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Autore: Naco    12/03/2009    3 recensioni
Un incontro, assolutamente casuale. E la ruota del destino comincia inesorabilmente a girare.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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- Questa storia fa parte della serie 'Mara e i suoi amici'
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V

"Here's a story about a little guy that lives in a blue world."
(Blue – Eiffel 65)


Nella stanza era calato un silenzio carico di tensione. Non mi ero neanche accorta che eravamo soli, finché non l’avevo avvertito avvolgermi completamente.
“Mio padre è giapponese, come avrai intuito, e mia madre è italiana. Si sono conosciuti quando lui era venuto in Italia per migliorare la conoscenza della lingua. Per arrotondare, riuscì a trovare lavoro in una pizzeria della zona. Mia madre era la figlia del proprietario.
Si innamorarono, così decise di seguire mio padre in Giappone, nonostante i suoi genitori non fossero assolutamente d’accordo: cosa avrebbe potuto fare lei, in una terra sconosciuta, senza sapere neanche la lingua? Ma mia madre non ascoltò il consiglio dei suoi genitori e mollò tutto per andarsene con lui.”
“E’ difficile per un italiano vivere in Giappone” mi trovai a commentare mio malgrado “c’è una mentalità completamente diversa dalla nostra.”
Un istante dopo me ne pentii: “Scusa, non volevo…”
Lui scosse la testa: “Vedo che del mio Paese tu sai più di quanto pensassi. Sì, mia madre si rese subito conto che la vita per lei non sarebbe stata così semplice: era uno spirito libero e non avrebbe mai potuto comprendere il modo di vivere di una classica casalinga giapponese. Provò anche a cercarsi un lavoro, ma lei non era abituata ai ritmi giapponesi, così dovette rinunciare.”
Sbuffai. L’avevo sempre pensato che noi italiani avremmo dovuto imparare un po’ dai giapponesi, quanto ad applicazione e dedizione al lavoro. Non che pensassi al Giappone come un’isola felice dove tutto è perfetto, ci mancherebbe altro: erano tanti i lati di quel Paese che, da occidentale, non avrei mai potuto comprendere né accettare.
“Probabilmente mia madre sarebbe tornata subito indietro, se non fosse rimasta incinta di me. Allora capì che doveva restare per dare una vera famiglia a suo figlio. Eppure, lei non dimenticò mai le sue origini e per questo mi educò come un vero sangue misto: mi fece imparare l’italiano fin da piccolo, mi inculcò la mentalità occidentale e mi fece assaggiare la cucina italiana. Contemporaneamente, lasciò che mio padre mi insegnasse ad essere un vero giapponese. ‘Non dimenticare mai le tue origini, Hiroshi’ mi diceva ‘Così potrai essere felice ovunque andrai’.
“Da piccolo, non riuscivo a capire il perché di tutto questo: assorbivo quello che mia madre mi diceva senza realmente rendermene conto. Poi, crescendo, ho imparato a capire cosa provava veramente e, in un certo senso, l’ho odiata.”
“L’hai odiata? E perché?”
“Vedi, non è facile essere un sangue misto: non sei mai accettato completamente dai tuoi compagni di scuola e i bambini, quando venivo in Italia dai nonni, mi guardavano con sospetto. Inoltre, quando ero piccolo, non riuscivo a capire perfettamente cosa fare e cosa no: a volte, davo un bacio a una bambina che mi stava particolarmente simpatica, senza sapere che non potevo, oppure mi inchinavo se un amichetto italiano mi prestava qualcosa o mi salutava, suscitando la sua ilarità. Una volta, un bambino si aggrappò alla gonna della mamma e mi indicò dicendo ‘Quel bambino è strano’.”
“I bambini sanno essere davvero crudeli, a volte.”
“E’ per questo quindi che, quando compresi perché mia madre mi aveva insegnato quelle cose, cominciai ad odiarla: ero un bambino strano per tutti. A volte sentivo di non appartenere a un mondo ben preciso e pensavo che nessuno mi volesse bene. Così mi chiudevo nella mia stanza e piangevo. L’Italia e il Giappone sono più simili di quel che si crede, in fondo: in Giappone lo strano è visto con sospetto; qui anche, ma non viene ammesso pubblicamente.”
Annuii: aveva ragione, la pensavo esattamente come lui.
“Beh, ma poi sei cresciuto. Penso che questo risentimento verso tua madre sia passato… no?”
“Forse. Non ero ancora troppo maturo quando se ne andò e mi lasciò con mio padre.”
Rimasi con le bacchette a mezz’aria e la bocca spalancata. “Come?”
“Mio padre insegna italiano all’università. Un giorno, forse per far contenta mia madre, portò a casa un suo collega che insegnava inglese. Era italiano, ma non ricordo perché, venne ad insegnare in Giappone per alcuni anni.”
“Quindi…”
“Sì, hai capito bene. Quell’uomo era Amani. Mia madre aveva finalmente trovato qualcuno come lei, con cui parlare dell’Italia e in italiano, con la sua mentalità e che conosceva le tradizioni di questo Paese. Era logico che se ne innamorasse, e lo capisco. Ma…
Avevo dodici anni quando, una mattina, mi alzai da letto e non la trovai più. C’era solo un biglietto al suo posto. E questo non potrò mai perdonarglielo.”
