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Autore: Lost In Donbass    31/12/2015    1 recensioni
Tom è un agente dell'Anticrimine, squattrinato, con poca fortuna nelle relazioni, trasognato e tropo romantico. Bill è un mercenario, tossico, ficcanaso, malizioso e dannatamente sexy.
In una Berlino troppo calda, in mezzo a serial Killer psicotici, poliziotti indolenti, trafficanti poco raccomandabili e coinquilini fuori di testa, sarà mai amore tra i due ragazzi? O finiranno anche loro vittime del giro di sangue che ha avvolto Berlino nella sua morsa?
Genere: Angst, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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CAPITOLO DICIASSETTE: TU NON SEI NESSUNO!
Tom aveva paura. Tanta, tantissima paura, quel terrore ancestrale che ti attanaglia le viscere e non ti lascia stare, che ti divora dentro. Non sapeva nemmeno lui di cosa avere paura, forse di tutto ma allo stesso tempo di niente. Era semplicemente spaventato all’idea di dover incontrare quel essere mostruoso; non sapeva cosa aspettarsi, non sapeva nemmeno che reazione avrebbe avuto una volta che lo avesse avuto sotto gli occhi. Se lo avesse tentato di ammazzare per tutto quello che aveva fatto a Bill o se sarebbe riuscito a mantenere una sorta di self-control. A essere sinceri, non sapeva nemmeno perché stava correndo da solo, come un perfetto idiota verso la tana del lupo. Anzi, la sua antipatica coscienza lo stava rimproverando di aver lasciato la Centrale con la meschina scusa “Questa è una regolazione di conti. Devo andare da solo, voi preparate la squadra e seguitemi ma … fatemi andare da solo”. E poi era scappato, la pistola di servizio infilata nella tasca del felpone, perché no, lui non ce la faceva a stare in divisa, gli occhi lucidi, la mente focalizzata solo su quello: andare da lui e sbatterlo in galera. Non poteva negare a se stesso di star facendo un’emerita scemata, a presentarsi praticamente su un piatto d’argento al serial killer delle croci; e doveva ammettere che il fatto che fosse il migliore “gattino” di July non lo rassicurava affatto. E ancora, l’avrebbe trovato in casa? Oppure era andato a mietere un’altra sfortunata vittima approfittando dell’orribile temporale che si era scatenato su Berlino e delle nebbia che aveva avvolto i palazzi? Tutti questi interrogativi facevano aumentare pericolosamente le pulsazioni del cuore di Tom, terrorizzandolo, mentre cercava di aumentare il ritmo della sua corsa scoordinata sotto la pioggia battente. Svoltava scivolando nelle strade, scontrava alcune persone che si affrettavano a rincasare, saltava pozzanghere profonde quanto un fosso e cercava di non starnutire troppo. Non sapeva la reazione dei suoi colleghi, probabilmente furibondi con lui e pronti a linciarlo una volta finito quell’orrore, ad aspettare con i ritmi burocratici e naturalmente rallentati del Dieci di poter finalmente decidersi ad andare ad arrestare il loro S.I. L’unica cosa che non lo faceva collassare, che gli dava il coraggio di fare quello che stava facendo era giusto il pensiero di poter salvare Bill. Quello valeva più di mille promozioni, di mille onori: valeva più di tutto. Anche se gli sarebbe costato il posto di lavoro, non si sarebbe pentito. Bastava vedere Bill al sicuro e sorridente, e allora anche il probabile licenziamento in tronco e estromissione a vita dalle forze dell’ordine di tutto lo Stato sarebbe andata in secondo piano. Ormai era diventato Bill il suo tutto, aveva assunto la posizione d’oro nel cuore di Tom al posto della Giustizia. Ora il resto era diventato qualcosa di accessorio, e l’amore che provava per quel ragazzo così assurdo e fuori dalle righe si era calcificato nella sua testa e nel suo cuore.
Svoltò un’ultima volta, fradicio fin nelle ossa e sentì un tuono rimbombare proprio sulla sua testa, quasi come un divino avvertimento: che fossero i santi mandarini del negozio di July pronti a spalleggiarlo nella sua missione suicida?
Alzò lo sguardo al cielo nero e turbinoso come quello che stava accadendo sotto di sé, la cappa di umidità che avvolgeva tutta la città gli penetrava nelle ossa, ma rivolse comunque un sorriso incoraggiante al cielo, sillabando un “grazie signori mandarini”. Forse era ammattito del tutto, ma in quel momento si sentì di nuovo carico di qualcosa che non era coraggio ma che ci assomigliava molto.
Si avvicinò a palazzo piuttosto male in arnese che teoricamente avevano individuato come potenziale abitazione del loro omicida. Prese un profondo respiro e guardò i nomi sui campanelli: ovviamente, nessuno corrispondeva. Scosse i dread sbuffando, e si rese conto solo in quel momento che era sudato fradicio; prese un profondissimo respiro e notò che il numero sette era l’unico senza targhetta. Avrebbe iniziato da lì la sua disperata ricerca. Guardò il portone aperto, e entrò in un androne buio e puzzolente, così simile a quello del palazzo di Bill, puzzolente di urina di cani e di birra scadente. E lui che si lamentava anche della Brandenburg. Si avviò verso le scale, strette e buie, irregolari, ogni scalino insudiciato di cose che Tom non voleva nemmeno guardare, tra siringhe e bottiglie rotte. Chissà perché ogni momento che passava si pentiva sempre di più di essersi lasciato prendere dalla frenesia e di essersi cacciato in quel casino da solo. Non poteva aspettare di attuare la cattura normalmente, con i suoi colleghi? No, perché lui era Tom e doveva distinguersi, quindi doveva andarsi a incasinare la vita da solo come un perfetto masochista. Doveva raccattare un ragazzo sconosciuto in piena notte, doveva finire coinvolto in un traffico di armi coreane, doveva innamorarsi perdutamente dell’angelo più problematico di tutta Berlino e probabilmente di tutto l’universo, doveva ritrovarsi a fronteggiare da solo il nuovo inviato satanico sulla Terra, doveva insomma fare quello da cui tutte le persone normali si tenevano bene alla larga: ma in fondo lui era il poliziotto rasta del Decimo Distretto. Quindi, una garanzia di follia.
