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Autore: Pretty_Liar    01/01/2016    1 recensioni
Barbara ha solo diciotto anni, ma ha deciso di sposarsi già con un giovane di Londra, l'affascinante Alan. Tutto sembra procedere a meraviglia, ma quando torna ad Holmes Chapel, per passare l'ultimo mese da ragazza libera prima del matrimonio, ogni cosa sembra precipitare. I suoi sentimenti per il futuro marito, sembrano scomparire alla vista di un vecchio nemico, Harry Styles, più grande di lei di ben sette anni. Il ragazzo ama le piante e tutto ciò che include la
natura, sospeso fra fantasia e realtà, con la spensieratezza che si addice a pochi ragazzi di venticinque anni. Barbara imparerà a conoscere il mondo in cui vive il suo nemico e capirà che infondo la loro non è solo una storia basata su un perenne scontro fra mente e cuore, logica e sentimenti, ma è semplicemente un misto di verità nascoste, un grande sentimento e tutto ciò che sta in mezzo.
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
«Comunque porgi gli auguri da parte mia allo sposo», continuò.
«Perché?», chiesi stupita.
«Beh, dovrà essere un santo per sopportarti... Acida come sei. Sembra che hai ogni giorno il ciclo. Sei abbastanza irritante!».
[MOMENTANEAMENTE SOSPESA]
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Non sei il mio tipo. Proprio come io non sono il tuo. Ma è proprio questo il motivo per cui andiamo bene l'uno per l'altra. Siamo così diversi, eppure così uguali- After

 

«Zio, come fanno le piante a crescere?», mi chiese Tristano, mentre giocherellava con una mela rossa.

La faceva scivolare agilmente fra le dita piccole e chiare, come tutta la sua pelle punteggiata da nei all'altezza delle guance. I capelli ricci e rossi, gli ricoprivano la fronte.

«Basta parlarle», gli risposi come sempre, facendogli un occhiolino prima di riprendere a chinarmi su roseto che stavo potando nei punti giusti.

I suoi enormi occhi azzurri, situati dietro un altrettanto grande paio di occhiali da vista neri, mi fissarono corrucciati, non soddisfatti della solita risposta, prima di tornare a concentrarsi sul frutto che stringeva da ben quindici minuti.

«Ah! Guarda zio, un verme», urlò eccitato, facendomi sobbalzare dalla paura e pungere con una spina, facendomi così portare il pollice sanguinante fra le labbra piene e rosee.

Tristano era la mia piccola peste e amava la natura tanto quanto me. 

Abitava con un'amica di sua madre, la bella e dolce Laila, mia cugina, morta subito dopo il parto. Prima o poi l'avrei adottato io Tristano, dato che era la cosa più bella che mi era capitata nella vita; stavo aspettando di trovare lavoro e casa fissi.

«Bello vero?», sussurrai, avvolgendo il suo piccolo corpo con le mie braccia muscolose e poggiando il mento sulla sua piccola spalla,«Lo sai che tanto tempo fa una mela fece litigare tre donne?».

La piccola peste si girò di scatto, salendo a fatica sulle mie gambe incrociate e, dopo aver nascosto la testa nell'incavo del mio collo, sussurrò un flebile racconta.

Lui amava quando io gli raccontavo miti e leggende varie e io adoravo il momento in cui mi faceva mille domande.

«Stavano pranzando. Beh, erano ad un matrimonio, ma tutto iniziò molto prima», dissi, iniziando a camminare con lui fra le mie braccia, sentendo la sua mano, che ancora stringeva la mela, sfiorarmi la schiena dalle spalle larghe.

Notai, seduta in veranda, la mia Barbie, che osservava incantata il piccolo Tristano. Era ancora più bella di quando indossava il vestito da sposa, ma forse il mio parere non contava, dal momento che io odiavo a morte quel maledetto vestito.

«Zio, chi è quella?», mi chiese Tristano, indicando la ragazza con il piccolo e sottile indice, dimenandosi fra le mie braccia per scendere.

Con un balzo i suoi piedini, fasciati dalle scarpette rosse, toccarono il prato, iniziando a muoversi velocemente verso la veranda dove stava seduta Barbara che, appena lo vide avvicinarsi, schiuse le labbra rosse.

«Ehi», gli sorrise dolcemente, lasciando che lui le accarezzasse i capelli ondulati che le sfioravano il seno, che si abbassava e alzava al ritmo della sua respirazione pacata.

Ebbi come una veloce visione, vedendola giocare sul prato, a piedi scalzi, con il mio piccolo ometto dai ricci rosso fuoco.

