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Autore: Stella cadente    31/12/2015    6 recensioni
Francia, 1482:
Parigi è una città che nasconde mille segreti, mille storie, mille volti e mille intrecci.
Claudie Frollo è un giudice donna che tiene alla sua carriera più di ogni altra cosa al mondo.
Olympe de Chateaupers è una giovane ragazza da poco al servizio del giudice e, sebbene sia spavalda e forte, si sente sempre sottopressione sotto lo sguardo austero di quella donna cinica ed esigente.
Nina è una semplice ragazza di quindici anni, confinata nella cattedrale a causa di un inconfessabile segreto..
L’arrivo di Eymeric, un giovane ramingo gitano, sconvolgerà le vite di queste tre donne, in un modo diverso per ognuna.
Ma alla fine, di quali altri segreti sarà testimone Parigi?
Genere: Fantasy, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: Gender Bender
Capitoli:
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XXX.
Acqua, archè


 
Nina
 
 
Ero felice. Era questa l’unica cosa che riuscivo a pensare.
Sembrava tutto un sogno.
 
«Devo dire una cosa a tutti voi» esordì Eymeric, mettendomi una mano sulla spalla. «Questa ragazza è una persona straordinaria, nel vero senso della parola.»
Lo guardai, allarmata. Che aveva intenzione di fare?
«Ma non ha mai avuto qualcuno che la sostenesse. Claudie Frollo l’ha cresciuta, ma ha sempre represso la sua natura, per non far sì che Parigi venisse a conoscenza di un suo segreto… un segreto molto prezioso.»
Ora i gitani mi guardavano curiosi.
«Quale segreto?» chiese una anziana donna, perplessa.
Eymeric sorrise.
«Lei ve lo mostrerà. Non abbiate paura. Ve l’ho detto: è straordinaria.»
Ero nel panico. Senza che me ne fossi resa neanche conto, stavo trattenendo il respiro.
«Cosa devo fare?» sussurrai al mio amico, terrorizzata.
«Liberarti, Nina. Non aver paura di essere te stessa.»
Deglutii.
«Coraggio. Puoi farcela.»
Presi un respiro, chiudendo gli occhi.
Poi feci un gesto elegante con la mano, e in un attimo, una manciata di gocce d’acqua stava fluttuando in aria.
«Conoscete le sirene?» fece poi Eymeric.
I gitani spalancarono gli occhi e assunsero un’espressione meravigliata.
«Lei è una di loro. Ma come vi ho già detto» mi guardò con dolcezza «non farebbe mai del male a nessuno.»
Silenzio.
«Propongo di accoglierla con noi, alla Corte dei Miracoli» continuò poi, con entusiasmo. «Voi che ne dite?»
Mentre gli zingari mi guardavano, mi sentivo i nervi a fior di pelle. E se mi avessero respinta? E se mi avessero giudicata?
E se Frollo avesse avuto ragione?
La donna di prima si fece avanti e sul suo volto comparve un sorriso gentile.
«Sarà la benvenuta, Eymeric» disse.
E tutti gli altri assentirono, guardandomi come se già facessi parte di un’enorme famiglia.
 
 
 