Scavalcò il corpo di un tossico ronfante e sfuggì dalla grinfie di una vecchia megera con la scopa, stringendo spasmodicamente la pistola in tasca. In quel momento avrebbe tanto voluto avere Bill lì vicino a tenergli la mano e a dirgli che avrebbe trionfato, con quel suo sorriso dolce e malizioso, sfarfallando i suoi occhi splendidi.
Sbucò al terzo piano, sventolandosi per il caldo opprimente delle scale e sobbalzando quando un lampo illuminò una bottiglia rotta davanti a lui, attraverso il vetro della finestrella ricoperto di scotch. Il numero sette era lì davanti a lui, che sembrava squadrarlo e deriderlo. “Tom, questa potrebbe essere la tua tomba, ricordalo” gli ricordò acidamente la sua coscienza. Cercò di non ascoltarla, di tapparsi le orecchie interiori e concentrarsi solo sul fattore “Salvataggio Angelo Autostoppista”; doveva rimanere lucido, sveglio, attivo e non doveva avere la testa confusa in un momento così delicato. Glielo aveva detto Bill, glielo aveva detto July, glielo avevano detto le ragazze della galleria, glielo aveva detto il direttore: Will è un demonio, è capace di assoggettarti solo con lo sguardo, ha un carisma mostruoso. Resistergli è praticamente impossibile. Questo preoccupava non poco il rasta; se già Bill e a modo suo anche July erano in grado di confonderlo completamente, mandandolo in palla, cosa avrebbe fatto quest’uomo? Come avrebbe gestito il suo famigerato sguardo assassino?
Era così preso dai suoi pensieri terrorizzati che si accorse solo poco dopo che la porta era solo accostata. Tom aggrottò le sopracciglia: perché? Che lo stesse aspettando? Che fosse già entrato qualcun altro? Ma oramai era lì, era troppo tardi per scappare. Aveva compiuto l’ultimo passo oltre il limite e non gli rimaneva che lasciarsi cadere nell’abisso. Era troppo tardi per trovare un appiglio.
Estrasse la pistola dalla felpa e sbloccò la sicura, tenendola tra le dita sudate e tremanti. Era inutile raccontarsela: se la stava facendo sotto.
Posò la mano sul legno duro e freddo della porta, chiudendo gli occhi e concentrandosi solo su Bill e sulla sua salvezza. Prese un altro profondo respiro, e si decise a spingerla di scatto, catapultandosi dentro l’abitazione, gli occhi ancora semi chiusi, urlando
-Polizia, lei è in arresto, su le mani, non tenti movimenti o …
-O cosa, Thomas? Mi uccidi?
Tom spalancò gli occhi, mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare. La voce. L’incubo che lo aveva perseguitato da quando aveva cominciato a indagare su di lui si stava avverando. Allora era vero che lo stava attendendo. Sentì il cuore accelerare i battiti e fare un gran casino nella sua cassa toracica, come se volesse uscire fuori a tutti i costi e scappare al sicuro da Bill. Si guardò nervosamente attorno e notò che era in salotto illuminato a stento da due lampade Tiffany terribilmente simili a quelle che c’erano a casa di Bill, piccolo, appesantito da enormi quadri alle pareti e aveva davvero paura di vedere chi fosse il soggetto di quelle pitture immense. Abbassò lo sguardo, tentando di rallentare i battiti impazziti del suo cuore e di non far trasparire la paura dai suoi occhi ancora innocenti. C’era un divano verde piuttosto piccolo e male in arnese davanti a lui e grossi tappeti persiani ai suoi piedi. E c’era lui, il loro serial killer, seduto a gambe incrociate sul divano.
Tom ebbe un tuffo al cuore quando finalmente, dopo secondi in cui il suo cuore sembrava essersi fermato, poté vedere in faccia l’uomo che aveva tanto dannato Bill e aveva sconvolto l’intera Berlino. Percorse con lo sguardo le gambe lunghe e scheletriche, intrecciate in quella che sembrava una posizione quasi yoga, fasciate in un paio di skinny che facevano concorrenza a quelli di Bill, risalì lungo il busto pelle e ossa, lasciato scoperto dalla camicia completamente sbottonata e orrendamente ustionato, tanto che a Tom venne quasi un conato di vomito, le braccia esili e le dita lunghe, terminanti in artigli smaltati che in confronto quelli di July erano unghiette da infante. Risalì lentamente con lo sguardo le spalle ossute che parevano quasi i rimasugli di un paio di ali, fino a soffermarsi sul viso. Tom si trovò a trattenere il respiro inconsciamente, perché era uno dei visi più belli che avesse mai visto. Lo sapeva che non avrebbe dovuto pensarlo, che era colpa solo dello stress nervoso a cui era sottoposto, che sicuramente stava commettendo un errore madornale, ma non poté trattenersi dal pensarlo. Aveva gli occhi esattamente come glieli aveva descritti July: carismatici, quegli occhi a cui sei portato ad obbedire, e in quel momento si sentì quasi in grado di capire il suo piccolo Bill. Non ci voleva credere prima, ma ora che anche lui poteva fissare quegli occhi sottili e talmente azzurri da fare male, poteva cogliere le sfumature del suo pianto. Per un ragazzino da solo quegli occhi potevano essere un faro nel buio. E figurarsi, lo diceva lui, a ventitré anni suonati, con una vita sicura alle spalle e le sue credenze ben radicate nella testa, quindi non osava immaginare per Bill cosa avessero significato. Un nuovo mondo, un nuovo inizio, una sorta di Paradiso.
I capelli di un biondo praticamente bianco gli ricadevano sotto le spalle, coprendogli parte del viso scavato e semi ustionato. E davvero, se fosse stato meno ustionato, se non fosse stato il serial killer delle croci, se non fosse stato quel bastardo che Tom avrebbe volentieri strangolato con le proprie mani per tutto quello che aveva fatto a Bill, se non fosse stato la pedina fondamentale in quella partita, se non avesse conosciuto Bill, e se fosse stato in tutt’altro contesto, allora se ne sarebbe probabilmente innamorato a prima vista.
