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Autore: Baymax96    04/01/2016    1 recensioni
AU Human! Le tartarughe in veste umana affrontano alcuni problemi più che integrati nella società odierna, in un mix di amore, avventura, azione e ninjutsu! Potrà Ella riuscire a tirare avanti nella vita ora che ha scoperto un segreto?
Genere: Angst, Erotico, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Donatello Hamato, Leonardo Hamato, Michelangelo Hamato, Raphael Hamato/ Raffaello
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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N/A Buondì, miei cari tartarugoni! Passato un buon weekend? Io me lo sono preso di riposo ed infatti rieccomi qui puntuale a riaggiornare questa fiction! Un abbraccio a tutte quelle che mi seguono e intanto Enjoy!!!


Donatello richiuse piano la porta della camera di Ella, traendo un respiro profondo.
Era così preoccupato per la sorella maggiore ma soprattutto per la minore: da quando avevano cominciato le ricerche, almeno un’ora fa, Miki era diventata sempre più taciturna fino a non esprimere più neanche una parola.
Ora era un relitto in lacrime silenziose che non lasciava cadere davanti agli altri.
-E’ colpa di Leo!- pensò con una nota di nervi.
Come l’avrebbero messa con la scuola? Dovevano avvisare la polizia? Pensieri del tutto inutili, però. A che servivano, in un momento come questo?
Mentre affogava nelle ipotesi anche più terribili, un’ombra gli si allungò davanti: era il maestro Yoshi, con un volto modellato dal dolore e dai sensi di colpa. Fra tutti i maschi, era quello più in collera con se stesso; non aveva provato a parlare con Raphaella, anzi, l’aveva semplicemente allontanata con una barriera di delusione.
E in veste di padre, ricordava ancora l’orrore puro nello sguardo vitreo della figlia dopo il suo silenzio.
“Dove sarà…?” sospirò Donnie.
Yoshi non rispose, per la prima volta in vita sua non sapeva che dire quindi lo abbracciò, accarezzandogli i capelli arruffati. Il giovane genio schiacciò il viso nel suo petto, traendo un respiro traballante; nessuno dei due si accorse del paio di occhi cobalto intento ad osservarli silenziosamente attraverso la fessura della serratura di una camera ben specifica.
Quella di Leonardo.
Al giovane, in quel lungo lasso di tempo d’agonia, era tornato in mente il misterioso messaggio ricevuto. Si era chiesto chi poteva avere il suo numero, conoscerlo: dopotutto, i suoi amici si contavano sulle dita della mano. Pochi ma sinceri, come diceva il proverbio.
“E’ solo colpa mia” sospirò amaramente Leonardo “E ho intenzione di mettermi sulle sue ricerche, costi quel che costi!” mormorò impercettibilmente, dirigendosi verso il suo armadio.
Afferrò il suo giubbotto nero con striature azzurre, un paio di shuriken che custodiva all’interno di uno scrigno di legno nell’armadio, qualche kunai e una Tanto che infilò nei larghi passanti del suo jeans preferito.
Avrebbe agito alla maniera dei ninja!
“Farò in modo di non destare sospetti”.
Così, aperte le finestre della sua stanza, balzò sull’alto albero che fungeva da scala naturale e scese per raggiungere la strada. Il cielo era grigio uniforme, con molta probabilità la pioggia non avrebbe tardato a cadere e questo spingeva il giovane a non perdere altro tempo.
“Non so dove cercare, ma un posto l’avrei in mente” fece, dirigendosi verso nord “Ella si è sempre rifugiata al cimitero, con la mamma. Non credo sia lì, è troppo ovvio, ma almeno potrei anche trovare qualche buon indizio”…
 