«Io sono Tristano», disse mio nipote, porgendole con fierezza la mano e alzando il mento latteo.

Spalancai la bocca, vedendo come faceva il casca morto, con la ragazza che amavo, a soli quattro anni.

«Piacere», ridacchiò lei, coprendosi la bocca con la mano libera, portando la destra a ad incastrarsi con quella di Tristano,«Barbara».

Tris arrossì, prima di schiarirsi la voce e continuare a fare l'uomo adulto. Era bello vederli insieme e quasi ebbi l'impressione che lui si stesse innamorando di quella ragazzina come me.

«Zio, vieni! Ti voglio presentare la mia nuova fidanzata», esclamò Tristano, facendomi sgranare gli occhi divertito.

Tutto suo zio, pensai subito, avvicinandomi a grandi falcate per salutare anche Barbie, che studiò attentamente ogni mio singolo movimento.

«Ciao», mormorò, fissando imbarazzata, forse per quello che era successo nella sua stanza, le scale di legno della veranda, che terminavano sul prato verde.

Era adorabile con le guance leggermente arrossate e il vento caldo e leggero che le scompigliava le onde dei suoi capelli.

«Ciao. Vedo che hai conosciuto il don Giovanni», scherzai, indicando con il mento Tristano, che si aggrappò alla mia gamba con forza, facendomi scuotere la testa rassegnato.

Era basso per i suoi quattro anni, tanto che mi arrivava al ginocchio, e la sua enorme testa, a causa dei ricci, sembrava una massa di fieno.

«È tuo nipote?», mi chiese lei, guardandomi dal basso verso l'alto, accarezzando poi i ricci di Tris, che sembrava godere di quelle attenzioni.

Era difficile dire come mi sentivo così, vicino alle persone che più amavo; ancora più difficile era immaginare che meno di una settimana e lei sarebbe stata sull'altare per uno che non ero io.

«È il figlio di mia cugina», sospirai, pensando a lei in viaggio di nozze con Aladino e un groppo in gola mi impedii di respirare. Cazzo, scappa con me!

Vidi una farfalla volare sopra il piccolo naso a patata di Tristano, che la osservò con gli occhi grandi e azzurri, prima di lasciare la mia gamba e correrle dietro, accompagnato dalla mia solita frase non toccarla altrimenti muore.

«È adorabile. Di quale tua cugina?», mi risvegliò Barbie, sorridendomi dolcemente.

Lei conosceva quasi tutta la mia famiglia, solo che di Laila nessuno aveva mai parlato. Era sempre stata considerata il disonore della famiglia a causa delle sue bravate. Una di queste era stata rimanere incinta a sedici anni.

«Laila. È morta quattro anni fa, dopo aver partorito la piccola peste», dissi freddo, ricordando quel giorno.

Barbara abbassò la testa, iniziando a sfregarsi nervosamente le mani sul jeans chiaro, evidentemente in imbarazzo.

«Scusami, non sapevo che... Mi dispiace», balbettò, volgendo lo sguardo a destra per evitare il mio, mentre l'imbarazzo calava attorno a noi.

Sei ancora più bella quando fai finta di non vedermi, pensai, e un leggero sorriso si aprì sulle mie labbra, facendomi rabbrividire nonostante il caldo. Tris osservava la farfalla poggiata su una pietra.

«Un giorno lo adotterò io, sai? Adesso vive con un'amica della madre e ogni tanto passa il pomeriggio e la notte con me», interruppi quel silenzio, voltandomi come lei ad osservare il mio piccolo nipote dalle guance rosee.

«Vuoi fare il papà?», sghignazzò lei, prendendomi in giro, giocosamente questa volta, e stranamente mi piaceva.

Non c'era cattiveria in quelle parole, solo divertimento e voglia di giocare. Mi piaceva la Barbara giocherellona, quella che dimostrava i suoi diciotto anni senza vergogna, ne paura di non sembrare abbastanza grande.

«Beh... Si. Perché?», chiesi ironicamente, facendole la linguaccia, chiudendo un solo occhio per osservare la sua reazione.

Scosse la testa divertita, osservandomi mentre prendevo posto accanto a lei, con i gomiti sulle ginocchia e un braccio a sfiorare il suo, scoperto a causa della maglietta estiva.

«Oh niente, a parte che dovrai imparare a fare il bucato e sistemare il letto alla mattina. Una cosa da niente. Per non parlare del momento in cui dovrai fare la lavatrice, separando i panni a seconda dei colori. O di quando dovrai stirarli senza-».

«Ok ho capito», risi, mettendole una mano sulla bocca per bloccare il suo flusso interrotto di parole.Così mi faceva spaventare, ma non avrei mai cambiato la mia idea. Tristano era come un figlio per me ed io amavo i bambini.

