Un
piede davanti
all’altro. Semplice, dannatamente semplice. Era per questo
che gli piaceva
tanto camminare. Era
una cosa che gli
riusciva bene. Così era di nuovo uscito di casa senza una
spiegazione. Per
camminare. Perché ne aveva bisogno.
Faceva
freddo. Il vento
penetrava insidioso sotto i vestiti. Pensò a come Anna si
stringeva nella sua
giacchina ridendo quando
Scosse
la testa quando
l’immagine di quel musetto giallo e glabro, tutto serio, gli
si parò nuovamente
davanti. Accelerò, più veloce, più
veloce, più veloce. Erano passati mesi, e
lui non aveva fatto altro che camminare.
Chissà
che faceva sua madre
in quel momento. Chissà se lo aveva sentito uscire o se si
era di nuovo persa
in quella specie di limbo chimico.
Il
vento gli stava
congelando la faccia. Affondò il mento nel collo della
giacca. Tentò di pensare
solo al ritmo dei propri passi.
Tan
tan tan tan tan tan.
Era
incredibile quanto il
tempo lenisse le ferite. Ma non le amputazioni. E se la ferita era
tanto
profonda era amputazione. La pelle poteva anche rimarginarsi, ma
ciò che avevi
perso non te lo dava indietro nessuno. Dovevi semplicemente imparare a
viverci
senza. Ogni giorno.
Era
anche strano che ciò
che c’è e non interessa troppo, quando non
c’è manca troppo. Ci si accorge del
valore delle cose solo quando ci vengono tolte. Idee di altri di nuovo
nella
sua testa. Solo pensieri. Non era buono a niente altro che pensare. E
neanche
cose sue, nuove, ma sempre cose che erano già state pensate.
Forse tutto quello
che c’era da pensare era già stato pensato.
Poi
l’unica altra cosa che
sapeva fare di concreto, di visibile era camminare. Non riusciva a
stare fermo,
ma non aveva la forza di fare qualcosa di più intenso.
Giocava nella squadra di
calcio della scuola. Lo avevano squalificato. Gli lanciavano il pallone
e lui
camminava, tirandogli pigri colpetti. In porta faceva lentamente la
strada tra
un palo e l’altro, analizzando l’erba. Non parava
mai, nemmeno ci provava.
Almeno
tutto questo andare
lo avesse portato da qualche parte, almeno avesse avuto una qualche
parte dove
andare. Invece niente, era lì, inerte, stupido, inutile,
senza un obiettivo,
governato solamente da qualche dio che gli muoveva le gambe e lasciava
che la
mente rimuginasse all’infinito senza nessuna conclusione.
Quanto ancora avrebbe
dovuto camminare? Quanto ancora avrebbe voluto? Quanto ancora avrebbe
potuto?
Era lui che si comandava o aveva delegato l’uso di
sé stesso ad una qualche
entità superiore? Poteva controllare, quanto meno, le sue
gambe, i suoi stessi
muscoli? Poteva fermarsi? Prese fiato, si concentrò. Era
fermo. Tutto intorno a
lui mulinava, trasportato passivamente, il mondo. Ma lui era fermo, si
opponeva.
Alzò
lo sguardo dai piedi
e si accorse di essere su un molo.
E
vide la pietra, arida e
perenne, e vide il cielo, strappato e bianco, e vide il mare, plumbeo e
infinito. E tutte queste tre cose erano ferme, eppure giravano intorno
a lui
trasportate violentemente dalla Bora, che tutto muove e tutto genera,
in un
turbinio di grigi aridi e magicamente vuoti che lo avvolgevano e senza
sapere
come perché quando e dove e senza volerlo sapere si mise a
correre e correre e
vide il bordo che si avvicinava ma non voleva smettere ed era
così grande tutto
e lui così piccolo e ci si muoveva dentro che dopo ci fu
solo il volo, il nulla
denso dell’aria indefinita e mobile nel suo corpo e fuori,
nell’infinita unità;
e fu solo il gelo di un attimo sotto, vuoto, di non esistenza, e poi
venne al
mondo nuovamente.
Uscì
ridente, gocciolante,
graffiandosi le mani e le ginocchia sui molluschi. Il sangue si
mescolò con
l’acqua salata e non aveva più importanza il
doloroso confine tra vita e morte,
o il passato. Niente aveva più importanza dentro al freddo e
grigio infinito. Lui
era vivo.
Urlò
al vento e rise e
starnutì.
Si
mise a correre verso un
qualche futuro.