Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: The Writer Of The Stars    29/12/2015    0 recensioni
Invece sorride. Sorride tanto, ed è sincero, perché lo vedo dagli occhi che si piegano un po’ verso l’alto seguendo la linea dell’increspatura delle sue labbra. Sorride, mi sorride davvero, non un sorriso di circostanza o uno educato, e per la prima volta nella mia vita percepisco il desiderio di voler davvero ricambiare quel sorriso con altrettanta sincerità, come facevo da bambino. Ma non lo faccio, perché c’è la mano di Conny che mi stringe la spalla, e ci sono gli occhi di tutti quegli altri sconosciuti su di me, e davvero, mi sento troppo osservato per potermi lasciar andare ad un traguardo tanto importante. Ma intanto ho accettato il suo sorriso, e mi sento fiero di me stesso per averlo fatto.
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JeanMarco AU!
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Nota:“Sunny side up” è uno slang inglese utilizzato per descrivere l’uovo al tegamino. In questp caso, però, è un riferimento all’omonimo album del cantautore Paolo Nutini.
 
Quando il dottor Smith ha decretato che la mia instabilità mentale aveva raggiunto livelli pericolosamente alti, mia madre ha compiuto tre significativi gesti in ordine di crescente importanza: ha pianto, mi ha abbracciato e ha deciso che dovevo farmi degli amici. Non so bene quale collegamento esistesse tra il mio carattere fragile e il dover socializzare con qualcuno, fatto sta che dopo il trentottesimo incontro dell’anno con lo psicologo – perché io le conto le visite, perché mi permette di rendermi conto quanto effettivamente abbia bisogno d’aiuto- mamma ha biascicato, tra i sospiri di lampante sconfitta, “Jean, per favore, sforzati di comportarti normalmente.” Da una parte mi era dispiaciuto vedere mia madre così afflitta, perché sapevo di essere la causa dei debiti in cui eravamo ingarbugliati- perché il dottor Smith sarà anche bravo quanto volete, ma si fa pagare in modo altrettanto profumato- ma poi ci ho pensato e mi sono arrabbiato con lei, perché non è colpa mia se sono fatto così, se non so come si fa a socializzare. Avrei tanto voluto urlarle contro per chiederle cos’era normale per lei, se fossi davvero una così grande vergogna, ma poi mi sono ricordato che non so come si fa ad urlare e che lei nemmeno ricorderà più il giorno in cui mi ha sentito parlare l’ultima volta, perciò meglio evitare di darle questa soddisfazione. In ogni caso poi, non ci sarei riuscito comunque.

Il Dottor Smith lo ha chiamato “mutismo selettivo”, ma per me invece si tratta solo di “osservare il mondo in silenzio”. Perché non ho niente da dire, e allora che senso avrebbe aprire bocca e sparare fuori qualche cazzata, se tanto a nessuno interessa quello che dico, visto che sono matto?

Mamma dice che è tutta colpa di papà se sono diventato così, ma è evidente quanto sia solo una scusa in più da addossare a mio padre, dal momento che dovrebbe sapere che la Sindrome di Asperger è qualcosa con cui si nasce e che non si sviluppa a quattro anni. Il fatto che il periodo in cui abbia smesso di parlare coincida con quello in cui mio padre se n’è andato non significa che sia colpa sua. Semplicemente, papà era l’unica persona con cui potevo parlare senza che venissi guardato male per le mie domande curiose, troppo profonde per un bambino dell’asilo, e dal momento in cui si è sbattuto la porta di casa alle spalle, ho smesso di chiedere perché se la gente parla con Dio non gli chiede di non uccidere e di non far schiantare aerei contro un grattacielo. Perché in realtà, mio padre ci è morto in quel grattacielo.

