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Autore: r_clarisse    29/12/2015    1 recensioni
Africa, 148.000 aC.
Due ragazzi innamorati, David e Steven, contemplano la bellezza del loro nuovo mondo dopo quattro anni di esodo nella Flotta Coloniale.
Il loro viaggio è terminato e ricominceranno da capo, a partire da quel momento, insieme.
David racconta in prima persona la loro storia, la loro vita insieme nelle Dodici Colonie e la corsa disperata per la sopravvivenza dopo la loro distruzione per mano dei Cyloni.
Non ha la pretesa di essere un grande racconto, ne un'opera di fantascienza, ma spero possa far trasparire in qualche modo quella che è la semplicità dell'amore che può unire due persone, attraverso lo spazio e il tempo.
"Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi Tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 5: Promesse

5.1 –“L’erba è uguale ovunque”
Ogni giorno i nostri vicini si addentrano sempre di più nel territorio dove ci siamo stanziati da ormai due mesi; l’erba oltre la collina è alta, e penetrare in questa savana non è facile.
Io e Steven siamo leggermente… sedentari, non ci allontaniamo troppo dall’accampamento, un po’ per mancanza di temerarietà; personalmente credo di averla esaurita tutta in questo dannato esodo e adesso che finalmente abbiamo l’opportunità di starcene tranquilli non vedo perché cacciarci in qualche guaio.
Miei dei, abbiamo vissuto un esodo.
In realtà ne abbiamo vissuti due, ma che senso ha distinguerli? Su New Caprica non potevamo certamente considerarci a casa. Eravamo dei fuggiaschi che si nascondevano sperando che i fili d’erba dietro ai quali stavamo fossero abbastanza alti da coprirci. Che ingenui.
Quattro anni di corsa su una flotta di astronavi disperate alla ricerca della Terra, astronavi che fino a non molto tempo prima portavano la gente a spasso per le Dodici Colonie, chi per lavoro, chi per una vacanza.
Mi sembra quasi strano pensare che quelle astronavi le abbiamo spedite tutte nel sole dopo averla trovata,  la Terra.
E i nostri vicini si ostinano ad esplorare le zone che ci circondano.
Mi rendo conto che sia necessario, che qualcuno debba pur farlo… ma chissà che bestie si nascondono in queste.
Forse leoni feroci? Tigri? O altri mostri mitici magari. Preferisco starmene qui sulla nostra cara erba verde. Sembra che l’erba qui sulla Terra sia uguale a quella dei nostri vecchi pianeti, forse è uguale in tutto l’universo?
O magari qualche parte sarà strana, diversa.
Magari molle e animata?
Che discorsi.
Steven lavora alla pompa dell’acqua che hanno costruito al fiume, io aiuto nella costruzione delle capanne e nel pomeriggio tengo i bambini del nostro gruppo.
Se la Roslin fosse ancora viva se ne sarebbe senza dubbio occupata lei.
Povera Laura, avrei voluto conoscerla personalmente e non soltanto vederla in fondo ad una sala conferenze mentre discuteva di politica, o vederla passare di sfuggita in un corridoio affollato circondata da guardie del corpo e segretari del suo entourage, o sentire la sua voce in un alto parlante mentre rassicurava la flotta sul nostro futuro. Avrei voluto parlarle, stringerle la mano e dirle quanto la stimassi.
Entrambi amiamo i bambini.
Lei li amava, almeno.
Siamo stati entrambi degli insegnanti, abbiamo spremuto le nostre meningi sui banchi di scuola ; magari le sarei piaciuto.

Ho molto tempo per riflettere ora che siamo più liberi dalle convenzioni sociali e quando vedo Steven tornare da me mi passa tutto davanti agli occhi come in un film.
Come fosse ieri.
Sapevo di essere innamorato dopo una settimana, cinque anni e mezzo fa.
Come in una di quelle canzoni d’amore country dove l’artista sta seduto su una palla di fieno ,sotto le stelle e con una chitarra acustica in mano, parlando in chiave musicale della felicità che è entrata nella sua vita, e di come quella persona sia magicamente diventata tutto.
Si, magicamente, come se fosse una magia, come se fosse qualcosa di sovrannaturale.
