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Autore: VV_23    04/01/2016    5 recensioni
"Aveva parlato al plurale. Aveva sottinteso un noi. Un minuto prima ero sola, apatica, pronta ad accogliere la morte in ogni istante. Lui, con una semplice parola, aveva reso di nuovo possibile ipotizzare di riaccogliere la vita"
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Paint'
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               Capitolo VI


La mattina dopo, una domenica fredda e nuvolosa, mi sveglio con solo un vago ricordo del sogno che ho fatto, dei paesaggi esotici e colorati e speziati che hanno preso vita nella mia mente, cullando il mio sonno. Per un attimo non riconosco l'ambiente che ho intorno, poi mi rendo conto di essere ancora sulla poltrona che ho spostato in cucina per fare compagnia a Peeta ieri notte, mentre lui combatteva i suoi fantasmi perdendosi tra ingredienti e profumi. Sento il peso del libro di mio padre sulle ginocchia, e lo trovo, ancora aperto, nascosto sotto una calda coperta che non ricordavo di aver preso e che è adagiata sulle mie gambe. Scorgo, sul bancone della cucina, del pane appena fatto e una tazza fumante, che emana un gradevole profumo di cioccolata. Peeta non è qui, ma le sue premure lo fanno essere prepotentemente presente nella stanza e nei miei pensieri.
Mi alzo e mi stiracchio per liberarmi dell'indolenzimento causatomi della posizione scomoda in cui ho dormito, e vedo accanto alla colazione un biglietto scritto con la grafia ordinata e un po' infantile di Peeta, in cui mi dice che è tornato a casa sua per dipingere un po'. È stata una lunga notte – fatta di sguardi e profumi e racconti di mondi perduti – e, seppur abbia dormito poco e non proprio in maniera comodissima, mi sento straordinariamente riposata; Peeta, invece, perso dietro la sua cucina e i suoi pensieri, non ha dormito affatto; nel leggere quel biglietto, non riesco a capire se la tempesta sia passata del tutto, o se ci sia ancora qualcosa in sospeso. So solo che non voglio aspettare troppo per saperlo.
Indosso la prima cosa che mi capita sotto mano ed esco di casa senza nemmeno passare dallo specchio per vedere quali siano le condizioni dei miei capelli. Dopo pochi minuti sono nella casa ormai spoglia di Peeta, un leggero strato di polvere che ricopre la mobilia, l'odore di chiuso che impregna l'ingresso. Il pensiero di star invadendo il suo spazio personale, quello che mi ha espressamente chiesto di mantenere, mi sfiora solo nel momento in cui prendo coscienza della realtà intorno a me: un centrino fatto a mano, ingiallito dal tempo, posato su un mobile; un vaso contenente solo il gambo di un fiore ormai totalmente appassito; un bicchiere di vetro abbandonato su un tavolino, testimone delle cene solitarie che il ragazzo del pane ha passato in questa casa prima di trasferirsi da me . Forse dovrei andar via, penso distrattamente. Ma, quando vedo una luce in fondo al corridoio, dimentico subito la mia titubanza e mi dirigo verso l'unica stanza viva della casa.
Lo vedo di spalle, mentre osserva con attenzione la tela di fronte a sé.
“Peeta” lo chiamo, e gli sento sfuggire una risatina.
“Chissà perché immaginavo che questo spazio non sarebbe rimasto riservato molto a lungo”.
Non ho il tempo di infastidirmi per questa sua uscita, che lui si volta verso di me con un sorriso vagamente divertito, e una macchia di colore sullo zigomo che lo fa sembrare un bambino. Ha delle profonde occhiaie scure sotto gli occhi, segno della notte insonne appena passata, ma lo sguardo azzurro e limpido che mi rivolge è rilassato: quell'immagine di lui così fanciullesca gli dona un'incredibile serenità, che ha il potere di tranquillizzare anche me. Mi avvicino a lui e, con un dito, gli pulisco il viso dalla tempera in un gesto lento che sembra una carezza. Il suo viso sembra così caldo sotto la mia mano perennemente gelata. Ci guardiamo negli occhi, e il suo sguardo intenso mi fa mancare un battito. C'è dolcezza, in quegli occhi, ma c'è anche qualcosa che non riesco ad afferrare, qualcosa che smuove nelle mie viscere delle emozioni sconosciute.
“Ti dispiace?” mormoro, senza allontanarmi da lui, la voce in una tonalità bassissima che dubitavo di poter raggiungere.
“No, in realtà no” mi risponde con un sussurro un po' roco, che mi provoca una scossa lungo tutto il corpo. Per qualche istante rimaniamo fermi e silenziosi, impegnati solo a guardarci. Poi lui si allontana e ritorna davanti alla tela, spezzando quella strana tensione che si era creata tra di noi.
