Film > La Bella e la Bestia
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Autore: VeronicaDauntless    31/12/2015    4 recensioni
Nelle fiabe, a volte, i sogni si avverano. E se sognaste di cadere in un pozzo guardando il vostro riflesso? Fin da bambina la più grande paura di Belle è quella di addormentarsi, quella di sognare. Non immagina che di lì a breve, tentando di salvare suo fratello, si sarebbe ritrovata prigioniera di una bestia.
Dal prologo: "Avrebbe potuto dire di aver perso la sua umanità molti anni addietro, ma la verità era che non l’aveva mai avuta. [..]Questa non è la sua storia. Questa è la storia di come il suo cuore riprese a battere."
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adam, Belle, Gaston, Lumière, Quasi tutti | Coppie: Adam/Belle
Note: Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Era sveglia già da un po’, una delle infermiere le aveva portato un vassoio con acqua, pane e una scodella di brodo, ma lei non aveva toccato nulla. L’aveva slegata, anche se era ancora in quella umida cella piccola e senza finestre, di tanto in tanto un uomo dagli occhi chiari apriva lo spioncino rettangolare della porta e le lanciava uno sguardo, forse per assicurarsi che fosse ancora lì. Di certo non poteva scappare. Si era stesa sul letto, lo sguardo puntato ben oltre la parete davanti a sé, perso in un luogo dove non avrebbe dovuto pensare a nulla, ma quel piccolo angolo di pace che si era creata non durò a lungo.
La porta si aprì, l’infermiera e l’uomo dagli occhi chiari la scortarono in un’altra stanza, grande, luminosa, ben arredata, con una libreria ricolma di tomi e una scrivania grande oltre la quale sedeva un uomo anziano, canuto, ben rasato e dal fisico magro. Indossava un completo elegante, scuro e sopra di esso spiccava il camicie bianco.
Le sorrise, vedendola entrare, ma quel ghigno servì solo a metterla a disagio. Si strusciò le mani sulle braccia scoperte, nonostante non facesse freddo, si portò i capelli, che ormai dovevano sembrare solo un rovo incasinato, dietro l’orecchio e cercò di deglutire, ma un groppo le bloccava la gola.
-Siediti-
Le indicò la sedia di fronte alla scrivania e lei obbedì silenziosa, sentendo i passi dei suoi aguzzini che si allontanavano oltre la porta chiusa.
-Io sono il Dottor Delacroix, gestisco questo posto. Sai dirmi il tuo nome?-
Qualsiasi cosa le avessero iniettato, doveva essere un farmaco potente, perché la nebbia non aveva ancora smesso di offuscarle la mente, non riusciva a pensare lucidamente.
Una vocina le disse che sarebbe stato meglio mentire, ma nella confusione di immagini e suoni, non poté trovare neanche un nome.
-Belle Duval-
-Sai dove ti trovi e perché sei qui?-
Sono nel mio peggiore incubo.  –In un manicomio-
-Una casa di cura- la corresse subito, forzando ancora di più il sorriso.
-Questo è.. reale? Se fosse solo un sogno..-
-Sei qui perché eri un pericolo per te stessa e per gli altri, Belle, vagavi in stato confusionale, capisci cosa intendo? È reale-
In stato confusionale..? Ce l’avevano portata loro in stato confusionale!
-Io.. non è così..-
-Perché credi di trovarti in un sogno?-
-Perché se non è così..- il suo sguardo vagò sui tanti titoli della libreria, anatomia umana.. delirio e le cure.. nuovi metodi per la cura della schizofrenia..
-Questo è un manicomio..-
Lo aveva già detto?
-Una casa di cura- la corresse ancora, alzandosi e appoggiandosi alla scrivania, guardandola con attenzione.
-Credi di poter controllare i sogni?-
Oh, se solo avesse potuto controllarli..  la voce di quell’uomo non le piaceva, così pacata, sinuosa, così serpentina. Doveva essere per forza velenosa.
Le tornò in mente la brodaglia della locanda, le pareti bianche della stanza in cui si era svegliata, l’infermiera che le faceva l’iniezione. Chiuse gli occhi, lasciando che tutte le sue forze scivolassero via senza opporre resistenza, accogliendo il vuoto che ne rimase come unica ancora di salvezza. Guardò gli occhi piccoli e luccicanti del medico e non trovò assolutamente nulla da dire, nulla che volesse dire.
Lui continuò a porle delle domande, a chiamarla, ma lei rimaneva in tranquillo silenzio consolatorio. Alla fine l’uomo dagli occhi chiari tornò a prenderla, ma stavolta la scortò nella stanza dove si era svegliata o, almeno, era identica a quella, ma ugualmente vuota. Niente compagna di stanza per lei. L’infermiera chiuse la porta alle sue spalle.
Si rannicchiò sul letto, le ginocchia strette al petto, la schiena incastrata nell’angolo del muro, avvolse le braccia attorno alle gambe e fissò nuovamente lo sguardo lontano da lì, in quel mondo tutto suo che non aveva mai raggiunto veramente, fatto di illusioni e pace, tuttavia, questa volta era una pace che mascherava unicamente il vuoto. E lei vi si perse, grata di averlo finalmente trovato, perché, se avesse voluto sopravvivere, non c’era altro modo.