Slash era appoggiato con le spalle alla porticina di legno della toilette, dove teneva Ella nascosta. Come già le aveva spiegato la rossa, ogni mattina per altri due lunghi mesi, avrebbe avuto appuntamento fisso con la toilette per le nausee da gravidanza.
Ella era in bagno a vomitare da quasi cinque interi minuti e da come tossiva sembrava abbastanza snervante la cosa, oltre che disgustosa. Slash non poteva fare a meno di sospirare pesantemente, nell’impotenza di non poter fare granché per la sua ragazza.
-Questo è ciò che affrontano i padri?- pensò, aprendo gli occhi onice.
Non negava che non aveva ancora del tutto accettato questa gravidanza, però voleva semplicemente evitare l’aborto. Lui era contro l’uccisione delle piccole vite innocenti.
-Siamo due sconsiderati…- rifletté mentalmente, con un sospiro e un sorrisetto.
In quel momento udì lo scatto nitido della porta alle sue spalle: Ella ne uscì con un volto quasi cadaverico, le occhiaie ben in mostra e l’aria stanca. Eppure era ancora uno schianto!
Slash fu tentato di farla sua in pieno giorno ma si trattenne e piuttosto afferrò qualcosa che teneva custodito sotto la sua giacca.
“Come ti senti?” domandò apprensivo, facendole una carezza sul viso.
“Un cesso”.
Slash ridacchiò mentre le stampava un bacio in fronte e la prendeva per mano per condurla verso una porta di legno, nel lungo corridoio grigio in penombra. Appena entrarono, il giovane le indicò un lettino ordinato sotto a una finestra.
La stanza non era molto grande ma in compenso era confortevole: c’era un caminetto, una scrivania, un mini-frigo, un cucinino molto piccolo affiancato dalla toilette e infine un mobiletto dov’era appoggiato un portatile tenuto sotto carica.
“Fammi indovinare. Questa è la stanza del Boss?” ironizzò Ella.
“Una cosa del genere. Meglio se ti stendi un po’”.
La rossa non se lo fece ripetere due volte, poi Slash le si fece vicino e le consegnò ciò che teneva nascosto sotto la giacca. Era una maschera bianca, con due fori per gli occhi e una spire nera bordata di rosso proprio sullo zigomo sinistro.
“Che cosa dovrei farci con quella cosa lì?” borbottò Ella, con una mano sulla pancia.
“Indossarla. Mi sembra ovvio, no?” ridacchiò Slash.
“E perché?”.
L’altro roteò gli occhi in esasperazione ma replicò “Devo nasconderti, ricordi? Quindi, è meglio se tieni la maschera quando gironzoli qui dentro. Capito?”.
“Ah, certo. Anche quando vado a fare la spesa?”.
“Non ironizzare, Ella! Sto cercando di metterti a tuo agio!” replicò stufo Slash, a braccia conserte.
La rossa sbuffò ma anziché ribattere si coricò, troppo stanca perfino per parlare; vomitare le toglieva una buona parte delle energie recuperate durante il sonno.
Dopo qualche istante di silenzio, Slash le fece una carezza fra i capelli e chiese “Hai fame? Posso farti portare qualcosa di particolare se-“.
“Spiegami come mai sei il capo dei Purple Dragon” tagliò corto la rossa, con il volto puntato al muro.
“Non credo ti interessi”.
“Sì, invece!” ruggì Ella, guardandolo con la coda dei suoi occhi fiammeggianti “Voglio che non ci siano segreti tra me e te! Non voglio vivere nell’ignoto!”.
Il giovane si rabbuiò in volto, incurante degli sguardi sempre più scettici della sua amata che lo fissava con entrambi gli occhi fiammeggianti.
“D’accordo, dolcezza. Ti spiegherò” fece “Mettiti comoda, è una storia molto lunga”.
La rossa obbedì…
 