Ma forse in un certo senso l’amore è sovrannaturale, ultraterreno.
Ma questo è un altro discorso.


5.2 – “Non correre”
Su Canceron, Io e Steven continuammo ad uscire stabilmente per settimane, a giorni alterni.
Potrei raccontare decine di aneddoti, di fatti successi, di ricordi.
Come quella sera in cui andammo al cinema insieme: lui era arrivato prima di me e mi attendeva all’entrata dell’edificio, proprio dietro alla porta che stava sotto all’insegna luminosa del cinema – Shining Doors-.
Io arrivai e non appena lo vidi, rimanendo letteralmente bruciato dal suo sorriso – che vedevo per la prima volta in quel modo- non mi resi conto che invece di entrare dalla porta principale entrai da quella accanto, mettendomi in coda senza motivo.
Ridiamo di questa mia figura ancora adesso, dato che la mia goffaggine non se n’è mai andata.
Ricordo il momento in cui iniziammo a vederci davvero come una coppia: fu un pomeriggio, pochi giorni più tardi, nello stesso viale alberato che ci aveva visti salutarci per tornare a casa al primo appuntamento.
Ricordo i pomeriggi all’ombra degli alberi nei parchi di Lewdan, trascorsi ad ascoltarlo cantare con la sua chitarra, seduti su una panchina; le persone attorno a noi passavano di fretta lanciando sguardi veloci e disattenti, quasi come se invidiassero il nostro “noi”, quasi non le vedevo.
Non le vedevamo.
Sentivo di essere nel posto giusto al momento giusto; non mi importava realmente su quale pianeta vivessi, sapevo di essere nell’unico luogo dell’universo in cui avesse senso trovarsi: accanto a lui.
Ricordo quanto la sua risata fosse diversa da quella di chiunque altro, quanto fosse profonda e baritona, e ricordo quanto mi sentissi fortunato ad averlo accanto, come fossi riconoscente verso la vita per avermelo fatto trovare.
Come se fosse stato un regalo da parte di qualcuno sopra di me.
Forse lo è stato.
Lo è stato?
Dicono che l’amore si possa considerare reale solo dopo molto tempo speso insieme a quella persona, eppure io sono convinto che fosse reale fin dal primo giorno.
E in un attimo, si fecero tre mesi da quel primo giorno.

L’estate finì, il caldo se ne andò, ma fu proprio allora che nelle nostre menti si schiarì tutto.
Già pianificavamo un futuro che sembrava correre fuori dalle nostre stesse mani, già pensavamo a come sarebbe stato vivere insieme, avere un nostro tetto.
“State correndo troppo!” Mi diceva Jennifer un pomeriggio mentre la pioggia picchiettava contro il vetro della cucina.
“Non metto in dubbio che i vostri sentimenti siano reali ma… capisci che non si può pensare di costruire un grattacielo in una settimana David! L’amore non è un gioco!”
Stavamo seduti in cucina a parlare di quei piani mentre la televisione parlava di disordini sociali.
“E’ stata dura la decisione del presidente Adar di inviare un gruppo di Marines su Aerelon” diceva la giovane Playa dentro il piccolo monitor della televisione durante la diretta del notiziario generale di Picon, leggendo un copione posto dalla redazione sulla sua scrivania “Al fine di sedare le rivolte popolari nelle contee attorno alla capitale del pianeta.”
Jennifer era leggermente preoccupata per me, per noi, perché temeva che avremmo preso alla leggera l’idea di una vita insieme.
Come darle torto del resto, molti giovani si lasciano ammaliare dal fascino del divertimento e del piacere, e finiscono per lanciarsi in imprese simili senza nemmeno rendersi conto che non saranno minimamente in grado di reggere ai problemi più basilari.
Fortunatamente, non era il nostro caso.
“Vi conoscete da troppo poco tempo per… programmare di andarvene a stare per conto vostro!”
Si tormentava le mani mentre teneva i gomiti appoggiati al tavolo; io avevo gli occhi rivolti verso lo schermo del televisore ed ascoltavo Playa parlare del dramma.
“Durante un conflitto a fuoco in un bar del posto, quindici persone hanno perso la vita. Il presidente Adar e l’intero governo di Caprica hanno espresso il loro profondo cordoglio ad Aerelon.”