L’11 settembre 2001 i miei genitori avevano litigato per l’ennesima volta. Era da tempo che andava avanti così, e a volte mi sentivo in colpa, perché temevo di essere io la causa di tutti i loro problemi. Li sentivo gridare dalla mia stanza e le pareti rimbombavano quando mamma urlava che io non ero come gli altri e dovevano accettarlo, mentre papà rispondeva che ero un bambino speciale, anche migliore dei miei coetanei. Allora mi accucciavo nell’angolo destro della mia stanza, dietro alla scrivania, e piangevo in silenzio, perché non volevo che mi sentissero, e mi vergognavo perché me ne stavo sempre chiuso in casa a leggere anziché giocare come i miei compagni di scuola. A dire il vero una volta ci avevo provato a “socializzare”, come diceva la mamma. Era il mio compleanno, e ricordo di aver invitato tutti i miei compagni di classe a casa mia per festeggiare, ma nonostante ciò, avevo passato tutto il pomeriggio a fissare la porta d’ingresso chiusa dinanzi a me, seduto su una sedia in cucina con le gambe che penzolavano nel vuoto, ad attendere che qualcuno suonasse al campanello. Il giorno del mio settimo compleanno, quindi, ho capito che se nessuno era venuto alla mia festa voleva dire che mi odiavano tutti e di conseguenza, dopo aver pianto qualche ora tra le braccia deluse di mamma, mi sono asciugato gli occhioni gonfi e rossi e tirando su col naso avevo promesso a me stesso che avrei festeggiato il mio compleanno da solo per il resto della mia vita. Era meglio essere soli, che fissare per ore una porta chiusa sperando stupidamente di vederla aprirsi. Comunque, quell’11 settembre, mamma e papà avevano litigato di nuovo e io non avevo nemmeno fatto in tempo a correre ad accucciarmi sotto alla scrivania, che papà era già uscito di corsa di casa, perché era in ritardo per il lavoro. I cardini arrugginiti avevano sbattuto violentemente contro il muro e l’eco metallico era durato per ben quattro secondi e mezzi. Me lo ricordo bene, perché in quei quattro secondi e mezzi mi ero tappato le orecchie e avevo cominciato a piangere, ma non singhiozzavo, e bene o male, anche se ovattati, i suoni esterni giungevano comunque a solleticarmi i timpani. Ho capito che c’era qualcosa che non andava quando, uscendo da scuola, tra le tante teste di genitori non ho intravisto quella nerboruta di mio padre. Il che, quindi, era strano, dal momento che era sempre lui a venirmi a prendere all’uscita da scuola e a portarmi una mezz’oretta a Central Park, dove mi sedevo sempre sulla vecchia altalena in legno mezza rotta e lui mi spingeva con forza verso l’alto, “verso il cielo, papà!” gridavo ridendo. Quel giorno però, papà non mi ha portato al parco. Non ho nemmeno visto l’altalena, perché dopo quel momento ricordo solamente di aver pianto tanto e di essermi rifugiato tra le braccia di mia madre che piangeva più di me mentre fissava le macerie delle torri gemelle insieme ad altre migliaia di persone.

“Dov’è papà?” avevo chiesto con la voce un po’ rotta, perché avevo capito cosa era successo ma volevo sperare si trattasse solo di un brutto sogno. Mamma aveva scosso la testa singhiozzando più forte, indicando tremante le macerie a pochi metri da noi. Avevo capito che papà stava lì sotto e che non sarebbe più uscito di lì, o che se lo avesse fatto, lo avrebbero messo dentro una bara e sotterrato da qualche parte al cimitero, e io non avrei potuto chiedergli perché qualcuno che nemmeno conosceva lo aveva ammazzato.
Allora, da lì in poi non ho più detto niente. Avevo quattro anni e la voce ancora petulante e un po’ acuta, ma a mamma è dovuta andare bene quella come ultimo ricordo, perché né io né lei abbiamo idea di quale sia la mia voce adesso.
 

Oggi ho sedici anni e proprio perché ancora non parlo, mia madre ha deciso che ho bisogno di incontrare qualcuno come me e che potrebbe capirmi. Quindi mi ha mandato alla “Sunny side up”. La “Sunny side up” è un’associazione che raccoglie parenti delle vittime dell’attacco alle torri gemelle, e mia madre ha deciso di spedirmi a quegli incontri perché secondo lei, stare a contatto con ragazzi che hanno provato il mio stesso dolore, mi avrebbe fatto bene. Da una parte non avevo nemmeno troppa voglia di contraddirla, intestardirmi e chiudermi in camera a leggere come avevo inizialmente pensato di fare, così ci sono andato.