«Scherzo Harry. Saresti un padre... Perfetto», disse, distogliendo lo sguardo dal mio viso sull'ultima parole, mentre le guance si coloravano di rosso.

Spalancai la bocca, notando che per la prima volta mi faceva un complimento senza urlarmi contro o insultarmi. Ed era la cosa più bella che potesse dirmi.

«Anche tu saresti una brava mamma», replicai, giocando con la collana che portavo al collo, evitando di alzare lo sguardo quando sentii la sua testa scattare verso la mia.

Un rumore ci fece sobbalzare entrambi, mentre vedevamo Tristano a terra, con le ginocchia sbucciate e gli occhiali sul prato.

«Tristano!», urlammo insieme, scattando in piedi e correndo verso di lui, che continuava a ripetere che stava bene.

Barbara lo prese fra le braccia, ripulendo dolcemente i suoi pantaloni a mezza gamba con dolci pacche.

«Tris puoi stare più attento? Mi hai fatto morire», lo sgridai, vedendolo sbuffare, mentre rivolgeva il suo sguardo sulla bella ragazza, che gli spostava i capelli dalla fronte.

Ricordai quando eravamo piccoli e lei, ogni volta che cadeva nella terra bagnata per causa mia, correva in casa a spazzolarsi i capelli, già lunghi, per togliere tutta la polvere incastrata fra questi.

«Come va con il damerino?», chiesi così, dal nulla, facendola irrigidire sul posto e fissare un punto indefinito oltre la spalla della mia piccola peste, che sembrò non badare molto a noi mentre ancora osservava la farfalla.

Non avevo intenzione di chiederglielo, o almeno non in quel momento, ma la realtà era che me lo stavo segretamente domandando da quando l'avevo vista seduta su quelle scale. Insomma, mancava una settimana al suo matrimonio e del futuro e coglione sposo ancora neanche l'ombra. Era venuto quel pomeriggio di pioggia, ma a quanto avevo capito non era rimasto a lungo.

«Bene. Venerdì prossimo ci sposiamo», disse con voce rauca Barbara, alzandosi da terra e camminando velocemente verso la parte opposta alla mia.

Stringeva i pugni lungo i fianchi, facendo ondeggiare dolcemente le braccia avanti e dietro ad ogni passo scoordinato che faceva.

Venerdì prossimo. Mancavano solo sei giorni e io ancora speravo in qualche miracolo. Svegliati Harry!

«Come mai ancora non è qui? Insomma... Il matrimonio è anche il suo. Corso prematrimoniale, bomboniere... Quando le fate tutte quelle cazzate?», le urlai dietro, cercando di raggiungerla e irritarla.

Non volevo rompere quella dolce e pacata atmosfera che si era creata, ma speravo che le mie parole pungenti avessero potuto farle capire l'errore enorme che stava per combinare.

«Perché non ti fai gli affari tuoi?», chiese retorica, bloccandosi di scatto e girandosi improvvisamente, ritrovandosi ad un centimetro, se non di meno, dal mio volto.

I nostri nasi si sfiorarono e le mie labbra chiuse catturavano ogni suo respiro fresco e tremante, mentre mi torturavo le dita per impedire a quest'ultime di chiudersi intorno i suoi fianchi prosperosi.

«Che c'è? Ti irrita che qualcuno ti faccia notare quanto poco se ne fotta quel coso di te?», sibilai con disprezzo, indicando con l'indice l'aria, come se Aladin fosse lì, ad un passo da noi due, così vicini.

I suoi occhi grigi, umidi, si fecero più grandi e scuri, come se stesse per mollarmi uno schiaffo, ma non lo fece.

«Lavora, Harry! Quello che dovresti fare tu!», esclamò con rabbia, ma soddisfatta per la sua risposta a tono.

Sembrava sempre una gara a chi diceva l'ultima parola e non riuscivo ancora a capire perché io amassi fare quel giochetto ogni santa volta e ancora di più non capivo perché, ogni volta che mi urlava contro, l'amavo sempre di più invece che odiarla.

«Perché secondo te io che sto facendo? Mi giro i pollici? Se non l'avessi notato, io starei facendo il giardino per il tuo schifosissimo ricevimento prima del tuo schifosissimo matrimonio! Anzi, faccio più io che lui per il vostro dannatissimo, schifosissimo matrimonio!», urlai a pieni polmoni, vedendo Tristano schiudere le labbra piene e rosee, indietreggiando impaurito.

Il suo volto, pallido e pieno di lentiggini, si contrasse in una smorfia di tristezza e mi sentii con il cuore ancora più pesante.