 
Rammentai quello che mi aveva detto il mio amico, alla cattedrale.
Potresti anche meravigliare tutti, però. In senso positivo, ovviamente.
Sorrisi.
Aveva ragione. Ha sempre avuto ragione.
«Nina!» mi chiamò Jacqueline – un’adorabile bambina gitana. «Fai di nuovo quella cosa con l’acqua?»
Sorrisi. E, muovendo elegantemente le mani, produssi una bolla d’acqua, che poi esplose in aria in mille ghirigori.
Jacqueline rise e batté le scure manine paffute, contenta, mentre gli altri clandestini mi guardavano ammirati.
Ero rimasta stupita del fatto che non mi avessero subito additata come mostro, come mi aveva spesso detto Frollo. Eymeric, ancora una volta, ci aveva visto giusto: il popolo dei gitani non aveva regole, non aveva limiti, non aveva pregiudizi. Ed io li avevo subito amati, quando avevo fatto vedere loro chi ero realmente. Mi avevano accettata. Mi avevano accolta.
«Quindi tu sei in grado di produrre l’acqua con le mani?»
Una voce giovane spiccò nella massa, e subito dopo comparve un ragazzo dall’aria corrucciata, che si avvicinò a me con poche falcate. Lo guardai un attimo; aveva uno sguardo intelligente e un po’ imbronciato.
«Sì» dissi solo.
E, come a dargliene dimostrazione, feci scaturire uno zampillo d’acqua dal mio palmo.
«Verrai davvero alla Corte dei Miracoli, quando tutto sarà finito?» mi chiese a bruciapelo.
Mi sciolsi un po’.
«Lo vorrei. Ma non so se potrei.»
Lui annuii. Intanto l’attenzione stava scemando; i gitani avevano capito che avevo bisogno di non sentirmi un fenomeno da baraccone.
«Come ti chiami?» chiesi poi.
Quel ragazzo mi incuriosiva.
«Ivor.»
Dimostrava circa la mia età: era chiaro che non era un bambino.
«E come mai non sei andato a combattere?» chiesi infatti.
Lui fece spallucce.
«Non avrei potuto. Ho un fratello piccolo da tenere, e io sono l’unica famiglia che ha a parte mio padre… lui è a combattere» rispose, con tono lontano.
Mi sentii improvvisamente in imbarazzo.
«Scusami, forse non dovevo chiederlo.»
Ivor abbozzò un sorriso.
«Non importa.»
Silenzio.
«Spero solo che tutto questo finisca il prima possibile» aggiunse poi.
«Ma Eymeric mi ha detto che sono giunti ad un compromesso e…»
D’un tratto, la sagoma di Ruben – ormai avevo imparato a riconoscerlo – sfrecciò verso la torre.
«Ruben!» lo chiamò Ivor.
«Non ora!» urlò. «Eymeric per primo deve sapere!»
«Cosa? Sapere cosa?» insistette lui.
Ma Ruben non rispose.
I gitani intanto si erano zittiti al suo passaggio, come se fossero tutti un solo uomo. Forse avevano capito che era successo qualcosa.
E, in quel momento, anche io non potei fare a meno di sentire la preoccupazione che mi aggrediva.
 
 
 
****
 
 
 
Eymeric era irriconoscibile.
L’espressione completamente stravolta, gli occhi arrossati dal pianto, il volto una maschera di dolore.
Nel vederlo così sentii subito una fitta di preoccupazione.
Cos’è successo?
«Eymeric!»
Corsi verso il mio amico, mentre i clandestini mormoravano. Con la coda dell’occhio, vidi Ivor guardare la scena con un interesse vago e inquieto.
«Eymeric» ripetei, abbracciandolo. «Cosa è successo?» chiesi poi.
Ma lui non si muoveva. Sembrava che si fosse pietrificato.
Mi straziò vederlo così.
«Eymeric» gli passai una mano tra i capelli.
Silenzio.
«Parla, per amor del cielo!» la mia voce era disperata.
Lui mi guardò, e quegli occhi verdi, che avevo visto sempre allegri, vivaci, vivi, ora mi sembravano spenti, vuoti, morti.
Dove sei, Eymeric?
Dov’è quel gitano spensierato che io conosco?
«Nina.»
La sua voce mi fece sentire come se il cuore mi si fosse spezzato direttamente nel petto, frantumandosi in brandelli che ora vagavano a caso. Sentii le lacrime salirmi agli occhi.
«Mia sorella.»
Mi sembrò di non essere realmente presente.
Ormai avevo intuito.
«È morta.»
Ma la notizia mi destabilizzò comunque.
«Che cosa?»
«Sono morti quasi tutti.»
Alzai lo sguardo sulla folla che assisteva alla scena. Non mi ero resa conto che stavano ascoltando.
«Antea…» sussurrò il mio amico, con voce rotta. «La mia Antea…»
In un gesto che mi commosse, ogni gitano si diresse verso di lui, mormorando parole di conforto e abbracciandolo – compreso Ivor.
Ruben invece se ne stava da una parte, a braccia conserte, un’ombra malinconica nel suo sguardo cupo e rude. Era l’unico a non essersi avvicinato: sembrava che, insieme a me, vedesse una scena che non gli apparteneva come osservatore esterno. Erano tutti uniti in quel lutto grandissimo, mentre noi stavamo ai margini, a guardare.
Mi si avvicinò, poi disse:
«occupati tu della tua amica, di sopra. Credo che Eymeric non ne sia in grado, ora come ora.»
Anche io stavo piangendo.
«Certo» mi forzai a dire.
Sopra il mormorio dei gitani sentii il pianto straziante di Eymeric. Quel suono, quel lamento doloroso, fu come una pugnalata. Vidi, di sfuggita, che Ivor lo abbracciava.
Se solo ci fosse qualcosa che posso fare…
«Cerca di farla star meglio. E se ti vede turbata, non dirle niente. Si preoccuperebbe, e non credo che le faccia bene preoccuparsi» irruppe di nuovo la voce di Ruben.
Annuii.
«Posso stare tranquillo?» mi chiese.
«Sì» abbozzai un sorriso. «Tranquillissimo.»
Il ragazzo sospirò.
«Ti avverto, comunque: non è in buone condizioni. La ferita è molto profonda.»
I suoi occhi scuri mi trapassarono l’anima.
«Cosa stai…»
«Vai» si limitò a dire. «E fa’ in fretta.»
Lo guardai come per capire cosa volesse dirmi, ma poi me ne andai di corsa.
Dovevo vedere Olympe.
 