La prima volta che il Dottor Smith aveva nominato quest’associazione, ero rimasto interdetto per un paio di secondi, aggrottando le sopracciglia in un moto di confusione: perché mai un gruppo di familiari disperati avrebbe dovuto chiamarsi “uovo al tegamino?” Ma alla fine, sorvolando anche su questo dettaglio, mia madre mi aveva scarrozzato al luogo dove si svolgevano gli incontri – una sottospecie di salone parrocchiale sotto al centro degli alcolisti anonimi- e raccomandandomi di provare e fare del mio meglio, se n’è andata, abbandonandomi davanti al portone d’ingresso di quel centro di disperati come me.
***
 È  il 10 novembre, e tira un vento spaventoso, agghiacciante. Dando una celere occhiata disinteressata ai palazzi intorno, mi sono incamminato verso l’ingresso dell’edificio, ficcando le mani nelle tasche del cappotto blu e rabbrividendo ad ogni passo, incantandomi ad osservare l’aria condensata sotto forma di nuvoletta che prende vita dalle mie labbra. Ricordo che quella era stata una delle prime curiosità che avevo esposto a mio padre, quando avevo appena tre anni e mi bloccavo per i marciapiedi affollati di New York in pieno dicembre a fissare quella nuvoletta misteriosa.

“E’ la nostra anima, Jean.” mi aveva spiegato papà, abbassandosi alla mia altezza, incassando l’imprecazione poco elegante che un passante gli aveva rifilato, finendogli addosso. New York è una città caotica, troppo confusionaria e fredda per un bambino come me, e ai pedoni non poteva fregare meno del perché l’aria fuoriuscisse in quella maniera così magica dal nostro corpo. Probabilmente non fregava nemmeno a mio padre, ma per me avrebbe incassato anche la peggiore delle bestemmie in mezzo all’East Harlem. Di questo ero certo.

“La nostra anima?” avevo ripetuto scettico, assimilando al meglio quella nuova parola. Anima, giusto?

“Sì, l’anima, Jean. È la nostra anima che vorrebbe vedere la neve, come fai tu, allora scappa velocemente dalle tue labbra e vola via, verso il cielo.” Papà aveva sorriso teneramente, sistemandomi meglio il cappellino di lana che mia madre mi aveva infilato per forza la mattina stessa, ed io invece lo osservavo stupito, come se davvero quelle parole corrispondessero alla realtà. Ricordo di aver alzato lo sguardo verso il cielo plumbeo e di aver soffiato un paio di volte aria verso l’esterno, velocemente, ridendo nel vedere quegli accumuli di zucchero filato correre via e disperdersi nel cielo. Mi ero anche lasciato andare ad una risata divertita, ma nessuno per i marciapiedi ci aveva fatto caso e i passanti l’avevano assorbita inconsciamente nella lana dei loro cappotti innevati, gettandola in un angolo remoto dei loro timpani. Solo papà l’aveva ascoltata davvero e si era inebriato di quel suono infantile, riverberandolo in un sorriso che gli aveva preso anche gli occhi lucidi per il freddo.

Allora ci avevo creduto alla storia dell’anima che scappava dalle nostre labbra, e anche dopo aver scoperto la vera reazione chimico fisico innescata in questi casi, le parole di mio padre non si sono mai scollate dalla mia mente, e ancora oggi, quando osservo le nuvolette d’aria fredda condensarsi dinanzi ai miei occhi, non posso fare a meno che pensare agli occhi di mio padre e al suo sorriso rassicurante, da papà.