-Io … la dichiaro in … - Tom si vergognò da solo della voce strozzata e imbarazzante che gli venne fuori e arrossì sotto lo sguardo tranquillissimo e divertito dell’altro, vittima di quel ghigno sadico e malvagio che gli incorniciava le labbra bianche.
-Ti prego, stai zitto e non renderti così ridicolo. Siediti, forza. Ti stavo aspettando.
Will gli indicò con un’elegante gesto della mano una poltrona verde semi sfondata e gli fece segno di posare la pistola sul tavolino di cristallo, dove giacevano un pugnale di fattura yemenita, una P38 carica e senza sicura e un kris malese.
Tom si sedette tremebondo, posando la pistola dove gli era stato indicato. Tanto a che sarebbe servita? Quello non era un arresto come si deve, quella era una regolazione di conti tra due uomini che lottavano per averne un terzo. Quello era il momento che l’agente stava aspettando con tanta ansia per poter porre finalmente la sua firma sul corpo e sul cuore dell’angelo e allora perché tremava? Cercò di farsi forte per se e per Bill. Cercò di trovare il carattere che mancava al suo bambolotto e che lui doveva dimostrare. Cercò di dimostrarsi all’altezza della situazione in un mondo che sicuramente non riconosceva come suo.
-Allora avevo ragione?- sussurrò, cercando di non guardare troppo negli occhi il suo nemico giurato – Ma come hai fatto a fidarti? Sarei potuto venire con tutta la squadra e per te sarebbe stata la fine.
-Saresti, appunto.- Will sogghignò, scostandosi una ciocca di capelli dal viso – Ma sapevo che non l’avresti fatto. Ti sto seguendo, caro Thomas. Da quando mi sono reso conto che il mio adorato Bill frequentava un altro, ho cominciato a studiarti da lontano. Vi ho seguiti, sempre. Ho visto tutto quello che potevo vedere e ne sono giunto alla conclusione che saresti venuto da solo, per affrontare la questione da soli. Una regolazione di conti come nel Far West, vero?
Tom si sentì assalire da una sordida rabbia, che spazzò completamente la paura che lo attanagliava. Come si permetteva quel bastardo di chiamarlo “mio Bill”?! E soprattutto, con che mente malata li aveva pedinati? Quindi aveva visto proprio tutto? Li aveva studiati come se fossero finiti in una brutta satira di 1984? E da ciò ne aveva tratto le sue perverse conclusioni?
-Perché tutto questo?- ringhiò, tentando di non impazzire e di non saltargli al collo prima dell’arrivo degli altri colleghi.
-Come perché?- Will rise piano, e Tom sentì un brivido di terrore corrergli giù per la spina dorsale – Perché lo rivoglio indietro. Lui è mio, Thomas. Te l’ha raccontata la storia dei triangoli? Immagino di sì.
-E’ … è una cosa abominevole!- urlò Tom, non riuscendo a staccare lo sguardo  dal petto di Will, senza nemmeno lui sapere perché – E chiuditi quella dannata camicia!
-Ti dà così fastidio? Potrei scommettere che se non fossimo in questa paradossale situazione mi avresti già pregato in ginocchio di venire a letto con te. Ammettilo, Thomas, su. Tanto con me non puoi mentire. Dillo che ti eccito, forza, dimmelo … - Will ghignava sadicamente, sfarfallando maliziosamente le lunghissime ciglia bianche, scostandosi i capelli dagli occhi, la vera essenza della lussuria.
 -Stai zitto, maledizione!- Tom si mise le mani tra i capelli, chiudendo gli occhi e scuotendo ripetutamente la testa. Ma perché diceva tutta quella marea di stronzate? A cosa servivano? “Per confonderti” gli suggerì la coscienza, che stranamente aveva la vocina dolce e preoccupata di Bill “per favore, gattino, non ti lasciare traviare e scombinare dalle sue parole. Sono la sua arma, non caderci dentro. Lui farà di tutto per trascinarti nel suo orrore, come ha fatto con me per anni e anni. Ma tu sei più forte, sei coraggioso: tu devi resistere”.
Will rise di nuovo, leccandosi le labbra e disse
-Bene, Thomas, allora da dove vuoi cominciare? Dal fatto che ormai nella scacchiera siano rimasti solamente due alfieri neri e una regina bianca?
-E i re dove sono finiti?- si trovò a sussurrare Tom controvoglia, rapito dal tono mellifluo e sottile del ragazzo seduto compostamente davanti a lui.
-Scacco matto Thomas.- Will si girò e prese una scacchiera su un tavolino vicino al divano, posandola davanti a loro. C’era la regina bianca esattamente al centro del ripiano e i due alfieri, di cui uno occasionalmente dipinto di nero, agli esatti opposti. Entrambi con una mossa avrebbero potuto mangiare la regina e vincere la posta in gioco. Ma nessuno era bianco e nessuno avrebbe potuto fare la prima mossa.
-Il tuo venire da me è lo scacco matto. Ci siamo mangiati a vicenda, ora rimane un’ultima mossa. E così finalmente la partita finirà.
Will estrasse una sigaretta dal pacchetto e l’accese voluttuosamente, offrendone una a Tom con un gesto misurato e un sorriso che non prometteva nulla di buono.
Scosse la testa, grattandosi nervosamente il collo.
-Ora, dovresti spiegarmi delle cose.
-Tutto quello che vuoi, zuccherino.
Tom si mise le mani tra i capelli, prendendo un profondo respiro. Non era così sicuro di voler sapere quello che si nascondeva dietro quegli osceni delitti. Avrebbe solamente voluto annientarlo, sbatterlo in prigione per l’eternità e poi semplicemente vivere il resto della sua pacifica vita con Bill. Perché diavolo doveva essersi aggiunto quel demonio al loro già non proprio stabile equilibrio? Tom sospirò: Bill era proprio come una principessa, dovevi lottare con i denti e con le unghie per ottenere la sua mano. “Ma tu hai già la mia mano, Tom, devi solamente accertarti di potermi tenere stretto” gli disse la nuova coscienza con la voce melodiosa del suo angioletto infernale.