Diceva la bionda con l’accento squisitamente tipico della gente di Picon. La sua voce era leggermente incupita mentre leggeva il rapporto, questa notizia sembrava averla leggermente provata.
“David, mi stai ascoltando?” Chiese Jennifer, voltandosi anche lei per un istante verso la tv.
“Come… Si! Si scusami.” Mi posi una mano sulla bocca per poi risponderle.
“Noi non… non stiamo ancora pensando di andare da nessuna parte.”
“Ne sei sicuro?” La sua voce assunse un leggerissimo tono accusatorio, ma percettibile.
“Si… cioè… ma che discorso stiamo facendo Jennifer? Non scappo da nessuna parte, di cos’hai paura?”
Risposi con un lieve scatto. Jennifer si zittì per qualche secondo, mentre il silenzio veniva riempito dalla parlata veloce e ben scandita di Playa che intanto, continuava a parlare della sparatoria su Aerelon.
“Io voglio soltanto che tu non faccia follie. Io ne ho fatte e…voglio evitartelo” Riprese “Lo capisci?” SI voltò nuovamente verso di me.
“Naturalmente..” e guardai verso il basso incrociando le braccia.
“Non farò nulla senza esserne sicuro Jennifer, su questo puoi stare tranquilla.”
Ed ero convinto di quello che dicevo, anche se non potevo immaginare che la situazione si sarebbe evoluta così velocemente in quel momento.
Non potevo immaginare che il rapporto con Steven si sarebbe consolidato in quel modo… in così poco tempo.
“E poi David… non credo sia una cosa giusta andare a vivere insieme…” Disse con un tono diverso, quasi intimidito e indugiante.
“Come mai?” Chiesi guardandola con aria interrogativa.
“Beh…” Iniziò ad giocherellare con le punte dei capelli in modo quasi nervoso, facendo trasparire una certa angustia nel prepararsi a dire ciò che pensava; mentre la guardavo realizzai che non mi fossi mai reso conto di quanto fosse bella quella donna; quanto i suoi lineamenti fossero tipici delle donne di Virgon, quanto fosse invecchiata precocemente in quegli anni e quanto le volessi bene.
“Voi non…” e mi chinai leggermente verso di lei chiedendo “Noi non?”
“…Voi non siete sposati.” Terminò velocemente guardando in basso, come se si vergognasse di ciò che avesse appena detto.
Al chè mi pietrificai per qualche secondo e la mia risposta assomigliò ad suono scomposto –aehw- piuttosto che ad una parola reale; mi passai una mano tra i capelli.
“E sai come la penso, gli Dei non approvano certe cose. Due giovani che vivono sotto lo stesso tetto senza essere sposati…” Arrossì “…e dormono insieme!” Adesso era chiaramente imbarazzata –e a dire il vero lo ero anche io- , la sua parlata era diventata veloce e nervosa, e guardava verso il soffitto con le sopracciglia inarcate.
“Jennifer io non..” Provai a rispondere richiamando a me la ragione.
“Io non so cosa dire… intendo, cioè non… non credo ci sia bisogno di parlarne..” Non sapevo come cavarmela in quella spinosa situazione; in fondo lei non mi aveva mai parlato di cose simili e perciò mi lasciò spiazzato e senza argomenti con cui controbattere.
Inoltre, non mi era mai sembrata una donna particolarmente devota alla religione, non l’avevo mai vista frequentare le funzioni al tempio ne tantomeno pregare.
Non immaginavo avesse idee tanto tradizionali e conservatrici. Davvero la conoscevo così poco?
“Non credo sia un vero problema Jennifer…e poi scusa non dicevi di non correre? Stai parlando di matrimonio!” Inarcai anche io le sopracciglia per poi proseguire.
“E poi forse- indugiai-forse per certi discorsi è un po’…tardi…” dissi abbassando ancora di più la voce, pentendomi immediatamente di aver fatto una tale allusione.
“Oddei!” Scattò Jennifer totalmente a disagio “ la discussione sta andando oltre.. ascolta, sei grande ormai, quello che dovevo dirti te l’ho detto” Inarcò nuovamente le sopracciglia e chiuse gli occhi in tono solenne “Cerca di agire in modo ponderato e non lasciarti prendere la mano, ok?”