Dopo dodici passi di media lunghezza – ecco, una delle cose che mi piace fare è contare il numero delle volte in cui i miei piedi mi passano sotto il naso per la strada- ho alzato di poco lo sguardo, giusto quel che bastava per imbattermi con il vetro appannato della porta d’ingresso del centro. Lentamente ho teso la mano verso di essa e dopo aver contato fino a dieci- un’altra cosa che mi piace fare è contare fino a dieci prima di compiere qualunque gesto- ho afferrato la maniglia e l’ho spinta piano, entrando all’interno del palazzo. Non appena ho poggiato gli scarponcini scuri sul tappeto rosso carminio posto all’ingresso, ho percepito un’ondata di fastidioso calore schiaffarmi il viso e sicuramente devo essere arrossito, perché ecco, le guance rosse e accaldate sono uno di quei tratti somatici infantili che ancora mi porto dietro e credo mi accompagneranno sempre. Ad ogni modo, chiudendomi la porta alle spalle con una sottospecie di cigolio tipico delle porte che non vedono un addetto alla manutenzione da anni, ho preso a guardarmi intorno, ispezionando con lo sguardo le pareti un po’ scrostate colme di fotografie di persone che non ho mai visto. Mi sono avvicinato stranamente incuriosito ad una di esse a dopo aver adocchiato due date poste sotto alla fotografia, ho realizzato che si trattavano di immagini di gente morta. E il fatto che ogni data posta a destra del trattino recasse “11 settembre 2001” mi ha permesso di capire che si trattavano di fotografie di vittime dell’attentato alle torri gemelle. La consapevolezza che tra di esse avrei quindi potuto trovare la faccia di mio padre appesa ad un muro mi ha colpito con la stessa potenza dell’aria soffocante che c’era in quel posto, ma non ho fatto in tempo a formulare un pensiero seguente che mi sono sentito toccare da qualcuno. Sono sobbalzato immediatamente sul posto, allontanandomi impaurito, mentre il viso simpatico di un ragazzino quasi calvo mi rimandava l’immagine sorpresa del giovane che mi aveva toccato la spalla in un evidente gesto di conforto – o forse era qualcos’altro, ma in ogni caso non sono bravo a distinguere le emozioni, figuriamoci ad indovinarle-. Il ragazzo era poco più basso di me e mi osservava con un sorriso allegro che si è fatto un po’ stranito dopo la mia reazione. Ha teso la mano verso di me e deve aver pensato subito che fossi un pazzo, perché ho l’ho guardato confuso, come se non sapessi cosa dovessi fare.

“Ciao! Io sono Conny, piacere!” aveva la voce un po’ troppo acuta e allegra per i miei gusti, e già non vedevo l’ora che se ne andasse e mi lasciasse da solo.

“Sei nuovo, vero? Non ti ho mai visto qui!” invece, per mia sfortuna, non sembrava affatto intenzionato ad andarsene, anzi, dal modo in cui mi si era avvicinato, ho dedotto che stesse per instaurare un qualche tipo di contatto fisico che francamente proprio non necessitavo. Mi sono trovato mio malgrado ad annuire debolmente, mentre questo Conny sorrideva sinceramente, facendo un cenno del capo verso le sue spalle.

“Andiamo allora, siamo in ritardo!” e senza che me rendessi conto, il ragazzo mi aveva afferrato per un braccio, trascinandomi verso una porta che poco prima non avevo notato, impedendomi di poter proseguire la mia contemplazione alle fotografie. Mentre scendevamo un paio di rampe di scale  dall’aria decadente, Conny non ha smesso un minuto di parlarmi ma non so dire cosa mi stesse dicendo, perché ero troppo impegnato a contare i gradini sotto di me e, sinceramente, non avevo nemmeno voglia di ascoltarlo, così ho tirato su la mia coperta invisibile fino alle punte dei capelli, ovattando un po’ l’eco di quel chiacchiericcio fastidioso. Ad un certo punto però Conny si è fermato davanti ad una porta e se avessi saputo come fare avrei sorriso sollevato, perché almeno significava che la nostra corsa era finita e potevo finalmente allontanarmi da quell’individuo.

“Mio caro Jean” ha iniziato, poggiando una mano sulla maniglia e mi sono trovato estremamente infastidito dal modo in cui ha accostato il termine “caro” al mio nome. Non sopporto chi si prende troppe confidenze con me, mi fa sentire scoperto.

“Ti presento la ‘Sunny side up’!” ha esclamato e nel contempo spalancato la porta cigolante, abbattendo le mie barriere.
Ora mi trovo davanti a tanti occhi che mi fissano. Vorrei urlare a tutte quelle pupille multi cromatiche di allontanarsi da me e di concentrarsi da qualche altra parte, ma fino a quando non sentirò davvero la necessità di parlare di nuovo, credo mi toccherà sorbirmi quegli sguardo in silenzio, come sempre. Conny mi dà una spinta sorprendentemente potente e riesco a fatica a frenare goffamente prima di cadere rovinosamente in terra, preferendo non alzare lo sguardo per incontrare le occhiate divertite dei presenti.

“Ragazzi, lui è uno nuovo!” Conny, credendosi il Buon Samaritano della situazione, mi poggia una mano sulla spalla, introducendomi ai ragazzi seduti sulle sedie disposte circolarmente.

Circle time, Dio mio. Ci mancava solo questo.
 