-Perché hai ucciso tutta quella gente innocente. Cosa c’entrano con te e Bill?
-C’entrano, Thomas, c’entrano eccome.- Will soffiò una voluta di fumo – Sono i miei avvertimenti per quella testa dura di Bill.
-Avvertimenti? Che significa? Non ha senso!
-Sì che ha senso, tesoro. Vediamo, cosa pensi che avrei fatto se non ci fossi stato tu a complicarmi la faccenda e a costringermi a giocare?
Will rise di gusto, gli occhi esaltati di qualcuno che non doveva avere più la minima traccia di sanità mentale. Quel ragazzo non era da carcere, ma da manicomio.
-E continui a paragonarlo a un gioco. Ti sembrano un gioco quattro ragazzi morti?!- sbottò Tom, fulminandolo.
-Sì, e anche piuttosto divertente. Forza, rispondi alla mia domanda.
Tom si grattò la testa, e si arrischiò a dire
-Se non ci fossi stato io, dici? Beh, immagino che avresti rapito Bill e lo avresti fatto espatriare … no? Mi ha detto che sei un “Intoccabile di Inchiostro” e mi ha spiegato cosa vuol dire, quindi da ciò ne posso dedurre che avresti trasformato anche Bill in un Intoccabile e avreste continuato la vostra vita così.- Tom sentì una serie di fastidiosissimi brividi corrergli lungo la spina dorsale, provando una sorta di freddo al cuore nonostante il caldo che c’era fuori. Un fulmine cadde, illuminando a giorno uno dei quadri appesi alle pareti. Bill, ovviamente. Seduto per terra, completamente nudo e ricoperto di tagli, graffi e morsi, un collare al collo con una catena che scompariva nel buio della base, due enormi ali da pipistrello semi spiegate.
-Non mi dire che lo avevi seriamente incatenato con un collare … - sussurrò.
-A volte. Per i quadri serviva, non trovi?- Will rise di nuovo, alzandosi e zoppicando verso quell’enorme tela. – Non ti piace la mia arte?
Sfiorò con quelle unghie terribilmente lunghe e arcuate il viso di Bill, così triste e disperato anche se incastonato nei colori, accarezzandolo con un sogghigno perverso.
-L’hai mai visto piangere di dolore?- si voltò verso Tom, il viso sfigurato rilucente alla luce dei lampi che si riversavano come impazziti sulla città.
Tom sentì il cuore cominciare ad accelerare i battiti, il viso diventare rosso di qualcosa che mischiava rabbia, paura e tanta, troppa, tristezza. Non voleva ammetterlo a se stesso, ma in quel momento avrebbe tanto voluto tapparsi le orecchie e non sentire più niente. Ogni cosa orrenda che riemergeva dal passato di Bill era come una coltellata al suo cuore, uno sprazzo di dolore insostenibile. Ogni cosa brutta fatta al suo angelo si ripercuoteva sulla sua anima lasciandolo stravolto.
Non rispose, pietrificato com’era a seguire i movimenti sinuosi e ammalianti, e dannazione se non era qualcosa di straordinariamente seducente. Avevano ragione, quando gli avevano detto che resistere a Will era quasi impossibile. Maledizione.
-Sai, Thomas, forse tu non hai mai visto la parte di Bill più interessante. Per esempio, quando piange dal dolore; il sangue colava, rosso brillante, colava giù e lui rimaneva così, fermo immobile, e piagnucolava piano, quei diamanti di lacrime che scorrevano giù e si mischiavano al suo sangue. Immaginatelo, zuccherino. Immagina quanto poteva essere splendido. E poi immaginatelo incatenato al letto, con un collare al collo che singhiozza. L’avrai sentito piangere almeno una volta, no? Non è il suono più dolce che tu abbia mai sentito? Su, non dirmi di no, lui piange sempre, per qualsiasi cosa. E ora immaginatelo a strillare sempre più forte, sempre di più, e il sangue che scorre e infradicia le lenzuola insieme al suo pianto. Era una fonte divina dell’arte gotica, ragazzo mio.
-Smettila subito. Sei un mostro! Tu non puoi … non puoi … - strillò Tom, non sapendo bene che diavolo dire e nemmeno che fare, le mani premute infantilmente sulle orecchie come a voler allontanare il suono di quella voce carezzevole e l’ombra di quel ghigno malvagio e folle. Avrebbe potuto sparargli, in quel momento. Aveva davanti due pistole e due coltelli, accidenti, mentre Will era dall’altra parte della stanza, disarmato. Eppure perché non faceva nulla? Cosa lo fermava?
-Io non sono un mostro, Thomas. Sono un artista, un edonista, un seguace di Epicuro, chiamami come preferisci, ma non darmi del mostro. Tu non riconosci la vera essenza dell’arte, zuccherino.
Will rideva, lo guardava contorcersi al suono delle sue parola affilate come lame, fumando in pace la sua sigaretta e aspettando che collassasse, evidentemente.
Per ora solo le parole della “coscienza-Bill” gli avevano permesso di non impazzire del tutto “Resisti Tom, resisti e non concentrarti su quello che dice. Lo fa apposta per farti impazzire, perché lui sa che quella è la sua arma più letale. Sa che può giocare sulle menti degli altri e sfrutta questa sua innata capacità, ma su di te non deve avere presa. Tom, tappati le orecchie.”
-Questa non è arte! È follia! E ora, di grazia, vorresti spiegarmi cosa diavolo avresti fatto se io non fossi finito coinvolto in questo caso?
-Ah, sì, giusto.- Will fece una smorfia stufata, tornando ad appollaiarsi come un corvaccio sul divano – Vedi, caro, non sarebbe proprio andata come hai detto tu.
-Non avresti rapito Bill?!- Tom fece tanto d’occhi.