«Okay, sai cosa ti dico, Barbie? Mi sono scocciato di litigare. La prossima volta vengo quando tu non ci sei», sussurrai sconfitto e, con due falcate, raggiunsi il mio ometto.

Lo presi fra le braccia, lasciando che le sue manine esili si avvolgessero delicate intorno il mio collo,consolandomi. Era l'unica cosa bella che avevo e che mi era capitata nella vita... Insieme a Barbara. Ma lei purtroppo non era mia e mai lo sarebbe stata. Il vestito bianco nell'armadio e lo stesso giardino ne erano la prova.

La vidi sospirare pesantemente, mentre serrava gli occhi ed i pugni contemporaneamente, voltando la testa di lato.

Era tutto così maledettamente straziante e mi domandai se anche lei, almeno per un secondo, aveva provato ciò che provavo io quando la vedevo andarsene via da me. E forse davvero non eravamo fatti per stare insieme e io dovevo andare avanti finalmente.

«Vuoi farmi pesare l'aiuto che mi stai dando con il giardino?», mi disse spazientita, afferrandomi per una spalla e voltandomi bruscamente verso di lei.

Strinsi fra le mani Tris, come se lui potesse proteggermi da quei due occhi grigi che continuavano a farmi maledettamente male. Le sue labbra erano schiuse e in quel momento capii cosa fosse giusto.

«Tris perché non chiedi a Lily di farti una fetta di pane con la marmellata?», proposi al piccolo, vedendo i suoi occhi illuminarsi alla parola marmellata.

Lo liberai velocemente, osservandolo attentamente finché non si richiuse la porta alle sue spalle, facendomi sospirare sollevato, prima che girassi il capo verso Barbara, che si era irrigidita. Non scappare.

«No», dissi improvvisamente, vedendola sgranare per un attimo gli occhi, mentre lentamente indietreggiava, vedendomi avanzare verso di lei.

D'un tratto ci ritrovammo al centro del giardino, circondati dal caldo vento che spirava quella mattina e i suoi capelli le sfioravano dolcemente il viso, sprigionando un forte odore di vaniglia.

«No?... Cosa?», disse spaesata, battendo contro l'albero a cui era fissata l'amaca, facendoci aderire completamente la schiena ritta.

Il mio cuore batteva forte e sperai che lei potesse sentirlo, per risparmiarmi il momento in cui avrei dovuto dirle tutto, mettendomi in ridicolo. Non scappare, non ora.

«No, non voglio farti pesare l'aiuto che ti sto dando con il giardino, ma solo la tua dannatissima scelta di sposarti», risposi brusco, battendo un pugno sulla corteccia dietro di lei, sentendola sussultare.

Il sangue prese subito a scorrere sulle mie nocche bianche, bruciando la pelle fresca e sporca di terreno.

«Harry tu non puoi-».

«Posso, cazzo!», la bloccai, sovrastandola con la mia voce roca, mentre richiudevo il suo volto fra le mie mani grandi, sentendola sussultare.

Non ti muovere, resta ancora qui con me. Più vicino, continuavo a pensare, mentre velocemente incastravo i nostri corpi, insinuando a fatica un ginocchio fra le sue gambe, vedendola arrossire. Sospirai come sollevato. I nostri corpi erano fatti per stare insieme.

«Harry... Ti prego», disse in un sussurro, con gli occhi lucidi e le braccia inermi lungo i fianchi pieni.

Continuava a torturarsi le dita fra di loro, come se stesse combattendo con se stessa. Non scappare.

«Sto per baciarti», mormorai, ignorando la sua silenziosa preghiera, nascosta dietro quelle iridi grigie e profonde.

Inspirò bruscamente, gonfiando a tal punto il petto da farlo scontrare con il mio, che non esitò un minuto di più a farsi più vicino, comprimendo il suo seno fra il mio torace.

Inclinai la testa verso il suo viso pallido e dalle guance troppo rosse, sentendo il suo forte profumo e il suo respiro tremante colpirmi le labbra schiuse e umide, tremanti per la troppa vicinanza con le sue rosse e schiuse. La sentii muovere leggermente la testa, rafforzando, così, la presa sulle sue guance.

«Perché?», sussurrò, lasciando che la mia fronte si poggiasse sulla sua, leggermente accaldata.

«Non lo so», risposi e, in un attimo, le mie labbra erano sulle sue, morbide e fredde.

Sentii il mio povero cuore fare una leggera capriola e fermarsi, prima di prendere a battere nuovamente, troppo veloce. Fa male. Ma faceva così bene.