 
 
****
 
 
 
Quando entrai nella torre e mi avvicinai alla mia amica, inorridii. Mi sembrò di sentire nel mio cervello la voce seria di Ruben.
Ti avverto, comunque: non è in buone condizioni. La ferita è molto profonda.
Olympe era sdraiata. Una medicazione le fasciava la spalla, ma la benda era ancora imbrattata di sangue. Un velo di sudore le imperlava la fronte, e aveva gli occhi chiusi. Dormiva, ma anche nel sonno sembrava sofferente.
Dalla mia bocca fuoriuscì un singhiozzo di spavento.
«Olympe» sussurrai, chinandomi vicino a lei.
Sembrò rendersi conto del fatto che fossi lì, perché aprì appena gli occhi. Quella sua reazione mi confortò, in qualche modo.
«Nina…» farfugliò.
«Shhh» la zittii io. «Non sforzarti.»
«Sono contenta di vederti» disse, senza darmi ascolto. Sembrava così indifesa, così fragile… non l’avevo mai vista in quello stato.
«Vorrei poterti abbracciare, ma non ce la faccio» aggiunse.
«Non farlo.»
Lei sorrise, poi chiese:
«Dov’è Eymeric?»
Avvertii un groppo in gola stringersi come una corda intorno al collo.
«Non fraintendermi, sono felice che tu sia qui, ma mi è sembrato che fosse successo qualcosa.»
La sua voce era roca, ansante.
Se ti vede turbata, non dirle niente. Si preoccuperebbe, e non credo che le faccia bene preoccuparsi.
«Non è successo niente» la rassicurai.
Sua sorella è morta.
E non so se lui si riprenderà mai.
«Non sembra, dalla tua faccia.»
Silenzio.
«Senti, qual è quella pianta con cui Eymeric ti medicava?» cambiai discorso, mettendomi a cercare nella sacca del mio amico.
«Quella con i fiori gialli» disse lei, assecondandomi. «Ma, Nina… non credo che sarà molto utile.»
Avevo già preso le foglie per cambiarle la benda, ma mi fermai con la mano a mezz’aria.
«Cosa stai cercando di dire?»
«Che dovrai essere tu a proseguire. Tu ed Eymeric. Io, beh… il mio lavoro l’ho fatto.»
«Non posso credere che stai dicendo una cosa simile» ribattei, per tutta risposta.
«Guardami: sono ridotta ad uno straccio. Non è una ferita superficiale, la mia. Il mio destino è già segnato.»
Era strano come, nonostante tutto, conservasse ancora il suo tono leggero. Ma questa volta non lo apprezzai.
Scossi la testa, come una bambina.
«Tu non puoi…» quanta fatica mi costava pronunciare quella parola? «…morire, Olympe. Non puoi. Sei troppo forte. Non è possibile.»
Lei fece un sorriso – uno dei suoi, uno di quelli che non aveva nessun’altra.
«Ma sono umana.»
E a quel punto fu troppo per me.
Posai piano la testa sulla sua spalla, facendo attenzione a non farle male.
«Non devi lasciarmi, Olympe. Non voglio tornare ad essere sola.»
La sentii tirare in su col naso, mentre le mie lacrime le cadevano sulla pelle una per una.
Piange anche lei?
«Tu sei l’unica amica che io abbia mai avuto. Non posso perderti. Devi farcela, Olympe. Devi guarire. A cosa è servito, altrimenti, tutto questo? Ed io, che cosa farò?»
Olympe non diceva niente. Forse perché altrimenti la sua voce sarebbe stata incrinata e non voleva farsi vedere così – nemmeno da me.
Ma non ci badai.
«Io sono qui per sistemarti, non per lasciarti andare. È chiaro?»
Ormai piangevo davvero. Tanto, forse troppo. Le lacrime scorrevano copiose sul mio volto come un torrente e ormai erano andate a ricoprire perfino al ferita della mia amica.
Sapevo che piangere non sarebbe servito a nulla per far star meglio Olympe, ma non riuscivo più a contenermi. La sola idea di perderla mi spaventava troppo, e non potevo accettarla.
«Nina…»
«No, non ricominciare. Adesso ci penso io» dissi solo, allungando la mano verso le foglie che avevo posato vicino a lei. «Resisti, Olympe.»
«No, Nina, guarda…»
Silenzio.
Sollevai la testa e la vidi sorridere, con lo sguardo sulla ferita.
«Olympe…»
«Guarda!»
Le tolsi la benda dalla ferita, e spalancai gli occhi nel vedere cosa stava accadendo.
Le mie lacrime sfrigolavano sul taglio, che si rimarginava lentamente.
«Cosa…»
Dopo pochi secondi, sulla spalla di Olympe non c’era più nulla.
La mia amica rise di gioia.
«Nina! Guarda cos’hai fatto!»
Non riuscivo a dire niente. Un’ondata di felicità mi travolse così violenta da togliermi la parola. Sorridevo e basta.
«Mi sento una meraviglia. Mi hai guarita! Come hai fatto?»
Già, come ho fatto?
La guardai, ridendo anche io.
«Non finisci mai di sorprenderci, eh?» fece lei.
E in quel momento, non mi trattenni più.
La abbracciai con trasporto, tenendola stretta, come a non volerla lasciare andare neanche per un momento.
«Mi sei mancata, Olympe» le dissi. «Sono contenta che ce l’hai fatta.»
La sentii sorridere e mi strinse di rimando.
«Anche tu mi sei mancata. E ribadisco che, senza di te, non avrei combinato un bel niente. Non te lo aveva già detto Eymeric?»
 