 
Il dottor Delacroix continuò a parlare con lei, giorno dopo giorno, ma lei continuò a non rispondere e, poco a poco, il suo sguardo si fece sempre più vacuo, il suo corpo sempre più provato dalle privazioni, nonostante qualcuno ai margini della sua visuale, continuasse a lasciarle un vassoio di cibo nella stanza, la sua pelle sempre più pallida, forse perché evitava il sole rintanandosi nel suo angolo oscuro finché non calava la notte.
Poi, dopo un tempo che a stento aveva sentito scorrere, l’infermiera l’aiutò a scendere delle scale fino a che non sentì il calore del giorno sul viso e la luce accecante negli occhi.
Sbatté le palpebre e vide un prato ben curato, animato da molte anime assenti come lei.
Chiuse gli occhi, ancora e ancora, ma quella visione non sparì. Dov’era il suo angolo buio? Dov’era il suo angolo privato di vuoto e silenzio?
Il suo sguardo si posò sugli uomini e le donne smunte e dallo sguardo perso, anche lei appariva così?, sugli angeli candidi della morte nei loro abiti bianchi, sul palazzo maestoso alle sue spalle.
L’infermiera la fece sedere su una sedia e le disse che si sarebbe allontanata alcuni istanti. In fondo, anche se aveva lasciato quel vuoto così confortante, poteva continuare a restare nel suo silenzio. Almeno così non l’avrebbero imbottita di sedativi.
Un uomo dalle guance paffute e il viso sorridente le si sedette vicino. Non lo degnò di uno sguardo. Ma lui continuava a fissarla sorridendo, con i capelli grigi scompigliati e la posa rilassata.
-Ehilà, ragazzina, finalmente ti hanno fatta uscire, eh? Dì un po’, come ti chiami?-
Finse di ignorarlo, ma lui non la lasciò comunque in pace.
-Io sono Maurice, paziente già da.. allora, vediamo.. due anni, ma, ehi, non hanno sperimentato ancora nessuna nuova cura su di me. Certo, qualche volta mi hanno rimpinzato di farmaci per ‘alleviare la tensione’- sbuffò –Che sciocchezze. Metà della gente che sta qui non era altro che povera gente, persone che avevano tutte le rotelle apposto e ora guardale- indicò con il mento alcuni pazienti che camminavano con lo sguardo incantato rivolto al cielo e la bocca spalancata in un sorriso scomposto.
-Il dottor Delacroix sperimenta sui suoi pazienti un nuovo metodo di cura all’avanguardia, ma ancora in via sperimentale. Quando li portano via, sono normali, quando li rivedi.. e più passa il tempo, più peggiorano. Chissà quanto ci metterà a decidere che è il mio turno. Ma tu sei sanissima, proprio come me, dico bene?-
La scrutò, trafiggendola con uno sguardo intenso che non aveva più nulla di giocoso.
-Mi chiamo Belle- sussurrò.
-È un piacere, Belle. I nuovi arrivati hanno sempre delle difficoltà, ma io ti consiglio di lasciar perdere il mutismo e collaborare. Meno loro ti credono matta, più tempo avrai prima di..- lasciò cadere il discorso, ma i suoi occhi erano puntati nuovamente sui pazienti che le aveva indicato poco prima.
Si voltò nuovamente verso di lei e le diede una leggera gomitata, riportandola fuori dai suoi pensieri.
-Molti di noi si creano un mondo tutto loro appena arrivati, per sfuggire a tutto questo, ma ciò non vuol dire che tu sia davvero matta-
E, solo per un attimo, trovò la forza di sorridere.