Avvolsi le braccia intorno il suo busto, staccandola dall'albero rigido dietro di noi, trascinandola verso l'amaca, dove sprofondò a sedere, costringendomi a piegarmi su me stesso per raggiungere meglio il suo volto. Le nostre bocche si muovevano insieme, mentre i nasi si strofinavano a seconda dei movimenti delle nostre teste. Le miei mani ancorate al suo collo fresco.

Sorrisi involontariamente, mordendole forte il labbro inferiore, sentendola sospirare, mentre le dita della sua mano sinistra si incastravano fra i miei ricci, facendomi fremere.

«Barbara!». Un grido ci fece trasalire. 

Non scappare. 

 

Anticipazione prossimo capitolo: [...] «Harry devi smetterla di confondermi! Ho bisogno di pensare, okay? Ma non posso! Non ci riesco se continui a guardarmi così...». [...]

 

«Zio, come fanno le piante a crescere?», mi chiese Tristano, mentre giocherellava con una mela rossa.

La faceva scivolare agilmente fra le dita piccole e chiare, come tutta la sua pelle punteggiata da nei all'altezza delle guance. I capelli ricci e rossi, gli ricoprivano la fronte.

«Basta parlargli», gli risposi come sempre, facendogli un occhiolino prima di riprendere a chinarmi su roseto che stavo potando nei punti giusti.
I suoi enormi occhi azzurri, situati dietro un altrettanto grande paio di occhiali da vista neri, mi fissarono corrucciati, non soddisfatti della solita risposta, prima di tornare a concentrarsi sul frutto che stringeva da ben quindici minuti.
«Ah! Guarda zio, un verme», urlò eccitato, facendomi sobbalzare dalla paura e pungere con una spina, facendomi così portare il pollice sanguinante fra le labbra piene e rosee.
Tristano era la mia piccola peste e amava la natura tanto quanto me. 
Abitava con un'amica di sua madre, la bella e dolce Laila, mia cugina, morta subito dopo il parto. Prima o poi l'avrei adottato io Tristano, dato che era la cosa più bella che mi era capitata nella vita; stavo aspettando di trovare lavoro e casa fissi.
«Bello vero?», sussurrai, avvolgendo il suo piccolo corpo con le mie braccia muscolose e poggiando il mento sulla sua piccola spalla,«Lo sai che tanto tempo fa una mela fece litigare tre donne?».
La piccola peste si girò di scatto, salendo a fatica sulle mie gambe incrociate e, dopo aver nascosto la testa nell'incavo del mio collo, sussurrò un flebile racconta.
Lui amava quando io gli raccontavo miti e leggende varie e io adoravo il momento in cui mi faceva mille domande.
«Stavano pranzando. Beh, erano ad un matrimonio, ma tutto iniziò molto prima», dissi, iniziando a camminare con lui fra le mie braccia, sentendo la sua mano, che ancora stringeva la mela, sfiorarmi la schiena dalle spalle larghe.
Notai, seduta in veranda, la mia Barbie, che osservava incantata il piccolo Tristano. Era ancora più bella di quando indossava il vestito da sposa, ma forse il mio parere non contava, dal momento che io odiavo a morte quel maledetto vestito.
«Zio, chi è quella?», mi chiese Tristano, indicando la ragazza con il piccolo e sottile indice, dimenandosi fra le mie braccia per scendere.
Con un balzo i suoi piedini, fasciati dalle scarpette rosse, toccarono il prato, iniziando a muoversi velocemente verso la veranda dove stava seduta Barbara che, appena lo vide avvicinarsi, schiuse le labbra rosse.
«Ehi», gli sorrise dolcemente, lasciando che lui le accarezzasse i capelli ondulati che le sfioravano il seno, che si abbassava e alzava al ritmo della sua respirazione pacata.
Ebbi come una veloce visione, vedendola giocare sul prato, a piedi scalzi, con il mio piccolo ometto dai ricci rosso fuoco.
«Io sono Tristano», disse mio nipote, porgendole con fierezza la mano e alzando il mento latteo.
Spalancai la bocca, vedendo come faceva il casca morto, con la ragazza che amavo, a soli quattro anni.
«Piacere», ridacchiò lei, coprendosi la bocca con la mano libera, portando la destra a ad incastrarsi con quella di Tristano,«Barbara».
Tris arrossì, prima di schiarirsi la voce e continuare a fare l'uomo adulto. Era bello vederli insieme e quasi ebbi l'impressione che lui si stesse innamorando di quella ragazzina come me.
«Zio, vieni! Ti voglio presentare la mia nuova fidanzata», esclamò Tristano, facendomi sgranare gli occhi divertito.