Salve, e bentornati a Paris!
Spero abbiate passato delle buone feste e... beh, buon anno a tutti :)
Vi avviso però che, dal momento che dovrò riordinare le idee per i futuri sviluppi della storia, aggiornerò ogni dieci giorni al posto che una volta a settimana. Spero non sia un prolema per voi.
Detto ciò, passiamo alle cose serie.
Non so perché, ma mi stavo per mettere a piangere quando ho scritto della morte di Antea. È stato veramente triste: mi vedevo davanti Eymeric distrutto, e Nina che piangeva… Voi come ci siete rimasti?
In questo capitolo, comunque, mettiamo un po’ di carne al fuoco: ci sono Ivor e Ruben, due personaggi che finora non c’erano e su cui ci stiamo focalizzando solo adesso. Sono curiosa di sapere che idea vi siete fatti di loro :)
E poi… la guarigione di Olympe? Per me è stato emozionante scrivere quella scena, soprattutto perché capiamo quanto sia importante quella ragazza per Nina. Mi mancava scrivere di questo personaggio, davvero – sembra che sia da una vita che non scrivo di lei, ed invece è solo dal capitolo 27… bah. Comunque quelle due sono fantastiche. Le amo.
 Come sempre vi ringrazio, siete meravigliosi. Grazie per aver fatto crescere Paris e per spronarmi sempre.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Alla prossima,
Stella cadente
 
PS Il titolo del capitolo è basato proprio sul potere dell’acqua, l’”archè”, l’elemento – secondo il filosofo greco Talete – da cui tutto ha origine e a cui tutto ritorna. Mi sembrava che fosse perfetto come titolo di un capitolo su Nina :)

 
 
  
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