-E’ una cosa poco artistica, poco raffinata e poco divertente.- si accese un’altra sigaretta – Pensa in grande, Thomas.
Siccome Tom rimaneva immobile, pallido, e muto come un pesce, Will si rispose da solo, con un sorriso maligno e soddisfatto
-Avrei fatto qualcosa di artistico, raffinato e divertente. Lo avrei …
-Mi avresti ucciso, vero, Will?
Tom ci mise solamente una frazione di secondo a riconoscere quella voce melodiosa e sottile che si ripercosse tra la caduta del fulmine e quella del tuono in quel piccolo salotto saturo di fumo. Quella voce che aveva sentito quella fatidica notte fuori dal maggiolino, quella che lo aveva praticamente obbligato a offrirgli da bere, quella che lo aveva trascinato a ballare al Blue Vampire, quella che gli gemeva nell’orecchio le cose più sconce che avesse mai sentito durante le loro notti, quella che gli augurava il buongiorno miagolando, quella che ogni volta che si vedevano si alzava di un’ottava e lo assordava, quella che lo aveva convinto a mangiare il pollo alle prugne, quella che singhiozzava nella sua felpa, quella che lo aveva cacciato e se lo era ripreso, quella che aveva paura di morire, quella che lo amava e continuava a dirglielo, quella che lo chiamava “gattino”, quella che lo prendeva in giro, quella che lo cullava in ogni momento della sua esistenza. La voce del suo adorato, piccolo, Bill.
Si voltò di scatto, con un suono strozzato, mettendo finalmente a fuoco una figura slanciata in piedi di fronte alla porta del salotto, che teneva spianata davanti a se quella che poteva benissimo essere una pistola a doppia canna.
-Bill … - pigolò, alzandosi di scatto.
-Tesoro mio, sei tornato finalmente!- cinguettò Will, ridendo.
Tom guardò sconcertato il suo angelo, sempre vestito impeccabilmente come al solito, con i suoi tacchi quindici e i suoi gioielli, i suoi vestiti assolutamente glamour, il suo trucco perfetto e i suoi capelli senza il minimo filo fuori posto. Insomma, il solito Bill se non avesse avuto una pistola senza sicura e gli occhi prossimi al pianto, le mani insicure e la mascella tremante.
-Non … non sono tornato per te … - balbettò Bill, facendo oscillare lo sguardo da Tom a Will, terrorizzato. E vedendolo così con una pistola in mano non rassicurava di certo il povero rasta, che se ne stava abbarbicato alla poltrona, come lo spettatore di un orrendo film horror.
-Ma come sei diventato bello.- continuò imperterrito Will – Sei sempre uno splendore, Bill.
Si alzò, zoppicando verso Bill, il sorriso malefico apparentemente incancellabile.
-Non provare a toccarlo!- Tom non si rese nemmeno conto di quando balzò in piedi e afferrò la pelle gelida di Will, torcendogli il braccio per tentare di evitare che toccasse il suo angioletto. Mossa affrettata, come al solito per l’agente Kaulitz, che si ritrovò di nuovo sulla poltrona con la mano mostruosamente dolorante, quasi peggio di quando si era rotto il polso giocando a baseball a dieci anni.
-Te l’aveva detto July, vero zuccherino? “Non sottovalutarlo come ho fatto io”. Fai quello che ti dice, evita di metterti nei guai senza motivo.- Will lo guardò con aria divertita, mentre Tom si teneva la mano dolente e lo guardava con le lacrime agli occhi. Lacrime arrabbiate e impotenti. Aveva realizzato, come al solito con troppo ritardo, che quello era un nemico più pericoloso di quello che dava a vedere. Non lo aveva propriamente sottovalutato, quello no, però lo aveva semplicemente classificato come un pazzo psicotico da trattare con le pinze. Qualcuno che semplicemente aveva bisogno di una terapia intensiva di cure, della lobotomia, di essere seguito per il resto della sua vita da degli psichiatri, che riuscire in qualche modo a catturare fosse relativamente complicato. Uno che in fondo poteva avere delle sorte di freni, se riuscivi a capirlo nella sua mente contorta; qualcuno che forse aveva solo bisogno di aiuto. Ma ora capiva: di fronte a lui, erano loro ad avere bisogno d’aiuto. Non aveva il minimo freno inibitore, ed era fin troppo intelligente per farsi fregare. Will non aveva bisogno di essere aiutato, ma di essere eliminato. E c’era molta differenza; avrebbe forse fatto impazzire anche un gruppo di psichiatri esperti, se mai fossero riusciti a catturarlo, cosa di cui oltretutto cominciava a dubitare seriamente.
Bill gli si slanciò davanti, sfoderando i denti come se fosse una specie di cucciolo di pantera e se non fosse stato semplicemente terrorizzato Tom avrebbe sorriso. Ora riconosceva il suo piccolo Bill, il suo tigrotto della Malesia che lottava con i denti e con le unghie per tirarsi fuori dal mondo dove era stato a forza trascinato.
-Lui con noi non c’entra niente! Lascialo in pace!- ringhiò, mentre qualche lacrima trasparente cominciava a colare sulle guance pallide.
-Dici, tesoro? Però non è forse Thomas la causa di tutto questo stupido gioco, che oltretutto sta cominciando ad annoiarmi?- Will si arrotolò attorno a un dito una ciocca di capelli, tornando ad accoccolarsi sul divano, accendendosi un’altra sigaretta e soffiando una voluta di fumo sul viso di Bill.
-E allora smettila di giocare, no? Anzi, perché hai semplicemente iniziato? Cosa cerchi ancora da lui?- esplose Tom, cominciando a sudare freddo. Quella stanza si stava facendo troppo piccola e il caldo troppo pressante.
-La vendetta, ovviamente.- Will sfarfallò gli occhi, dirigendo il suo penetrante sguardo su Bill – Te ne sei andato senza nemmeno salutarmi, nonostante tutti quegli anni spesi a seguire la tua educazione. Ti sembra che ti abbia insegnato a comportarti così, Bill? Cosa ti avevo detto?