Tutto suo zio, pensai subito, avvicinandomi a grandi falcate per salutare anche Barbie, che studiò attentamente ogni mio singolo movimento.
«Ciao», mormorò, fissando imbarazzata, forse per quello che era successo nella sua stanza, le scale di legno della veranda, che terminavano sul prato verde.
Era adorabile con le guance leggermente arrossate e il vento caldo e leggero che le scompigliava le onde dei suoi capelli.
«Ciao. Vedo che hai conosciuto il don Giovanni», scherzai, indicando con il mento Tristano, che si aggrappò alla mia gamba con forza, facendomi scuotere la testa rassegnato.
Era basso per i suoi quattro anni, tanto che mi arrivava al ginocchio, e la sua enorme testa, a causa dei ricci, sembrava una massa di fieno.
«È tuo nipote?», mi chiese lei, guardandomi dal basso verso l'alto, accarezzando poi i ricci di Tris, che sembrava godere di quelle attenzioni.
Era difficile dire come mi sentivo così, vicino alle persone che più amavo; ancora più difficile era immaginare che meno di una settimana e lei sarebbe stata sull'altare per uno che non ero io.
«È il figlio di mia cugina», sospirai, pensando a lei in viaggio di nozze con Aladino e un groppo in gola mi impedii di respirare.
Cazzo, scappa con me! Vidi una farfalla volare sopra il piccolo naso a patata di Tristano, che la osservò con gli occhi grandi e azzurri, prima di lasciare la mia gamba e correrle dietro, accompagnato dalla mia solita frase non toccarla altrimenti muore.
«È adorabile. Di quale tua cugina?», mi risvegliò Barbie, sorridendomi dolcemente.
Lei conosceva quasi tutta la mia famiglia, solo che di Laila nessuno aveva mai parlato. Era sempre stata considerata il disonore della famiglia a causa delle sue bravate. Una di queste era stata rimanere incinta a sedici anni.
«Laila. È morta quattro anni fa, dopo aver partorito la piccola peste», dissi freddo, ricordando quel giorno.
Barbara abbassò la testa, iniziando a sfregarsi nervosamente le mani sul jeans chiaro, evidentemente in imbarazzo.
«Scusami, non sapevo che... Mi dispiace», balbettò, volgendo lo sguardo a destra per evitare il mio, mentre l'imbarazzo calava attorno a noi.
Sei ancora più bella quando fai finta di non vedermi, pensai, e un leggero sorriso si aprì sulle mie labbra, facendomi rabbrividire nonostante il caldo. Tris osservava la farfalla poggiata su una pietra.
«Un giorno lo adotterò io, sai? Adesso vive con un'amica della madre e ogni tanto passa il pomeriggio e la notte con me», interruppi quel silenzio, voltandomi come lei ad osservare il mio piccolo nipote dalle guance rosee.
«Vuoi fare il papà?», sghignazzò lei, prendendomi in giro, giocosamente questa volta, e stranamente mi piaceva.
Non c'era cattiveria in quelle parole, solo divertimento e voglia di giocare. Mi piaceva la Barbara giocherellona, quella che dimostrava i suoi diciotto anni senza vergogna, ne paura di non sembrare abbastanza grande.
«Beh... Si. Perché?», chiesi ironicamente, facendole la linguaccia, chiudendo un solo occhio per osservare la sua reazione.
Scosse la testa divertita, osservandomi mentre prendevo posto accanto a lei, con i gomiti sulle ginocchia e un braccio a sfiorare il suo, scoperto a causa della maglietta estiva.
«Oh niente, a parte che dovrai imparare a fare il bucato e sistemare il letto alla mattina. Una cosa da niente. Per non parlare del momento in cui dovrai fare la lavatrice, separando i panni a seconda dei colori. O di quando dovrai stirarli senza-».
«Ok ho capito», risi, mettendole una mano sulla bocca per bloccare il suo flusso interrotto di parole.
Così mi faceva spaventare, ma non avrei mai cambiato la mia idea. Tristano era come un figlio per me ed io amavo i bambini.
«Scherzo Harry. Saresti un padre... Perfetto», disse, distogliendo lo sguardo dal mio viso sull'ultima parole, mentre le guance si coloravano di rosso.
Spalancai la bocca, notando che per la prima volta mi faceva un complimento senza urlarmi contro o insultarmi. Ed era la cosa più bella che potesse dirmi.
«Anche tu saresti una brava mamma», replicai, giocando con la collana che portavo al collo, evitando di alzare lo sguardo quando sentii la sua testa scattare verso la mia.