“Che ne pensi?” mi chiede, riferendosi al quadro. Guardo l'immagine che mi si presenta davanti, e rimango senza parole. Avevo già visto i suoi dipinti, ma questo è straordinario: persino io, da profana, riesco a vedere il miglioramento della sua tecnica, l'uso armonico dei colori, e soprattutto la resa straordinaria dell'espressione che ho sul volto. Perché, ritratta sulla tela, bella come non sono mai stata, ci sono io. Indosso la tuta della seconda Arena, e ho in mano un pugnale lucido e pulito. L'espressione è dura, ma non crudele, e lo sguardo è lontano. Sembro piuttosto pensierosa, e turbata.
“Peeta, sei bravissimo” gli rispondo. “Davvero, sei...bravissimo”.
Sono un genio delle parole, non c'è che dire. Lui però non sembra far caso alla mia scarsa loquacità, e sorride.
“Il dottor Aurelius dice che dipingere è come una terapia” mi spiega. “Ogni quadro che ho fatto da quando sono stato portato al Tredici, è stato come un passo del mio percorso di guarigione. Lui mi diceva di dipingere, e quando finivo un quadro me lo prendeva e lo conservava; ne ha messi via parecchi, e per mesi non mi ha permesso di riguardarli. Fino all'ultimo giorno, quando poi ha deciso che ero pronto a tornare. Me li ha mostrati tutti, in ordine dal primo all'ultimo, e insieme abbiamo visto le differenze”.
Mi guarda con un vago senso di colpa negli occhi, e io non voglio che si tenga questi sentimenti per sé. Voglio che condivida il suo peso.
“Li hai qui? Gli altri quadri?” chiedo.
Dalla sua titubanza capisco che sì, il dottore glieli ha dati.
“Fammeli vedere” dico.
“Katniss...” esordisce “ricordo come hai reagito quando ti ho mostrato le immagini dell'Arena. Questi non sono meno cruenti. Anzi...”.
“Lo sopporterò” rispondo. Per te bisbiglia la mia mente, un pensiero che non viene convertito in parole. Lui sospira, e apre le ante di un grande armadio. Prende le tele e le dispone lungo una parete della stanza: conosce a memoria la sequenza di immagini, si capisce dalla rapidità con cui le posiziona. E, al primo colpo d'occhio, la comprendo pure io.
I quadri sono tutti eccezionali per tecnica, colori, rappresentatività. Ma i primi sono scuri, macabri, il cui colore prevalente è il rosso del sangue. La protagonista indiscussa di questa storia sono io: cattiva, crudele, assassina; gli occhi sembrano lanciare fiamme, e, spesso, un sorrisetto malvagio mi adorna le labbra. Nei primi quadri il sangue quasi mi ricopre totalmente – ne ho sul viso, sui capelli, ovunque – e io sembro gioire di questo tripudio di violenza. Ma poi, gradualmente, le cose cambiano: i colori si fanno più tenui, il sangue diminuisce, e il mio viso perde poco a poco quell'espressione cattiva, assumendone una perlopiù confusa. Guardo Peeta, che fissa le tele come se volesse entrarci dentro.
“Questo è come ti vedo io nelle mie visioni” mi spiega. “All'inizio, la tua immagine era violenta e pericolosa, e c'era sempre tanto sangue...”. Trema un momento, e prego che tutto questo non lo provi troppo, dopo la nottata difficile che ha affrontato. “Poi, però, mano a mano che riuscivo a distinguere le visioni dalla realtà, ho iniziato a vederti sempre meno cattiva, e sempre più vicina a quella reale”. Do un'altra occhiata ai quadri, e noto come nei primi fossi eccessivamente bella e sensuale nella mia crudeltà, mentre poi la me dipinta inizia a somigliarmi di più – anche se è sempre più bella dell'originale, con la pelle levigata e le curve accentuate. “Aurelius mi ha fatto notare come il sangue lascia il tuo corpo, vedi? Nell'ultimo il sangue è solo sul pugnale. È con questo che lui ha deciso che potevo tornare. Perché tu...nelle mie visioni...non sei più così letale”. Mi guarda con un'intensità da mozzarmi il fiato. “Solo che, alle volte, ancora confondo le immagini. Ieri notte mi sono sentito minacciato, e mi sento così in colpa per averti aggredita”.
Sento un magone che opprime la mia gola, e non riesco a parlare. Mi limito a scuotere la testa e a fargli una debole carezza sulla spalla. Lui sorride appena.
