Inuyasha dormiva un sonno profondo come la morte.
Era stata una donna a condannarlo, una freccia che aveva sigillato a un albero la sua vita.
Una donna e lo stesso sentimento – vento effimero, luna scintillante – avevano condannato suo padre. Loro padre.
Amore, lo chiamavano gli umani. I demoni preferivano non dargli nome: meglio ignorare cosa li consumava, lento, come una straziante agonia, o repentino, come una fiammata che bruciava tutto. Un lampo… e il vuoto.
Era notte quando suo padre gli aveva detto addio. Era di spalle – uccidimi, Sesshomaru! Fallo ora, sicuro delle tue certezze, o la mia morte ti perseguiterà per ridurle in cenere, una per una… – e la luna rifletteva i loro occhi gialli.
Che non si volevano incontrare – perché mi abbandonate, padre? Chi è più importante del vostro potere? Di vostro figlio?
Troppe domande alle quali non era tempo di rispondere.
Troppe risposte che due occhi devono vedere nella vita che si dipana, si avvolge, che scorre nel tempo e nei sogni.
Aveva occhi profondi, la Yasha. Non erano gialli come quelli del figlio, ma avevano visto vita, morte, tempo e sogni.
Lei non aveva paura di guardarlo negli occhi. Ogni volta.
Quando era tornato, furioso con il padre, con i suoi sentimenti da ningen, con la sua morte, con l’eredità incomprensibile che gli aveva lasciato.
Quando andava a vedere l’hanyou in un sonno che era morte e vita e che lui non comprendeva.
Sapeva che per Sesshomaru sarebbe giunto il momento.
Di comprendere suo padre.
Di vivere l’amore, fatto di tempo e di sogni. Tanto per gli uomini quanto per i demoni.
E di guardare occhi gialli come suoi: occhi di demone, sguardo di umano.