Un rumore ci fece sobbalzare entrambi, mentre vedevamo Tristano a terra, con le ginocchia sbucciate e gli occhiali sul prato.
«Tristano!», urlammo insieme, scattando in piedi e correndo verso di lui, che continuava a ripetere che stava bene.
Barbara lo prese fra le braccia, ripulendo dolcemente i suoi pantaloni a mezza gamba con dolci pacche.
«Tris puoi stare più attento? Mi hai fatto morire», lo sgridai, vedendolo sbuffare, mentre rivolgeva il suo sguardo sulla bella ragazza, che gli spostava i capelli dalla fronte.
Ricordai quando eravamo piccoli e lei, ogni volta che cadeva nella terra bagnata per causa mia, correva in casa a spazzolarsi i capelli, già lunghi, per togliere tutta la polvere incastrata fra questi.
«Come va con il damerino?», chiesi così, dal nulla, facendola irrigidire sul posto e fissare un punto indefinito oltre la spalla della mia piccola peste, che sembrò non badare molto a noi mentre ancora osservava la farfalla.
Non avevo intenzione di chiederglielo, o almeno non in quel momento, ma la realtà era che me lo stavo segretamente domandando da quando l'avevo vista seduta su quelle scale. Insomma, mancava una settimana al suo matrimonio e del futuro e coglione sposo ancora neanche l'ombra. Era venuto quel pomeriggio di pioggia, ma a quanto avevo capito non era rimasto a lungo.
«Bene. Venerdì prossimo ci sposiamo», disse con voce rauca Barbara, alzandosi da terra e camminando velocemente verso la parte opposta alla mia.
Stringeva i pugni lungo i fianchi, facendo ondeggiare dolcemente le braccia avanti e dietro ad ogni passo scoordinato che faceva.
Venerdì prossimo. Mancavano solo sei giorni e io ancora speravo in qualche miracolo. Svegliati Harry!
«Come mai ancora non è qui? Insomma... Il matrimonio è anche il suo. Corso prematrimoniale, bomboniere... Quando le fate tutte quelle cazzate?», le urlai dietro, cercando di raggiungerla e irritarla.
Non volevo rompere quella dolce e pacata atmosfera che si era creata, ma speravo che le mie parole pungenti avessero potuto farle capire l'errore enorme che stava per combinare.
«Perché non ti fai gli affari tuoi?», chiese retorica, bloccandosi di scatto e girandosi improvvisamente, ritrovandosi ad un centimetro, se non di meno, dal mio volto.
I nostri nasi si sfiorarono e le mie labbra chiuse catturavano ogni suo respiro fresco e tremante, mentre mi torturavo le dita per impedire a quest'ultime di chiudersi intorno i suoi fianchi prosperosi.
«Che c'è? Ti irrita che qualcuno ti faccia notare quanto poco se ne fotta quel coso  di te?», sibilai con disprezzo, indicando con l'indice l'aria, come se Aladin fosse lì, ad un passo da noi due, così vicini.
I suoi occhi grigi, umidi, si fecero più grandi e scuri, come se stesse per mollarmi uno schiaffo, ma non lo fece.
«Lavora, Harry! Quello che dovresti fare tu!», esclamò con rabbia, ma soddisfatta per la sua risposta a tono.
Sembrava sempre una gara a chi diceva l'ultima parola e non riuscivo ancora a capire perché io amassi fare quel giochetto ogni santa volta e ancora di più non capivo perché, ogni volta che mi urlava contro, l'amavo sempre di più invece che odiarla.
«Perché secondo te io che sto facendo? Mi giro i pollici? Se non l'avessi notato, io starei facendo il giardino per il tuo schifosissimo ricevimento prima del tuo schifosissimo matrimonio! Anzi, faccio più io che lui per il vostro dannatissimo, schifosissimo matrimonio!», urlai a pieni polmoni, vedendo Tristano schiudere le labbra piene e rosee, indietreggiando impaurito.
Il suo volto, pallido e pieno di lentiggini, si contrasse in una smorfia di tristezza e mi sentii con il cuore ancora più pesante.
«Okay, sai cosa ti dico, Barbie? Mi sono scocciato di litigare. La prossima volta vengo quando tu non ci sei», sussurrai sconfitto e, con due falcate, raggiunsi il mio ometto.
Lo presi fra le braccia, lasciando che le sue manine esili si avvolgessero delicate intorno il mio collo,consolandomi. Era l'unica cosa bella che avevo e che mi era capitata nella vita... Insieme a Barbara. Ma lei purtroppo non era mia e mai lo sarebbe stata. Il vestito bianco nell'armadio e lo stesso giardino ne erano la prova.
La vidi sospirare pesantemente, mentre serrava gli occhi ed i pugni contemporaneamente, voltando la testa di lato.