“Ma poi Aurelius mi ha fatto notare anche un'altra cosa. La tua espressione, in qualche modo, non è solo la tua, è anche la mia. È come se, sul tuo viso, dipingessi il mio stato d'animo. Quando dipingo è come se entrassi in un stato di trance in cui disegno a livello inconscio, ma, quando mi fermo, mi rendo conto di cosa ho creato, e adesso riesco a leggere i messaggi che ho lasciato. Penso di dover ringraziare il dottore per questo”. Torniamo davanti al cavalletto che ospita il quadro in lavorazione. “Vedi questo? Ci ho fatto caso solo nel momento in cui sei entrata e mi hai distolto dal lavoro. Il sangue è scomparso, ma c'è sempre il pugnale, e il viso è come...preoccupato. È perché io sono preoccupato, e spaventato all'idea di farti del male”.
Abbassa lo sguardo, colpevole, e mi prendo qualche secondo per osservare lui e i suoi quadri. Questo è il mondo di Peeta, quello in cui è stato lanciato dal veleno e dalle torture. È un mondo osceno, perverso, che racchiude tutte le peggiori caratteristiche della persona che ha causato tutto questo: il presidente Snow. E Peeta, quello che tutti hanno sempre definito il più debole  il ragazzo che ha vinto per sbaglio gli Hunger Games, quello troppo buono per sopravvivere –  ha il coraggio di affrontarlo ogni giorno, ogni singolo giorno, e di combatterlo, mettendolo nero su bianco, dandogli vita. Realizzo che non sono io a dover sopportare niente, che quella di Peeta  evitarmi di vedere i suoi quadri  era l'ennesima premura nei miei confronti; in realtà è lui ad aver avuto maggiore coraggio nell'introdurmi in questo suo universo parallelo, molto più di quello che potrei avere io nel guardare una sola volta queste tele. Non avevo bisogno di ulteriori conferme per capire quanto lui sia migliore di me, ma questa, definitivamente, lo è.
“Peeta” esordisco “penso che tu abbia fatto dei progressi eccezionali. Quello che è successo è successo, ormai, e considera che era la prima volta dopo tutti questi giorni. Magari hai accumulato troppa tensione, e sono io che mi sento in colpa, perché l'hai fatto per starmi vicino". Alza di scatto la testa e fa per interrompermi, ma io gli prendo la mano. “Non tagliarmi fuori. Oggi mi hai mostrato tutto questo, e sono felice che tu l'abbia fatto, perché vorrei che tu ti appoggiassi a me come io faccio con te".
Il suo sguardo si illumina, mentre mi stringe più forte la mano.
"Ci proteggiamo a vicenda" dice piano, recuperando una conversazione che ci riporta alla rivoluzione, a Capitol, in quel sotterraneo. E ricordo i suoi capelli soffici sotto le mie dita, la sua pelle che sembra sempre calda a contatto con le mie mani perennemente gelate.
"
Il tuo percorso...ecco, ora è anche il mio” mormoro infine, mettendo a tacere il mio imbarazzo e il mio senso di inadeguatezza. Nono sono importanti. Quello che conta, ora, è che lui sappia che non lo lascerò indietro, che mi impegnerò a strapparlo sempre dai suoi incubi come l'ho trascinato via da quel maledetto sotterraneo.
Vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime e un sorriso tremante gli incurva le labbra. Mi prende il viso tra le mani e posa la sua fronte contro la mia. Siamo così vicini, i nostri respiri che si confondono: vengo scossa da mille brividi che partono dalle guance, contenute tra le sue mani, fino ai miei polpastrelli che, temerari, gli sfiorano gli zigomi. E ricordo il brivido che gli ha attraversato il corpo, quando l'ho baciato con disperazione, come se fosse la nostra ultima possibilità di salvezza; ricordo il suo respiro che si infrangeva sulle mie labbra, e la sensazione che quel legame che ci univa fosse la nostra unica possibilità di salvezza. Una lacrima sfugge solitaria dai suoi occhi chiusi, e io la raccolgo, come avevo fatto con il colore.
“Grazie...” mormora piano. “Grazie”.
Una lacrima, ora, raggiunge le sue, di dita.


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Buon anno nuovo a tutti!! :D Spero che questo 2016 sia iniziato alla grande per tutti voi e che vi porti solo belle cose! :)
Questo capitolo mi è costato una grande fatica, e tutt'ora mi lascia un po' perplessa. So che la retorica è dietro l'angolo, visto lo scenario che ho scelto per questa storia, ma spero di averla almeno in parte scansata! :p
Ringrazio tantissimo chi legge e chi recensisce, siete un vero toccasana per la mia autostima!! :D
A presto,
VV**

  
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