“Vi presento …” poi, il mio salvatore senza capelli realizza per la prima volta di non conoscere il mio nome, e bloccandosi a metà frase mi lancia un’occhiata eloquente, del tipo “dai, forza, dì come ti chiami che voglio saperlo anche io!”
Sapevo sarebbe arrivato questo momento, era solo questione di tempo, e sapevo anche che non avrei avuto la minima idea di come affrontarlo. Non credo che il Dott Smith o mia madre abbiano fatto sapere nulla del mio “particolare” arrivo, perché vogliono che impari a cavarmela da solo nelle situazioni sociali, e questo è davvero stupido, perché se non me lo insegnano loro come si fa a socializzare, cosa posso capirci io da solo?

Mi vergogno ad alzare lo sguardo sui presenti, perciò riesco a trovare estremamente attraente la sfumatura cromatica di verde un po’ sbiadito della moquette sotto i miei piedi. Sembra davvero vecchia, direi che si trova qui da una trentina d’anni, il che significa che prima di questo gruppo di disastrati emotivamente, qui doveva esserci qualcos’altro, e …

“Conny, lascialo stare per un attimo.” Il mio soliloquio interiore viene improvvisamente interrotto da una voce che, fortunatamente, non è quella di Conny, e così mi trovo mio malgrado ad alzare un po’ lo sguardo, se non altro per curiosità.

E questo come ci è arrivato così vicino?

E’ strano che non mi sia accorto dello spostamento d’aria intorno a me, perché generalmente sono particolarmente sensibile a queste cose, eppure il tipo davanti a me in qualche modo deve essersi avvicinato, perché è praticamente a cinquanta centimetri da me, che è una distanza davvero troppo breve per i miei canoni. Mi aspettavo che questo tizio un po’ più alto di me avrebbe contratto il viso, che solo ora noto cosparso di innumerevoli lentiggini, in una smorfia severa e mi avrebbe intimato duramente di presentarmi. Invece sorride. Sorride tanto, ed è sincero, perché lo vedo dagli occhi che si piegano un po’ verso l’alto seguendo la linea dell’increspatura delle sue labbra. Sorride, mi sorride davvero, non un sorriso di circostanza o uno educato, e per la prima volta nella mia vita percepisco il desiderio di voler davvero ricambiare quel sorriso con altrettanta sincerità, come facevo da bambino. Ma non lo faccio, perché c’è la mano di Conny che mi stringe la spalla, e ci sono gli occhi di tutti quegli altri sconosciuti su di me, e davvero, mi sento troppo osservato per potermi lasciar andare ad un traguardo tanto importante. Ma intanto ho accettato il suo sorriso, e mi sento fiero di me stesso per averlo fatto.

“Io sono Marco.” Dice il ragazzo, e sorride ancora, anche quando mi afferra la mano e allontana Conny dalla mia spalla, anche quando mi trascina verso una delle sedie vuote della stanza. Quando mi afferra la mano resto impietrito, perché detesto davvero quando la gente che non conosco mi tocchi, ma nuovamente, come per quel sorriso, l’impulso di allontanarlo viene soppiantato dalla curiosità di sapere cosa questo Marco mi stia facendo per mettermi così a mio agio in un ambiente nuovo e, soprattutto, pieno di persone.

“Puoi sederti qui, va bene?” bisbiglia mentre mi indica la sedia di plastica arancione vagamente traballante, e mi trovo semplicemente ad annuire piano, mentre mi lascio andare sullo schienale della sedia. Marco mi ha lasciato la mano, e non so perché questa cosa mi fa male, mi sembra che mi manchi qualcosa, così continuo a stringere tra me e me quella mano invisibile, e chi se ne frega se gli altri mi guardano male, tanto sono tutti impegnati ad ascoltare il ragazzo con le lentiggini che ora si è messo in piedi al centro del cerchio.

“Benvenuti alla ‘Sunny side up’!” esclama con le braccia un po’ allargate, mi sembra quasi Gesù, Gesù con le lentiggini.