Slash era un bambino molto felice. Abitava con sua madre e un cane chiamato Ducati, esattamente come le moto che tanto amava guardare sulle riviste di motociclismo. Il suo fedele quattrozampe era nero, con un occhio cieco e i peli arruffati; l’aveva salvato quasi cinque anni prima da un gruppo di mascalzoni di dieci e dodici anni e da allora l’aveva tenuto con sé.
Era anche molto ubbidiente: da quando suo padre era misteriosamente scomparso, si era preso la briga di diventare “l’ometto di casa” e faceva qualunque cosa per aiutare sua madre, gravemente malata.
Un giorno piovoso, tornando da scuola, il giovane Slash di soli otto anni e mezzo, vide il suo cane legato vicino a un palo della luce e un furgone nero parcheggiato proprio davanti al portone dorato del suo malridotto palazzetto di tre piani di un rosso pompeano. Preoccupato, il piccolo andò immediatamente a controllare.
“Penso dopo a te, Ducati!” gridò a malincuore, con addosso un brutto presentimento.
Non prese neanche l’ascensore per fare prima; quando arrivò al secondo piano, dove abitava fin dal suo primo giorno di vita, il suo piccolo cuore minacciò davvero di fermarsi alla vista di un gruppo di cinque uomini vestiti con giubbotti di pelle nera, jeans, tatuaggi a forma di draghi viola sui volti e occhi celati dietro occhiali neri. Erano armati con coltellini a serramanico, spranghe e sfollagente e sui volti da brutti ceffi capeggiavano ghigni sinistri.
Ma quello che fece infuriare Slash fu vedere la sua povera madre inginocchiata in mezzo a loro, con un taglio sanguinante sulla fronte e l’intero esile corpo scosso da violenti tremori.
“FERMI!” gridò il bambino.
Il gruppo di uomini sogghignò oscuramente contro di lui, al contrario, sua madre diede un grido terrorizzato.
"Slash, va via, ti prego!" implorò.
"Non vado da nessuna parte!" replicò l'altro, scuotendo energicamente il capo "Lasciate stare la mia mamma immediatamente!" intimò agli altri che, per tutta risposta, risero.
"Una pulce dovrebbe fermarci?" sogghignò il loro capo, con tre piercing sul sopracciglio destro.
Il bambino brandì dalla tasca dei suoi pantaloni una fionda e lo colpì giusto in mezzo alla fronte con una sfera di piombo.
"PRENDETELO!" urlò nel dolore.
Slash non poté lottare contro gli altri quattro che gli tenevano bloccati gli arti superiori e inferiori: era in trappola.
"Adesso vedrai che significa davvero vedere la sofferenza, ragazzino" ruggì a bassa voce il leader della banda, puntando alla tempia della donna la canna di una pistola.
"MAMMA!" gridò Slash impaurito.
"La mamma ti vorrà sempre bene...".
E poi lo sparo. Per un attimo tutto si rallentò, come la caduta del corpo della donna sul pavimento in una pozza di sangue, l'uomo che rinfoderava la pistola nella foderina penzolante sulla coscia, gli altri che cominciavano a tempestare di pugni e calci Slash, ridendo...
 
L'ultima cosa che ricordava era il buio che inglobava il corpo esanime della mamma.
Slash si risvegliò tre giorni dopo in ospedale, tutto fasciato e con un cerotto sull'occhio destro. Era confuso, stanco e dolorante. Non gli ci volle molto a ricordare la tragica morte della mamma che non era riuscito a proteggere, come si era sempre ripromesso. Aveva fallito.
"Soffri, ragazzino?" fece un uomo sedutogli accanto.
Era sulla quarantina inoltrata, con i capelli brizzolati e gli occhi celati da un paio di occhiali neri. Indossava un soprabito lungo corvino, un paio di pantaloni grigi e una felpa ancora nera, stessa tinta delle sue scarpe lucide. Anche le sue mani erano coperte da un paio di guanti di pelle rigorosamente nera.
"Chi sei tu?" domandò Slash.
"Chi sono io non ha importanza. Sappi che se vuoi inseguire il tuo desiderio di vendetta, dovrai allearti con il nemico e sventrarlo dall'interno. E' solo questo ciò che potrai realmente fare".
Slash abbassò lo sguardo velato di lacrime ma negò "Non potrei fare... non posso uccidere-".
"Non hanno avuto pietà di una donna" tagliò corto l'altro, alzandosi dallo sgabellino di metallo sul quale era seduto "In questo mondo se non uccidi, verrai ucciso. Tua madre merita vendetta".
I pugni di Slash si strinsero duramente: quell'uomo aveva davvero ragione. Se avrebbe raso al suolo quella maledetta banda... ma qual era il suo nome?
"Sono i Purple Dragon. Si fanno chiamare così" spiegò.
Slash temette per un attimo che l'umano gli avesse letto nel pensiero.
Appena chiuse gli occhi per ingoiare un grumo di lacrime, al suo fianco l'uomo non c'era più, sparito misteriosamente. Eppure le finestre bianche svolazzanti nel vento burrascoso confermavano tutt'altra teoria. Come diavolo ci era riuscito?
"Ti vendicherò mamma... lo prometto!"...
 