“Ok…” Risposi un po’ titubante.
Ci guardammo negli occhi rimanendo in silenzio per pochi secondi prima di scoppiare in una grossa risata, dovuta forse a quello che avevo appena detto, forse al fatto che mi sentissi trattato come un bambino, o semplicemente per quanto fosse insolita la situazione.
“Comunque” cercò di blaterare lei mentre singhiozzava per le risate “non avevo mai pensato che saresti cresciuto così velocemente.”
Le risate divennero fragorose.
5.3 –“Capelli dritti”
Entrambi avevamo deciso di prenderci un anno di pausa con gli studi, e lavoravamo per dare una mano alle nostre rispettive famiglie –oltre che per mettere da parte una manciata di cubiti da investire l’anno seguente nelle rette universitarie.
Io avevo trovato un posto come educatore nella scuola dell’infanzia comunale ad Eneris, dove lavoravo tre pomeriggi a settimana; ero letteralmente terrorizzato all’idea di avere la responsabilità di seguire venticinque bambini dai tre ai sei anni.
Era il mio obiettivo, ed avevo iniziato un percorso per specializzarmi in quel mestiere, perciò il mio terrore era del tutto infondato. Ero bravo ed ero portato per lavorare con loro, eppure la mia bassa autostima e la mia paura del mondo non mi aiutavano.
Steven lavorava come impiegato nell’ufficio sotto il suo palazzo, il suo diploma glielo permetteva; quel lavoro non gli piaceva per niente, ma sarebbe stato solo per un anno, perciò si impose di tenere duro.
Lo prendevo in giro perché doveva indossare sempre giacca e cravatta; per risposta alle mie ingiurie scherzose, scuoteva la testa in silenzio guardando in basso; in realtà trovavo che fosse bellissimo con quegli abiti, gli davano un aspetto professionale e maturo.
A differenza sua, mi divertivo molto al lavoro, ma lo posso comprendere; sebbene non fosse esattamente un impegno leggero, correre dietro ai bambini tutto il pomeriggio era decisamente più interessante di quanto non potesse esserlo spillare carte e stare davanti ad un computer per sei ore al giorno.
E ci divertivamo davvero: li facevo disegnare, giocare con le formine, imparare a scrivere il loro nome.
Ma la cosa che più mi piaceva di quel mestiere erano le domande dei bambini, ogni tanto assurde, ma mai senza senso o nesso di causa; sembra che i bambini sappiano essere molto più profondi degli adulti alle volte, per non dire sempre.
Hanno ancora in cuor loro quel qualcosa che si finisce per perdere crescendo, la capacità di vedere oltre la realtà, di vedere oltre i limiti, di amare. Incondizionatamente.
Proprio in quegli anni Henry Fernandez, famoso psicologo dell’infanzia di Tauron, aveva pubblicato uno studio su una rivista scolastica in cui affermava che i bambini farebbero circa 288 domande al giorno ai propri genitori, per una media di 23 all'ora.
Ricordo quando la piccola Lily Thompson mi chiese, un giorno, prima di tornare a casa accompagnata dal padre, se le persone dall’altro lato del pianeta avessero tutti i capelli dritti in piedi; quando chiesi il perché, incuriosito da quella singolare domanda, mi rispose che essendo a testa in giù quegli sventurati avrebbero avuto questo inconveniente, facendo ridere sia me che il padre.
Tutti i genitori dei bambini sapevano chi fossi e molto presto divenni noto come il “maestro biondino”, “quello che accompagnava sempre Tracy per mano fino all’uscita per non farla piangere”.
Non capisco come facciano certe persone a dire di odiarli, i bambini; sono meravigliosi, sono innocenti e puri, e sono il nostro futuro. Come si fa a non provare amore per loro?
Come si fa a non desiderare di proteggerli ed accudirli?
Me lo sono sempre chiesto –e continuerò a chiedermelo a quanto pare, perché l’uomo non cambia mai-.
Nella mia sezione c’erano bambini provenienti da tutte le Colonie, ma per la maggioranza dai pianeti più poveri –il nostro  Canceron era considerato tra quelli-.  
