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Autore: nafasa    09/03/2009    1 recensioni
E' una piccola one shot su come si puo uscire da un limbo dentro al quale ci si è chiusi da soli. A volte si reagisce ad un trauma semplicemente andando avanti, senza più una meta, come automi, non dura in eterno però. Tutto cambia se noi vogliamo che cambi. Spero vi piaccia.
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un piede davanti all’altro. Semplice, dannatamente semplice. Era per questo che gli piaceva tanto camminare.  Era una cosa che gli riusciva bene. Così era di nuovo uscito di casa senza una spiegazione. Per camminare. Perché ne aveva bisogno.

Faceva freddo. Il vento penetrava insidioso sotto i vestiti. Pensò a come Anna si stringeva nella sua giacchina ridendo quando la Bora le scompigliava i capelli a gennaio. Capelli che poi, su quel cuscino sul quale aveva visto l’ultima volta il suo viso, non c’erano più. Biondi grossi e lucenti. Sparsi sempre intorno alla faccia la mattina, tanto che svegliandosi se li trovava in bocca e si metteva a sputacchiarli con grande impegno. Ripiombò a pensare a quando c’era ancora, quando la mattina poteva aprire la porta della sua stanza e chiamarla per fare colazione. Caffelatte con tre cucchiaini di zucchero. Doveva scuoterla, farle il solletico, soffiarle nelle orecchie perché si alzasse. Era sveglia ma non voleva uscire dalle coperte. Quando avevano avuto la notizia, la notizia che non solo non avrebbero più visto quei capelli, me nemmeno quel sorriso, sua madre si era precipitata in ospedale, seguita da lui e dal padre. Aveva preso per le spalle la perduta figlia e l’aveva scossa urlando. Non era possibile, non poteva essere, avevano fatto tutto, eppure. Il marito la strappò dal letto e la tenne stretta, per calmarla. Una sola lacrima si nascose presto nella barba trascurata. Lui era lì, a qualche passo, e guardava i suoi genitori, e pensava a loro. Non ad Anna, non poteva pensarci. Fissò con occhi enormi la madre isterica per qualche secondo, poi cominciò ad indietreggiare. Si voltò, se n’andò. Senza fretta, camminando. Nessuno se n’era accorto, nessuno glielo aveva impedito. Si mise a camminare senza una meta e lentamente realizzò.

Scosse la testa quando l’immagine di quel musetto giallo e glabro, tutto serio, gli si parò nuovamente davanti. Accelerò, più veloce, più veloce, più veloce. Erano passati mesi, e lui non aveva fatto altro che camminare.

Chissà che faceva sua madre in quel momento. Chissà se lo aveva sentito uscire o se si era di nuovo persa in quella specie di limbo chimico.

Il vento gli stava congelando la faccia. Affondò il mento nel collo della giacca. Tentò di pensare solo al ritmo dei propri passi.

Tan tan tan tan tan tan.

Era incredibile quanto il tempo lenisse le ferite. Ma non le amputazioni. E se la ferita era tanto profonda era amputazione. La pelle poteva anche rimarginarsi, ma ciò che avevi perso non te lo dava indietro nessuno. Dovevi semplicemente imparare a viverci senza. Ogni giorno.

Era anche strano che ciò che c’è e non interessa troppo, quando non c’è manca troppo. Ci si accorge del valore delle cose solo quando ci vengono tolte. Idee di altri di nuovo nella sua testa. Solo pensieri. Non era buono a niente altro che pensare. E neanche cose sue, nuove, ma sempre cose che erano già state pensate. Forse tutto quello che c’era da pensare era già stato pensato.

Poi l’unica altra cosa che sapeva fare di concreto, di visibile era camminare. Non riusciva a stare fermo, ma non aveva la forza di fare qualcosa di più intenso. Giocava nella squadra di calcio della scuola. Lo avevano squalificato. Gli lanciavano il pallone e lui camminava, tirandogli pigri colpetti. In porta faceva lentamente la strada tra un palo e l’altro, analizzando l’erba. Non parava mai, nemmeno ci provava.

Almeno tutto questo andare lo avesse portato da qualche parte, almeno avesse avuto una qualche parte dove andare. Invece niente, era lì, inerte, stupido, inutile, senza un obiettivo, governato solamente da qualche dio che gli muoveva le gambe e lasciava che la mente rimuginasse all’infinito senza nessuna conclusione. Quanto ancora avrebbe dovuto camminare? Quanto ancora avrebbe voluto? Quanto ancora avrebbe potuto? Era lui che si comandava o aveva delegato l’uso di sé stesso ad una qualche entità superiore? Poteva controllare, quanto meno, le sue gambe, i suoi stessi muscoli? Poteva fermarsi? Prese fiato, si concentrò. Era fermo. Tutto intorno a lui mulinava, trasportato passivamente, il mondo. Ma lui era fermo, si opponeva.

Alzò lo sguardo dai piedi e si accorse di essere su un molo.

E vide la pietra, arida e perenne, e vide il cielo, strappato e bianco, e vide il mare, plumbeo e infinito. E tutte queste tre cose erano ferme, eppure giravano intorno a lui trasportate violentemente dalla Bora, che tutto muove e tutto genera, in un turbinio di grigi aridi e magicamente vuoti che lo avvolgevano e senza sapere come perché quando e dove e senza volerlo sapere si mise a correre e correre e vide il bordo che si avvicinava ma non voleva smettere ed era così grande tutto e lui così piccolo e ci si muoveva dentro che dopo ci fu solo il volo, il nulla denso dell’aria indefinita e mobile nel suo corpo e fuori, nell’infinita unità; e fu solo il gelo di un attimo sotto, vuoto, di non esistenza, e poi venne al mondo nuovamente.

Uscì ridente, gocciolante, graffiandosi le mani e le ginocchia sui molluschi. Il sangue si mescolò con l’acqua salata e non aveva più importanza il doloroso confine tra vita e morte, o il passato. Niente aveva più importanza dentro al freddo e grigio infinito. Lui era vivo.

Urlò al vento e rise e starnutì.

Si mise a correre verso un qualche futuro.

  
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