“Io sono Marco, ho diciotto anni e sono al primo anno del college. Studio psicologia e per questo mi trovo qui con voi, per aiutarvi e accompagnarvi nel corso dei nostri incontri.” Sta spiegando con tono calmo, e noto come tutti quanti lo stiano guardando un po’ stralunati, e solo allora realizzo che ovviamente gli altri già lo conoscono, perché non è mica il loro primo incontro, e soprattutto, capisco che sta facendo tutto questo per me, per mettermi a mio agio senza costringermi a presentarmi personalmente. Apprezzo soprattutto come non si stia rivolgendo solo a me durante il suo discorso, ma osserva tutti, per non farmi sentire diverso come sempre, e mi chiedo, come diavolo fa a sapere così tante cose di me, se mi conosce solo da un minuto e mezzo? Mi lancia uno sguardo rassicurante e non capisco perché, voglio dire, me ne sto semplicemente rannicchiato sulla mia sedia rotta e non ho fatto nulla, perciò non so cosa possa esserci in me da suscitare preoccupazione.
Tutto, Jean direbbe mia madre, e forse ha ragione, ma anche se condividiamo la stessa aria da due minuti, ho capito che questo Marco è diverso da mia madre, dal Dottor Smith e sì, anche dal resto del mondo. Forse sono un po’ pretenzioso, ma un’altra delle cose che mi piace fare è dividere le persone in categorie. Di tutte quelle esistenti nella mia mente, però, Marco non appartiene a nessuna di queste, perciò credo che mi toccherà crearne una nuova solo per lui. Intanto la salvo come bozza.

“Marco mezzo psicologo della Sunny Side up”

Salvata.
 
*****
Mi aspettavo che l’incontro della Sunny side up si sarebbe condensato in un’oretta di sermoni psicologici da parte di Gesù con le lentiggini, invece sono rimasto piacevolmente sorpreso quando Marco si è messo a sedere tra di noi- un paio di sedie distante dalla mia- e ci ha detto semplicemente: “incazzatevi.”
Era chiaro che fossi l’unico nuovo là dentro, perché a quelle parole nessuno si è scandalizzato, e una moretta con la coda di cavallo si è alzata in piedi sulla propria sedia ed ha iniziato ad urlare. Spaventato mi sono tappato subito le orecchie, cercando di non dare nell’occhio, ma quando ho notato che Marco stava osservando sinceramente interessato la tizia schizofrenica, ho imposto a me stesso di fare uno sforzo e scostandomi la coperta invisibile di dosso, mi sono sporto ad osservare gli altri e ho ascoltato le parole della ragazza. Mi sono sorpreso quando ho realizzato che stesse sputando insulti su insulti a non so chi, imprecazioni rudi e qualche lacrima prepotente, e dal suo soliloquio sono riuscito a capire che lei nell’attacco alle torri gemelle aveva perso suo fratello e che si reca ogni giorno nel Lower Manhattan anche se la sua famiglia di origine messicana non c’entra nulla con quel posto da ricconi, e lascia una rosa bianca in mezzo alla strada in memoria delle vittime. “Ogni giorno, una rosa bianca al giorno” ha gridato incazzata, e mi ha fatto uno strano effetto vederla piangere e gridare, perché stava facendo tutto ciò che avrei voluto fare anche io ma che non sarei mai riuscito ad esprimere. Ha continuato a sfogarsi per un paio di minuti, poi tutto d’un tratto si è fermata, e respirando profondamente, ha mormorato uno “scusatemi” rivolto a tutti noi, tornando a sedersi. Nessuno le ha detto nulla, e così ho pensato che ora sarebbe dovuto accadere qualcos’altro. Subito dopo infatti si è alzato un ragazzo seduto vicino a me, ma non è salito sulla sedia, limitandosi semplicemente ad elencare una serie di motivi per cui ce l’aveva col mondo con tono talmente piatto e monotono che non sembrava nemmeno umano. Ma mentre raccontava di come avesse perso i suoi migliori amici, Isabel e Farlan mi sembra avesse detto, all’attacco alle torri, ho notato che i suoi occhi grigio azzurri si sono fatti vagamente lucidi e quando è tornato a sedersi, Marco ha mormorato un “Grazie, Levi” pieno di sincera gratitudine. Forse non era uno che si apriva tanto, magari oggi era stata un’eccezione. Poi hanno parlato anche altre persone, una ragazza un po’ minuta con i capelli dello stesso colore del miele (non sto tentando di fare il romantico, anche perché non ne sono capace, ma erano davvero di quella stessa sfumatura cromatica) che invece ha rivelato di aver perso la propria madre e senza urlare ha detto che nemmeno lei sa con chi si è arrabbiata. E forse non è nemmeno arrabbiata, ha detto, ma solo tanto sola, e subito dopo aver terminato si è seduta di fianco al tizio di prima, Levi, che le ha stretto un po’ la mano. Dovevano essere fidanzati o una roba del genere, e ho provato molta tristezza – credo forse tristezza- nel vederli così uniti a causa di una tragedia comune. Conny invece ha perso suo cugino, che lavorava lì come fattorino, e a quanto ho capito era molto legato a questo tizio o una roba simile, perché altrimenti che senso avrebbe venire a degli incontri di supporto solo a causa della morte di un cugino di secondo grado? Poi c’erano altri tre ragazzi, due maschi e una femmina, che hanno detto di chiamarsi Armin, Eren e Mikasa, ed è strano che mi ricordi i loro nomi, perché generalmente tendo ad eliminare sempre le informazioni inutili dalla mia mente. Stavolta, credo di averle tenute perché mi sembravano ragazzi interessanti, dal momento che a quanto hanno raccontato non hanno perso nessuno durante l’attacco, ma sono riusciti loro stessi a sopravvivere, scappando via dagli edifici in tempo. Per questo, quindi, ho deciso che meritavano la mia stima. Ad un certo punto comunque si sono zittiti tutti e ho capito che toccava a me parlare, perché mi stavano fissando tutti. Ancora una volta non sapevo che fare, ma di nuovo, Marco è giunto in mio aiuto, ponendomi una semplice domanda a cui avrei dovuto semplicemente rispondere “sì” o “no”. Semplice tra parentesi, in realtà.