Quando fu dimesso, il bambino tornò a casa sua per raccogliere in uno zainetto marrone le cose più care, come una foto della mamma, qualche vestito, soldi e cibarie. Mentre cercava silenziosamente le ultime cose da prendere, il collare rosso di Ducati glielo fece tornare in mente. In colpa per averlo dimenticato legato al palo, Slash si fiondò alla finestra della cucina per vedere se era ancora lì.
Ma del suo cane non c'era traccia. Al palo capeggiava solo la corda di canapa svolazzante nel vento. Aveva perso sua madre e il suo cane in una volta sola e questo gli faceva male ancora di più.
Slash sospirò, si guardò per l'ultima volta in casa e infine uscì, diretto a una vecchia cattedrale abbandonata dove vi era raffigurato sul portone, in vari graffiti, un enorme drago viola. Quello era il quartier generale dove avrebbe cominciato il suo percorso per vendicarsi.
Slash bussò, tirando sulla testa il cappuccio della sua felpa. Ad aprirgli venne una ragazza con i capelli magenta raccolti in due codini laterali, occhi verdi e labbra cacao, con un pantalone bordeaux e un top verde menta. Aveva un ghigno ed era anche molto carina, nonostante tutto. Le esili braccia erano racchiuse in spesse bende viola, accompagnate da pad di protezione viola e guanti senza dita.

"Che vuoi, ragazzino? Smamma!" intimò.
Doveva avere undici anni ed era più alta di lui.
"Sono qui per diventare uno di voi!".

Lo sguardo della ragazzina mutò in curiosità e gli fece cenno di farsi seguire nella cattedrale. Slash diede un ultimo sguardo alla Manhattan che conosceva, nel suo grigio tetro, poi svanì nelle tenebre del mondo che lo avrebbe visto come capo in futuro...
 
"E questa è la mia storia. Ho ucciso, ho rubato, sono stato un grandissimo cinico e questo mi ha portato a diventare il capo dei Purple Dragon" terminò Slash, facendo una carezza sulla guancia di una Ella sbiancata.
"Ma... chi era quell'uomo al tuo risveglio in ospedale?" domandò scossa.
"Non l'ho mai saputo. Alcuni dicono che si tratti di un'ex comandante delle forze armate militari americane, altri ancora pensano che sia un pezzo alto dell'FBI..." spiegò vago Slash "Non lo so. Ho cercato per anni di scoprirlo, ma davvero non ne ho idea. Il mio unico obiettivo è uccidere quel maledetto che mi ha strappato mia madre" ruggì il giovane, appoggiando poi la mano sulla pancia della rossa "E proteggere il nostro bambino".
Un piccolo sorriso crebbe sulle labbra della ragazza che le si aggrappò strettamente al collo. Erano così felici...!
Tutto il contrario degli Hamato...
 
E Leonardo si sarebbe presto trovato in un bel guaio a Chinatown, sorvegliato inconsapevolmente da un noto TigerClaw...

 
   
 
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