Tom seguì con lo sguardo sconcertato il suo angelo rannicchiarsi ai suoi piedi, abbassando la testa e stringendo spasmodicamente tra le mani tremanti la pistola, cercando di arginare le lacrime che cominciavano a scorrergli copiose sulle guance, trascinandosi dietro tutto il trucco. Non sapeva nemmeno perché non riusciva a fare qualcosa, ad abbracciarlo, a provare a consolarlo, a fargli sentire che c’era anche lui lì vicino. Eppure rimaneva fermo immobile, aggrappato a quella poltrona verde, troppo sconvolto per fare qualcosa e vittima delle parole secche della sua coscienza “Ormai tu non c’entri più in questo quadro. Sono loro i protagonisti, tu sei solo un’aggiunta che non c’entra e che deve starsene al suo posto. Te lo ricordi quel Velázquez  che avevi visto alle medie? Loro sono las meninas, tu sei il riflesso dei reali di Spagna nello specchio”.
-Che prima di andarsene bisogna sempre congedarsi educatamente dal padrone di casa.- recitò a memoria Bill, con la voce rotta.
-Esatto, amore mio. Tu l’hai fatto con me?
-No.
-E cosa ti avevo detto a proposito di me e te?
-Che non ci saremmo mai … mai dovuti … separare.
-Giusto, e ciò è successo?
-No.
-E di chi è la colpa?
-Mia.
-Da ciò cosa ne deduciamo, zuccherino?
-Che ora mi metti in castigo.
Tom si svegliò da quella specie di trance in cui era caduto una volta iniziato quello scambio di botta e risposta tra Bill e Will. La voce di uno, così zuccherosa e fastidiosamente stucchevole, ma con un fondo così malvagio e crudele da far accapponare la pelle e la voce dell’altro, terrorizzata e sottomessa, orribilmente pesante da ascoltare tanto si trascinava dietro quintali di tristezza e paura.
Non capiva perché Bill avesse di nuovo potuto cadere nella rete di quel ragno senza morale, come avesse potuto essersi distrutto in mille pezzi con il primo vento, come si fosse nuovamente lasciato soffocare dal passato ed essersi dimenticato del presente, però capiva chiaramente che ora solo lui poteva cercare di combinare qualcosa di buono. Dai, Tom, l’hai giurato a July, l’hai giurato a te stesso, l’hai giurato a Bill: tu l’avresti protetto e salvato. Tira fuori le palle e fai vedere chi sei.
-Ora, intanto che siamo solo noi tre, potresti farci la tua confessione. Perché tutto ciò? Come hai fatto? Che stava a significare?- la sua voce risuonò stranamente profonda in quella stanza, facendolo anche arrossire leggermente.
Bill alzò i suoi enormi occhi scuri su di lui, come se avesse appena fatto l’errore più madornale della sua vita, e gli si strinse contro la gamba in un gesto quasi di preghiera. E quello a Tom piacque particolarmente, un po’ come una rivendicazione della sua proprietà sul piccolo angelo autostoppista.
Will semplicemente sorrise, rimettendosi nella posizione in cui l’aveva accolto, fumando sempre con grazia la sua sigaretta e cominciò a parlare
-Come vuoi, Thomas. Ti racconterò tutto, per filo e per segno, tanto ormai nessuno di noi ha più tanto da perdere, no?
Su quel punto Tom avrebbe avuto di che obiettare, ma tacque e gli fece segno di andare avanti nel loro orrore.
-Ritorniamo a due anni fa, circa, quando mi sono svegliato dal coma. Te lo ricordi, Bill? Un brutto periodo, effettivamente, da dimenticare. Ero rimasto incosciente per circa cinque mesi, sei, non saprei dare una datazione precisa; in quel tempo Bill aveva avuto modo di farsi fare un lavaggio del cervello da parte di quel bastardo di July. Su, Thomas, questa parte non ti sarà nemmeno tanto nuova, e se non sei un completo idiota avrai già tratto le conclusioni che dovevi trarre.
-Lo stava convincendo a mollarti, vero? Insisteva affinché il vostro rapporto malato cessasse. Sì, questa parte la so.- grugnì Tom, sentendo Bill dare piccole e ripetitive testate sul suo polpaccio. – Da ciò ne ho poi potuto trarre le deduzioni che tu, una volta tornato a casa dall’ospedale, fossi diventato molto più violento e nervoso del solito e che quindi la pressione di July fosse andata a buon fine e che Bill se ne sia andato via una volta per tutte.
-Ma bravo, zuccherino. Sapevo che in fondo Bill non poteva andarsi a cercare un perfetto deficiente.- Will si guardò soddisfatto gli artigli – Esatto. Una mattina mi sono svegliato e Bill era scomparso; sai a quell’epoca dovevo prendere un sovradosaggio di tranquillanti e ansiolitici, se già non dormivo prima, figurarsi dopo tutti quei mesi di dolori indicibili. Quindi, per quelle poche ore che riuscivo a dormire, non sentivo niente. Quel piccolo, schifoso ingrato ha pensato bene di scomparire nella notte e di lasciarmi un misero bigliettino d’addio. Puoi ben capire che un’onta simile non può essere perdonata se non in un bagno di sangue.
-Ma ti ha solo mollato, cazzo! Non ti ha ucciso la madre!- urlò Tom.
-Toooom, Tom, è inutile!-  strillò istericamente Bill, alzandosi in piedi – Ho messo nei guai tutti, è colpa mia se quei ragazzi sono morti, è tutta colpa mia se anche tu sei finito in questo casino, non dovevo farlo! Avrei dovuto prevedere che si sarebbe scatenato questo pandemonio, sono un disastro!
-Invece sì che dovevi andartene! Ognuno in questo mondo è libero di fare quello che gli pare! Tu non hai colpe, Bill!- il rasta si alzò a sua volta, mandando lampi.
-Invece le ha, perché i triangoli parlano chiaro.- Will continuava a ridere, e questo a Tom dava più che sui nervi.