Alcuni di loro facevano fatica a comprendere la parlata Capricana di noi maestri, da tanto che era grave la condizione di indigenza da cui venivano.
Io e i colleghi ci dovevamo ingegnare al meglio per farci capire, tant’è che appendemmo una serie di tabelloni colorati con immagini rappresentanti le parole più importanti, per aiutarli nel masticare meglio quella strana lingua –nonostante fosse la lingua ufficiale nella nostra società-.
Ricordo che un pomeriggio Steven si fece trovare con un fiore di plastica in mano, fuori dalla porta dell’asilo; non dimenticherò mai quel momento: indossava un giaccone nero, era  appena tornato dall’ufficio, e il sole che stava ormai tramontando gli disegnava un’ombra molto suggestiva sul lato destro del viso, mentre il sinistro era illuminato da una fioca ma interessante luce arancione, fino al mento, sotto il quale era elegantemente adagiata la sua sciarpa rossa.
Ed ancora, quel suo solito sorriso, a metà tra l’introverso e la sfida, la testa chinata quasi verso il basso e un portamento tutto di un gentiluomo.
“Mi ricordava te, mi sembrava una cosa carina.” Disse con un filo di voce mentre mi passava quel dolce regalo che non avrei potuto apprezzare di più.
“E’ bellissimo, grazie.” Risposi abbracciandolo, mentre i bambini uscivano dalla porta dietro di noi, accompagnati dalla signorina Lawrance e l’assistente Levison.
Sarebbe dovuto durare per sempre, quel fiore, quel fiore di plastica con i petali tinti di un fresco lilla.
Mi dispiace non averlo potuto portare con me, mi dispiace che sia andato distrutto con tutto il resto.
Ma esiste ancora nel nostro cuore.
“Com’è andata oggi?” Mi domandò mettendo il suo braccio attorno alla mia spalla, mentre ci incamminavamo verso la sua automobile.
“Oh bene, hai presente Tracy Campbell, la bambina di cui ti parlavo l’altro giorno?” Risposi ridendo, pregustando quello che stavo per dire.
“Quella che piange sempre?”
“Si lei!-risi ancora più forte- I suoi nonni sono di Sagittarian e i genitori la portano da loro tre volte all’anno. Ha passato tutto il pomeriggio a parlarmi di come l’astronave si alza in volo dall’aeroporto e come sia bello vedere il pianeta allontanarsi dal finestrino…”
“Wow è… interessante, lo fa davvero abitualmente?” Chiese Steven.
“Si e continuava a dirmi che l’hostess le porti sempre il succo di melograno quando escono dall’atmosfera e roba simile, mi ha fatto anche il disegno della nave nello spazio. Ora, io amo questa bambina ma” ricominciai a ridere “santi dei non ce la facevo più, non ha parlato d’altro per cinque ore!”
“Beh” ribattè lui “Sai come sono fatti i Sagittariani.. sono tutti fuori di testa!” Disse riferendosi alle assurde idee della gente di quel pianetino freddo e arido a riguardo della medicina, abominio secondo loro agli occhi degli dei.
“Hey! Io ho un’amica su Sagittarian! Lei non è pazza!” Dissi riferendomi alla dolce Cassie; sorrisi voltandomi verso di lui per un attimo e condividemmo un breve sguardo.
“E’…un’amica di penna diciamo, ma è una ragazza fantastica, ci diciamo tutto!”
La sua macchina era parcheggiata dall’altra parte della strada; il traffico era pesante, faceva freddo, ed io sprofondai nel mio giaccone che mi arrivava fino a poco più in alto del ginocchio.
“Stasera vieni con me” disse “voglio mostrarti una cosa!” Attraversammo la strada velocemente ed entrammo in macchina.
“Wow, sono curioso adesso, cosa vedrò?” Chiesi mentre appoggiavo la tracolla sul sedile e lui metteva in moto il motore.
“E’ una sorpresa.” Sorrise.
Mi tolsi i guanti e passai una mano nel mio ciuffo di capelli biondissimi, tendenti quasi al bianco, ma con un centimetro di ricrescita scura, per poi sospirare ed annuire con un sorriso.