Era tutto così maledettamente straziante e mi domandai se anche lei, almeno per un secondo, aveva provato ciò che provavo io quando la vedevo andarsene via da me. E forse davvero non eravamo fatti per stare insieme e io dovevo andare avanti finalmente.
«Vuoi farmi pesare l'aiuto che mi stai dando con il giardino?», mi disse spazientita, afferrandomi per una spalla e voltandomi bruscamente verso di lei.
Strinsi fra le mani Tris, come se lui potesse proteggermi da quei due occhi grigi che continuavano a farmi maledettamente male. Le sue labbra erano schiuse e in quel momento capii cosa fosse giusto.
«Tris perché non chiedi a Lily di farti una fetta di pane con la marmellata?», proposi al piccolo, vedendo i suoi occhi illuminarsi alla parola marmellata.
Lo liberai velocemente, osservandolo attentamente finché non si richiuse la porta alle sue spalle, facendomi sospirare sollevato, prima che girassi il capo verso Barbara, che si era irrigidita. Non scappare.
«No», dissi improvvisamente, vedendola sgranare per un attimo gli occhi, mentre lentamente indietreggiava, vedendomi avanzare verso di lei.
D'un tratto ci ritrovammo al centro del giardino, circondati dal caldo vento che spirava quella mattina e i suoi capelli le sfioravano dolcemente il viso, sprigionando un forte odore di vaniglia.
«No?... Cosa?», disse spaesata, battendo contro l'albero a cui era fissata l'amaca, facendoci aderire completamente la schiena ritta.
Il mio cuore batteva forte e sperai che lei potesse sentirlo, per risparmiarmi il momento in cui avrei dovuto dirle tutto, mettendomi in ridicolo. Non scappare, non ora.
«No, non voglio farti pesare l'aiuto che ti sto dando con il giardino, ma solo la tua dannatissima scelta di sposarti», risposi brusco, battendo un pugno sulla corteccia dietro di lei, sentendola sussultare.
Il sangue prese subito a scorrere sulle mie nocche bianche, bruciando la pelle fresca e sporca di terreno.
«Harry tu non puoi-».
«Posso, cazzo!», la bloccai, sovrastandola con la mia voce roca, mentre richiudevo il suo volto fra le mie mani grandi, sentendola sussultare.
Non ti muovere, resta ancora qui con me. Più vicino, continuavo a pensare, mentre velocemente incastravo i nostri corpi, insinuando a fatica un ginocchio fra le sue gambe, vedendola arrossire. Sospirai come sollevato. I nostri corpi erano fatti per stare insieme.
«Harry... Ti prego», disse in un sussurro, con gli occhi lucidi e le braccia inermi lungo i fianchi pieni.
Continuava a torturarsi le dita fra di loro, come se stesse combattendo con se stessa. Non scappare.
«Sto per baciarti», mormorai, ignorando la sua silenziosa preghiera, nascosta dietro quelle iridi grigie e profonde.
Inspirò bruscamente, gonfiando a tal punto il petto da farlo scontrare con il mio, che non esitò un minuto di più a farsi più vicino, comprimendo il suo seno fra il mio torace.
Inclinai la testa verso il suo viso pallido e dalle guance troppo rosse, sentendo il suo forte profumo e il suo respiro tremante colpirmi le labbra schiuse e umide, tremanti per la troppa vicinanza con le sue rosse e schiuse. La sentii muovere leggermente la testa, rafforzando, così, la presa sulle sue guance.
«Perché?», sussurrò, lasciando che la mia fronte si poggiasse sulla sua, leggermente accaldata.
«Non lo so», risposi e, in un attimo, le mie labbra erano sulle sue, morbide e fredde.
Sentii il mio povero cuore fare una leggera capriola e fermarsi, prima di prendere a battere nuovamente, troppo veloce. Fa male. Ma faceva così bene.
Avvolsi le braccia intorno il suo busto, staccandola dall'albero rigido dietro di noi, trascinandola verso l'amaca, dove sprofondò a sedere, costringendomi a piegarmi su me stesso per raggiungere meglio il suo volto. Le nostre bocche si muovevano insieme, mentre i nasi si strofinavano a seconda dei movimenti delle nostre teste. Le miei mani ancorate al suo collo fresco.
Sorrisi involontariamente, mordendole forte il labbro inferiore, sentendola sospirare, mentre le dita della sua mano sinistra si incastravano fra i miei ricci, facendomi fremere.
«Barbara!». Un grido ci fece trasalire. 
Non scappare. 

 

 

  
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