsiasi cosa.

Niall, tu sei stato il mio primo amore. Sei arrivato in un momento difficile e silenziosamente ti sei fatto un posto nella mia vita. I pomeriggi passati con te al bordo della piscina sono indelebili nella mia mente.

Ho fatto così tanta fatica ad aprirmi e a raccontarti cosa mi stesse succedendo, ma a te non importava. Ti bastava essermi al fianco in un periodo difficile della mia vita semplicemente cercando di scaldarmi le mani congelate con le tue altrettanto fredde.

Quando poi ho continuato a stare male nonostante tutto fosse tornato a posto, mi hai stretto un po’ più forte, impaurito da ciò che passava per la mia testa.

Poi hai aperto le braccia e mi hai lasciato andare.

Niall, non voglio capirti perchè non posso trovare una cosa del genere accettabile, ma purtroppo lo faccio. Avevi troppa paura e sei scappato credendomi più al sicuro se fra le mani di qualcuno di più maturo rispetto a te. Mi dispiace fartelo pesare ogni volta. Il fatto è che non lo dimenticherò mai. Ora però, per la prima volta in dieci anni, ti perdono.

Quando mi hai raccolto e ti sei preso cura di me ho pensato più volte di odiarti.

Non era vero. Ti amavo lo stesso. E forse questa cosa è un po’ malata.

Ho imparato nuovamente a dimostrarti amore per abitudine. Questo suona molto triste, eppure è così.

E’ amore.

Io ti amo.

Eliza. Avevo così tanta paura di te invece.

Ero malata e fragile. Non riuscivo a concepire di stare per diventare mamma.

Non riuscirò mai a ringraziare abbastanza tuo padre per avermi fatto cambiare idea e quindi tenerti.

Io ti amo.

Ho amato i tuoi occhi azzurri dal primo istante in cui mi hanno fissato spauriti e ho amato le tue manine appena mi hanno stretto le dita.

Amo passare i pomeriggi con te nei parchi e a coltivare il giardinetto sul retro. Amo quando piagnucolando mi chiedi di portarti in qualche museo o al cinema.

Amo anche semplicemente accoglierti nel mio letto le notti in cui, spaventata, svegli me e tuo padre perchè hai avuto un incubo.

Amo il fatto che appena mi siedo sul divano tu ti accoccoli al mio fianco, sapendo quanto ho bisogno della tua presenza.

Non voglio mentirti. Sarai anche piccola ma voglio dirti questo sperando che tu capisca: sei il motivo per cui sono viva.

Mi dispiace Eliza costringerti a tutto ciò che sta per venire. Credimi, mi dispiace.

Ti chiedo di farmi qualsiasi domanda ti venga in mente e di continuare a vivere serenamente come sempre. Io sto male, ma starò nuovamente bene, come quando non riesco ad alzarmi dal letto ma la settimana dopo ti porto con me al luna park.

Ora sto tornando a casa per passare con te e papà il Natale. Ti ho anche portato un regalo. Forse me ne dovrò andare per un po’ dopo, ma ti prometto che dopo poche ore aver letto questa lettera, sarò sull’uscio di casa con il tuo enorme pacco regalo.

Le lettere non le so scrivere, e forse questo si è notato.

Sappiate quindi che vi amo.

Siete tutto ciò che ho e mi siete mancati moltissimo.

Mi dispiace per tutto.

 

Camille



 


Angolo autrice:

Non pubblico da circa un anno e ho deciso di tornare con un contest.
Il prompt assegnatomi era: "A ha appena scoperto di avere un tumore e non sa come dirlo al/alla compagno/a e al/alla figlio/a. Così decide che il modo migliore per farlo è scrivere una lettera"
Sono rimasta un po' impietrita davanti a tale richiesta ma poi mi sono ripresa chiedendomi che potesse andare meglio di me parlando di qualcosa del genere.
A quanto pare tutti visto che nella stesura ho avuto il cuore pesante tutto il tempo e non sono riuscita ad aprirmi e a sfogarmi come avrei voluto. E infatti spesso esco fuori tema.
Mi ritrovo a postare questa storia come al solito all'ultimo minuto. Ho avuto una piccola ricaduta e avevo la nausea al solo pensare di guardare uno schermo.
Non riesco a dilungarmi più di così nonostante il tema trattano mi sia caro, quindi vi auguro una buona notte e un buon Natale.

Sally_

 

   
 
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