-I triangoli non vogliono dire un tubo, sei solo un malato di testa! Lui ha solamente seguito la sua strada!- a quel punto Tom non sapeva più da che parte girarsi, se verso il suo assassino che rimaneva imperturbabile o verso Bill che aveva cominciato a piangere lacrime gonfie di rabbia trattenuta per troppo tempo.
-La sua strada ero io, Thomas. Lo sono sempre stato.- Will ghignò, muovendo i due alfieri fino a che fossero tutti e due davanti alla regina. Un solo passo.
-La strada verso la mia autodistruzione! Tu non hai fatto altro che rendermi un pupazzo nelle tue mani, mi hai rovinato completamente, è tutta colpa tua se adesso non so nemmeno cosa vuol dire essere un ragazzo normale. Mi hai fatto diventare una marionetta solo perché avevi bisogno di qualcuno che ti fosse schiavo! Ho capito, io ho sbagliato il modo di farlo, ma la colpa è di entrambi.
Tom non riconobbe quasi più Bill in quel momento; stava dicendo esattamente quello che gli aveva detto lui qualche ora prima, lo stava imitando. Quello fu un gran sollievo: aveva smesso di cercare un modo contorto per proteggere Will, stava semplicemente auto dicendosi quello che aveva bisogno di udire solo da se stesso.
-Ti ricordo, caro, che se non fosse stato per me tu ora saresti morto e sepolto. O se per qualche miracolo fossi sopravvissuto, quel giorno di nove anni fa, non saresti altro che una baldracca qualsiasi, o un ladro da due soldi, se non addirittura la concubina di qualche magnate del petrolio. Se non avessi trovato me, ti potrei immaginare mezzo divorato dall’Aids, scavato dall’eroina e dal crack a poco prezzo. Quindi, se non ti dispiace, una parte di meriti dovrei averla anche io, se ora sei sano, bello come il sole, ricco perché lo so che July ti paga molto bene, felice, sistemato con questo zuccherino e, soprattutto, vivo.- Will sottolineò l’ultima parola calcandoci per bene sopra, beandosi delle espressioni di Tom e Bill.
-C’è modo e modo di avere dei meriti nella vita di qualcuno.- sbottò Tom.
-Se lo dici tu, Thomas.- Will si accese l’ennesima sigaretta, e a quel punto per il rasta respirare si stava facendo sempre più difficile. C’era troppo caldo, troppo fumo e troppa tensione in quella stanzetta. – Quei due tristi anni passati senza la dolce compagnia di Bill li spesi in giro per il mondo, impegnato in affari che non vi riguardano, mentre stendevo il piano per attuare una vendetta degna del mio genio. Poi sono tornato a Berlino, per poter finalmente ucciderti, tesoro mio. Solamente che mi sembrava piuttosto meschino limitarmi a venire da te e spararti un insipido colpo di pistola in testa, non trovate? Dovevo in qualche modo organizzare un qualcosa di grandioso, di divertente, perciò pensai bene di creare una rete di omicidi per avvertirti del mio ritorno. Anche se ammetto che ero certo fossi più sveglio, Bill. Ci hai messo troppo ad arrivarci.
-Avvertimenti?- balbettò Tom – Hai ucciso quattro persone per “avvertirlo”?
-E anche per divertirmi, zuccherino. Due anni passati in completa solitudine sono noiosi, sai? Devo raccontarti nei minimi dettagli come ho organizzato i miei omicidi, immagino. Bene, iniziamo dal principio. Ovviamente non avevo una vittimologia precisa, come nemmeno un orario, invece i luoghi li avevo prestabiliti di modo da poter creare il pentacolo che hai così brillantemente scoperto. La morfina iniettata direttamente in endovena nel collo ha effetti pressoché immediati e terribilmente disastrosi, e come puoi immaginare io ho moltissime dosi di morfina medica. E ho visto che hai anche capito come facevo ad attirare le mie vittime; certo, fingendo di stare male. In questo mondo chi non cerca di aiutare un ragazzo moribondo?
-Approfittavi della bontà della gente!
-Smettila di interrompermi, Thomas, mi sto innervosendo. Una volta drogati li facevo salire in moto e li portavo nei posti prestabiliti; l’unico che non ho dovuto trascinare per mezza Berlino è quello della Kartoffeln. Poi gli sparavo un colpo esattamente al centro del cuore. Ovviamente è una simbologia; Bill, caro, ora pensi di aver capito?
-Dritto al cuore, dove io ti ho ferito.- mormorò Bill, sempre più pallido, con una voce talmente vuota da non sembrare nemmeno la sua.
-Esattamente. E poi non avevo nulla contro quei quattro ragazzi, non mi interessava che soffrissero. I tagli li ho fatti con questo, se ti interessa.- Will indicò con un gesto del capo il kris malese posato sul tavolino – Su, vediamo se hai studiato: perché le braccia e il collo?
-Perché le braccia sono le vie di Sobyeol, mentre il collo di Daebyeol.- lo sguardo di Bill era mano a mano diventato più sottile, più furibondo. Forse avere Tom lì vicino a ricordargli che era diventato una persona nuova gli serviva da contrappeso. – Tom, sono i due gemelli padroni dell’Oltretomba e della Terra secondo la cosmologia coreana.
-Hai un’ottima memoria, caro. La croce immagino sai già che cosa voglia dire, no?
-Rabbia cieca.- rispose prontamente Tom.
-Quindi la ricostruzione ormai è perfetta: cuore, divinità ancestrali, sangue, ira e il pentacolo. E devo dire che all’inizio è stato abbastanza divertente, sfidarti e aspettare la reazione di Bill, che avrebbe dovuto capire alla perfezione le mie intenzioni sin dal primo cadavere.- Will ghignò – Però poi mi sono annoiato. Tu non capivi assolutamente, e tu eri troppo eroico per i miei gusti. E ora non solo mi tocca uccidere Bill, ma anche te, Thomas. Mi hai rovinato il piano.
-Tu non ucciderai né me né Bill! Arriveranno i miei colleghi e ti sbatteremo in carcere per il resto della tua miseranda esistenza, e ringrazia piuttosto che in Germania è stata abolita la pena di morte, perché sennò saresti stato il primo a finire nel Braccio- sbraitò Tom.