Passò a prendermi dopo cena e dopo aver salutato Jennifer, guidò fino ad uno dei campi di grano appena fuori Eneris per parcheggiare sullo spiazzo di fronte. L’aria era gelida ma, in un qualche modo che adesso non so spiegare, gradevole; una leggera foschia aleggiava su ciò che rimaneva delle spighe di grano mietute mesi prima, rendendo il luogo molto suggestivo e, volendo, misterioso e inquietante. In realtà era un banalissimo campo di grano.
“Vieni, scendi!” Disse mentre apriva lo sportello.
Ricordo perfettamente la sensazione della ghiaia sotto le scarpe che provai non appena poggiai piede a terra; mi avvolsi bene la sciarpa attorno al colletto della giacca ed infilai i guanti.
Il silenzio era quasi assoluto, interrotto soltanto dal flebile rumore delle automobili sulla statale dietro gli alberi, e dal rombo lontano dei rotori delle astronavi  che volavano nei cieli della capitale a trenta chilometri da noi.
“Guarda in alto, il cielo.” Mi invitò a sedermi accanto a lui sul cofano della sua utilitaria grigia; guardai in alto aspettandomi una qualche visione straordinaria: nulla di strano, cielo, stelle, qualche nuvola, un paio di navette da trasporto.
“Cosa dovrei vedere?” Gli chiesi strofinandomi le mani per ottenere un po’ di tepore, inutilemente.
“Non ti sembra più bello il cielo, stasera?” Chiese, inducendomi ad osservarlo meglio. Ed era vero!
Non ci avevo fatto caso, ma quella sera –come in altre tre sere di quella settimana, a sua opinione- il cielo sembrava molto più limpido del solito, libero dall’inquinamento luminoso e dalla cappa di smog a cui noi eravamo tristemente abituati e che tormentava costantemente l’atmosfera del nostro pianeta.
“Oh dei, è vero! Si vedono molte più stelle del solito oggi!” Esclamai con molto stupore. Probabilmente era grazie al freddo che aveva momentaneamente dissipato la sporcizia nell’aria.
Steven mi prese per mano, mentre con l’altra indicò in alto a destra nel cielo, indirizzando il mio sguardo verso una stella particolarmente luminosa a meno di mezzo anno luce da noi, non lontana da un’altra simile, dall’anima leggermente più fioca.
“La vedi quella? Quella più grande e luminosa?” Chiese voltandosi leggermente verso di me.
“Si.” “Quella è Helios Beta. E’ la nostra stella, il nostro sistema solare. Virgon e Leonis sono là..”
Mi sussurrò con dolcezza mentre io non dicevo nulla. “E’ casa nostra David. Le nostre radici, la nostra gente.” Continuò guardandomi.
Mi voltai verso di lui sorridendo leggermente.
Com’era strano a vedersi: da quel campo di grano, seduti sul cofano di un’automobile, potevamo vedere  due delle quattro stelle attorno alle quali orbitavano le nostre colonie, i nostri dodici pianeti; quel pallino luminoso nel cielo era in realtà pieno di vita, attorno a lui vivevano miliardi di persone; e chissà quanti altri stessero osservando il nostro sistema solare da laggiù, pensando alle stesse cose. E chissà quante astronavi in quel momento erano in viaggio nello spazio che le separava.
L’altra stella accanto, più fioca – perché leggermente più distante- , Helios Alpha, ospitava Caprica, il fulcro centrale della nostra civilità. Quel mondo ricco e florido che di certo in quel momento, seduto sul cofano di un’utilitaria, non pensavo avrei mai visitato.
“Volevo mostrartelo, mi sembrava una bella cosa. Forse è da sciocchi ma mi sembrava carino..” Indugiò guardando a terra mentre le nostre mani erano strette insieme; sembrava così timido nell’essere tenero nei miei confronti, quasi come se avesse paura di sbagliare qualcosa. Era così giusto invece, per me.
“E’ una cosa bellissima e non è per niente sciocco, credimi.” Gli risposi prima di dargli un bacio in fronte.
“Io penso che… beh, ti ci porterò un giorno. Ti porterò a casa.” Disse lui.
 
“This night is sparkling, don’t you let it go”
Continua…
   
 
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