“Tu invece? Ti senti solo?” mi ha chiesto, e non so perché ho tentennato così tanto ad annuire, probabilmente perché mi sentivo in imbarazzo, o forse a causa del sorriso che mi ha riservato Marco guardandomi, ma in ogni caso, so per certo che dopo quella domanda mi sono sentito strano, come se stessi cercando davvero la risposta dopo tutti questi anni di “Tesoro, non sei solo, c’è la mamma con te!”.

Comunque, dopo ciò Marco ha lanciato un’occhiata all’orologio appeso al muro e abbandonandosi ad una smorfia dispiaciuta si è alzato in piedi, comunicandoci che purtroppo il tempo a nostra disposizione era finito. Inizialmente ci sono rimasto un po’ male, perché praticamente durante questo incontro Marco non ha fiatato o detto nulla, lasciando che tutti quanti si sfogassero, chi più pacatamente, chi in maniera distaccata. Poi però Marco ci ha sorriso con quella stessa sincerità dell’inizio, e allora, mentre ci stringevamo tutti le mani in cerchio per dieci secondi, chiudendo gli occhi e meditando per conto nostro, ho capito che Marco non voleva essere considerato uno psicologo tra noi, ma solo un altro che aveva sofferto e che ci capiva, anche se ancora dovevo scoprire in quale senso, perché sembrava troppo perfetto per avere cicatrici sul cuore.

Prima di andarmene però, mi ha fatto segno di avvicinarmi a lui e anche se un po’ intimorito, l’ho raggiunto subito, osservando il block notes dai fogli strappati che mi porgeva. Sorridendo mi ha indicato una parola scarabocchiata sul foglio a righe sbiadite, e aggrottando le sopracciglia ho letto quello che doveva essere un nome.

“Chris?”

Aveva scritto e per un attimo mi era venuto da ridere, perché ho realizzato che stava tentando di indovinare come mi chiamassi. Ho scosso il capo, e lui ha scritto qualcos’altro con la biro blu ormai agli sgoccioli di inchiostro.

“Cory?”

Ha tentato nuovamente, e stavolta stavo davvero per mettermi a ridere, e deve essersene accorto, perché ha iniziato a ridacchiare anche lui, solo un po’ imbarazzato. Un po’ spaventato da quell’improvvisa voglia di ridere, ho afferrato la penna stretta tra la mano calda di Marco- che deve essere rabbrividito al contatto, perché io soffro di ipotermia e ho sempre le mani gelide- e senza alzare lo sguardo ho scarabocchiato di fretta il mio nome sul foglio consumato, un po’ più grande rispetto ai suoi tentativi, perché volevo che se lo ricordasse. Poi sono corso via, senza nemmeno aspettare che potesse dare un’occhiata a ciò che avevo scritto, e mi piace immaginare la sua espressione nel momento in cui si è schiantato con la mia calligrafia frettolosa e un po’ inclinata verso destra, senza arzigogoli o sfumature. Solo disordinata.

“Jean.”
 
 
Nota autrice:
Una cosa velocissima: vi anticipo che la storia sarà composta al massimo da uno/due capitoli.
Alla prossima!

Letizia
   
 
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