Si impegnava davvero. Ogni giorno, durante l’ormai abituale seduta con il dottor Delacroix, si sforzava di rispondere placidamente a tutte le domande che le porgeva, cercava, beh, cercava di non sembrare pazza, come le aveva consigliato Maurice. Aveva ripreso a mangiare, non si era più fatta prendere da crisi di panico o di mutismo, sorrideva alle infermiere, anche se ciò le costava uno sforzo non indifferente e chiacchierava spesso con Maurice, durante l’ora d’aria o nel pomeriggio, quando li lasciavano liberi nella stanza principale, dove ognuno poteva sedersi ai tavoli rotondi, leggere dei libri portati dalla famiglia o, nella maggior parte dei casi, fissare inebetiti il vuoto. C’erano un paio di tipi che la facevano rabbrividire tutte le volte, Maurice le aveva sussurrato che a volte anche i criminali venivano portati lì e che quei due uomini erano stati condannati per omicidio appena l’anno prima. Così, evitava di incrociare il loro sguardo o, ancora meglio, la loro strada. Passava la maggior parte del tempo libero con Maurice e Simon, un uomo che doveva aver passato i cinquanta già da un po’, con una calvizie evidente e le mani troppo piccole per un uomo, uno dei pochi che aveva ancora tutte le rotelle apposto.
A volte aveva sorpreso alcuni dei portantini fissarla in maniera alquanto insistente e si era sentita vulnerabile, indifesa, consapevole che quelli, almeno nel suo mondo, non erano stati tempi d’oro per le donne, soprattutto in un posto dove o eri matto davvero, o ti ci facevano diventare. In ogni caso nessuno di loro aveva protezione, lì.
Ma lei abbassava lo sguardo, ignorava il tremolio alle mani, ingoiava il groppo che rischiava di soffocarla e pregava con tutto il cuore che riuscisse a tornare a casa illesa.
Insomma, lei si impegnava davvero, ma quei dannatissimi sogni dovevano sempre incasinarle la vita, smascherarla, puntarle il dito contro, mostrando a tutti quanto davvero fosse fuori di testa. Si svegliava spesso in piena notte, urlando in preda a orribili incubi, e le infermiere accorrevano per sedarla. Il pomeriggio aveva sempre una terribile emicrania che le dilaniava la testa.
Maurice le diede una leggera gomitata sul braccio, ma lei non tolse le mani dal cranio né aprì gli occhi.
-Ehilà, bella addormentata, non escluderci così-
Si massaggiò le tempie, sospirando.  –Sono sicura che la mia testa scoppierà da un momento all’altro-
-Non ti accadrà nulla, devi solo smetterla di farli arrabbiare-
-Non è colpa mia, gli incubi mi perseguitano. Se solo non sognassi più..-
Aprì gli occhi e vide che Simon se ne era andato. Perfetto, non l’aveva neanche sentito allontanarsi. Maurice si voltò verso di lei.
-Dì un po’, ragazzina, è vero che hai un qualche.. potere dei sogni? Gira voce che è per questo che sei diventata il nuovo giocattolino del dottor Braise*-
-Braise?-
-Sì, è il nuovo nome che gli hanno appioppato, perché sai, dopo le terapie.. a volte riesci a sentire l’odore di bruciato.. l’odore dei tuoi neuroni che vanno in fumo, almeno così dicono-
Lo fissò basita. Era orribile.
-Allora? È vero?-
Sospirò ancora.  –Non ho nessun potere, è solo che, alcune volte.. i miei sogni si avverano-
-Chiarisci alcune volte-
Scrollò le spalle.  –Nove volte su dieci-
-Però, ragazzina, chi l’avrebbe mai detto- rise di gusto.   –Magari sei davvero una strega-
Lo fulminò con lo sguardo, ma non poté evitare di sorridere a sua volta.


Continuava a girare su se stessa, ad avanzare in una direzione, tornare indietro, cercare ovunque, ma tutto intorno a lei non esisteva altro che buio. Il respiro divenne irregolare, mentre il panico le attanagliava il petto e la gola si chiudeva, impedendole di respirare.
Poi, proprio davanti ai suoi piedi, si disegnò una scia luminosa che, tuttavia, in tutta quell’oscurità non l’accecava, invece, la invitava, rassicurante, le mostrava dolcemente la via e lei la percorse. Fece alcuni passi, forse camminò a lungo, a lei sembrò un tempo infinito, ma quella strada non conduceva a nient’altro che a nulla. Si fermò, si voltò indietro, voleva tornare sui suoi passi, ma, appena oltre i suoi piedi, la strada scompariva, tornando ad essere notte e cecità, cancellata da una mano accurata, letale, impassibile, sicura, eliminata lentamente, ma sempre più indietro. E lei non poteva più percorrerla, non poteva più tornare indietro. E allora dimenticava perché era lì, come era arrivata in quell’unico punto luminoso sotto i suoi piedi. Quando anche quello si spegneva, lei ripiombava nel buio, nella paura, nell’inconsapevolezza del perché fosse lì. La gola si chiudeva, ancora, il petto dilaniato dal panico, ancora, il fiato mozzo, ancora.
E lei urlava.

*Braise in francese significa brace


Angolo autrice:  Salve a tutti, come al solito pubblico con un immenso ritardo (non odiatemi), spero che il nuovo capitolo vi piaccia. La scelta dell'immagine non è casuale, diciamo che questa è stata l'immagine che ha messo in moto tutta la storia, che ha generato l'idea a cui poi non ho potuto evitare di dare vita. Fatemi sapere cosa ne pensate, buona lettura.

  
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