-Tu dici, tesoro? Non credo proprio che andrà come hai detto.
-E io credo proprio di sì. Ma salterai la galera.
Tom pensò di essere diventato pazzo di colpo, quando si trovò davanti Bill in lacrime che stringeva tra le dita la pistola e la puntava esattamente sulla tempia di Will, sempre tranquillissimo che fumava pacifico.
-No, Bill, stai calmo, che cosa stai facendo … - Tom si alzò barcollando. Non voleva che il suo angelico demonio fosse arrestato per omicidio, proprio no. Stava accadendo tutto così in fretta, come se stesse precipitando sempre più velocemente in un vortice di sangue e orrore da cui non riusciva a uscire. Avrebbe solo voluto svegliarsi ansante e sudato nel suo letto, con Bill stretto accanto che lo rassicurava dicendogli che era tutto un orrendo sogno. Che non era successo nulla di tutto ciò, che Will non era mai esistito, che era tutto frutto della sua mente eccitabile. E poi tornare a dormire insieme, pacifici, come se nulla fosse accaduto. Eppure sapeva che non era così. Che se si fosse dato un pizzicotto e si fosse schiaffeggiato sarebbe comunque rimasto lì, in quel salotto, pronto a dover testimoniare per un brutto omicidio fatto dal suo fidanzato. Però non voleva assistere a niente, voleva solo chiudere gli occhi e scomparire, sapere che Bill non lo avrebbe fatto. Gli sembrava di non essere pronto a vedere certe cose, a sentirne altre, a trovarsi di fronte al dubbio tra la Giustizia e Bill. Anche se forse, lo sapeva, anche se il suo istinto da poliziotto gli diceva di dover spalleggiare la Giustizia, il suo cuore e il suo cervello gli urlava di stare dalla parte di Bill. E lui sarebbe stato sempre dalla parte del suo piccolo angelo, anche a costo di tradire la Giustizia. Anche a costo di seguirlo all’Inferno.
-No, Tom, non ci sto calmo!- strepitò Bill, premendo con più forza la pistola sulla tempia di Will – Questo lo sto facendo per noi due! Me l’hai detto anche tu: non esisterà il futuro di Tom e quello di Bill, esisterà il futuro di Tom&Bill. E mi spieghi come potremo vivere la nostra vita in pace se sarò costretto a sapere che lui è vivo, che potrebbe evadere, che potrebbe tornare ogni momento? Come riuscirei a resistere alla pressione psicologica di essere sempre in pericolo, e soprattutto di sapere che tu saresti in pericolo esattamente come me solo perché ci siamo trovati e ci siamo innamorati?! No, non ci sto! Se lui morisse, e se fossi sicuro che lo facesse sul serio, potrei metterci una pietra sopra e stare tranquillo per il resto della mia vita. Tom, ti rendi conto di quello che potremmo fare? Potremmo sposarci, potremmo essere felici, potremmo raggiungere un’ipotetica vecchiaia e non separarci mai; forse addirittura morire insieme.
-E’ buffo come queste cose le ripetevi sempre a me, fino a tre anni fa.- interruppe Will, spostando delicatamente la canna della pistola dalla sua tempia per poggiarsela sul cuore. – Vedo che non sei cambiato, tesoro. Sempre la solita puttana che si vende al migliore offerente, che ripete le solite tre frasi volute dalle circostanze, che si adegua al suo nuovo padrone, che non sa vivere da sola. Non cambierai mai, Bill, ricordatelo: non cambierai mai.
-Io sono cambiato!- strillò Bill – Sono cambiato e non sono una puttana, mettitelo bene in testa! Tom mi ama e io amo lui, non è amore a senso unico come quello che provavo per te!
-Io ti amavo, caro. Sei tu che non te ne sei mai accorto.
-Non ti voglio più sentire! Non mi rovinerai più la vita.
Will rimase immobile quando Bill spinse ancora più a fondo la canna della pistola sulla sua pelle ustionata, con il ghigno incancellabile sulle labbra e un’aura di tranquillità percepibile anche a distanza. Tom non sapeva nemmeno che dire, che fare. Rimaneva immobile, impietrito sulla poltrona, lo sguardo congelato sulla orrida piéce che stava giungendo alla sua naturale conclusione che aveva luogo davanti ai suoi occhi inumiditi dalla paura.
-Ti mancherò, Bill. Quando mi avrai ucciso ti pentirai amaramente di non sapere più che io esisto. Hai bisogno di me, e lo sai.
-Avevo bisogno di te. Ma ora ho bisogno di Tom; e tu sei finito, Will, finito! Mi volevi ammazzare, bene non ce l’hai fatta. Forse è un segno della tua non più proprietà su di me. Siamo finiti tutti e due, è ora di dirci addio, cosa ne dici?
Bill piangeva, parlava a fatica, soffocandosi con le sue stesse lacrime. L’amore che provava per Tom era più potente di qualsiasi ricordo che la sua mente continuava a proiettargli davanti agli occhi. Stava pian piano tirando giù le barriere di qualcosa che lo aveva tenuto segregato per troppo tempo, che lo aveva lasciato schiavo della memoria impedendogli di vedere lucidamente il presente.
-Allora premi il grilletto, tesoro. Fammi vedere che sei cambiato e uccidimi. Forza, sono qui, davanti a te, sto aspettando. Dai, amore mio, spara.
-Gu … guarda che lo faccio, Will … lo … lo faccio- balbettò Bill, cominciando a premere impercettibilmente sul grilletto.
-Lo so, dolcezza. Lo so che lo farai. E so anche che non sei cambiato proprio per nulla, sei sempre il Bill che conoscevo io, che ha bisogno di un uomo che lo tenga sotto alle proprie redini, che deve essere comandato e cresciuto. Sì, tesoro, tu senza di me non sei niente. Bill, ricordati questo: tu non sei nessuno.
Will rise in modo cattivo, acido, stringendo il viso di Bill tra le proprie dita scheletriche, sillabando per l’ultima volta “Tu non sei nessuno”.
E Bill sparò.
  
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