Tacque, e io con lui. Era più che logico che odiasse sua madre e che non volesse più saperne di lei. Anche io, in fondo, detestavo la mia genitrice perché era stata poco madre e poco moglie, troppo presa dalla sua carriera di stilista per badare a me e a mio padre. Eppure lei non mi aveva lasciata; era stato mio padre, quello che mi aveva abbandonata. Ma lui non aveva potuto fare altrimenti,
Scacciai quel pensiero: non ero lì per parlare di me e dei miei rapporti con i miei genitori.
“Mio padre nel frattempo si è risposato e ha una famiglia felice. Non ha mai odiato la mamma per quello che ha fatto, forse in cuor suo sapeva che sarebbe finita così; anzi credo che si sia sentito più leggero, quando lei è andata via: anche lui avvertiva la sua sofferenza e si sentiva in colpa per non essere stato capace di aiutarla né di capire subito quello che sarebbe successo. E forse anche per questo ho continuato a detestare la mamma per tutto questo tempo: aveva reso infelice l’uomo e il figlio che aveva detto di amare.”
“Davvero non l’hai più vista fino ad oggi?”
“Più o meno. Con la famiglia di mia madre ho mantenuto sempre buoni rapporti. Sono venuto spesso in Italia a trovare i nonni e, anche dopo che lei è scappata, mio padre mi ha portato qui in Italia: anche lui in fondo era molto legato a loro. Ora che posso viaggiare da solo, vengo quando ho un po’ di tempo. Così è capitato qualche volta che ci incrociassimo, sia quando venivo con mio padre che adesso, ma non ci siamo mai detti molto. Un po’ come ieri, in fondo.”
“Come mai cercavi l’ateneo, allora?”
“E’ stato Saverio a chiedermi di passare da lui; probabilmente mi voleva parlare della mamma; sicuramente gliel’ha detto il nonno: loro due hanno sempre cercato di farmi riappacificare con lei, in tutti questi anni. Deve averlo scoperto ed è venuta a cercarmi.”
Annuii: capivo perfettamente come si sentisse. Non esagerava quando diceva che sentiva una strana sintonia tra noi due, perché la percepivo anche io. E tuttavia, nonostante lo comprendessi più di quanto lui potesse credere, mi rendevo conto che quella donna amava veramente suo figlio: l’avevo intuito dai suoi occhi, dalla gioia che aveva provato incontrandolo e dal dolore che vi avevo letto nel momento in cui lui era scappato via, lasciandoci soli. Sì: quella donna era stata egoista e si era comportata da pessima madre, ma amava incondizionatamente il suo bambino.
“Eppure, io credo che tua madre ti voglia davvero bene.” Azzardai.
“Dici?” il suo sorriso era ironico, stavolta. “Non come ama il suo Paese, però. Hai notato che mi ha parlato direttamente in italiano? Così come ha sempre fatto anche quando ero piccolo e papà non c’era. No, mia madre non mi ama; può provare dell’affetto per me, ma non certo come si dovrebbe voler bene al proprio figlio.”
Il suo sorriso si fece ancora più triste e un lampo di amarezza attraversò il suo sguardo.
No, lui non odiava sua madre, mi resi conto in quel momento, ma quello che lui era per colpa di quella donna, il suo essere sangue misto, quella lingua che parlava, quel Paese che gli aveva rubato la sua famiglia, nonostante gli fosse in un certo qual modo figlio. Ecco perché mi aveva portato in un ristorante giapponese e non in un semplice locale italiano. Era solo l’amore che provava verso i suoi nonni che lo avevano spinto a tornare in quella Terra tanto odiata.
Cosa potevo dirgli? Nulla, perché io ero come lui. Continuai a mangiare un’altra anonima pietanza, senza aggiungere altro.
Probabilmente aveva compreso come mi sentissi, perché, dopo un buon minuto di silenzio “Scusami” mi disse “Non avrei dovuto raccontarti queste cose. Sicuramente, ti sarai solo annoiata. Gomen nasai." Concluse, inchinandosi leggermente verso di me.
“Non mi sono annoiata” Anzi, non mi sarei mai aspettata che anche le star avessero un passato così complicato, aggiunsi a me stessa. Aveva ragione il signor Marcello nel dire che anche loro, in fondo, erano persone come noi, soltanto con qualche milione di euro in più nel conto in banca.
“Però?”
“Perché dovrebbe esserci un però? A volte si è così presi dai propri problemi, che ci si dimentica che anche lo sconosciuto che ti passa accanto, o che è seduto di fronte a te nel treno, può averne, forse anche più gravi dei tuoi.”
“Anche tu hai un problema che non vuoi rivelare a nessuno.”
Non era una domanda, ma una constatazione.
Non risposi. Come mi diceva sempre Ilaria, io ero brava a capire gli altri, ma quando si trattava di affrontare le mie paure, ero proprio una frana. E lui dovette averlo intuito, perché cambiò argomento: “Allora, cosa fai di bello nella vita?”
“Studio editoria e giornalismo.”
“Oh. Quindi vuoi fare la giornalista?” chiese. Ero paranoica io, o avevo visto davvero un che di allarmato nel suo sguardo?
“No. In realtà a me piace la critica.”
“Critica?”
“Sì, per esempio consigliare un romanzo, oppure dire la mia su uno spettacolo teatrale… preferisco l’ambito culturale.”
“Oh, bello!” Era ancora una mia impressione quel rilassamento dei muscoli che mi era parso di avvertire?
“Scrivere mi piace. Ogni tanto collaboro con un periodico locale per mettere qualcosa da parte.”
“E cosa scrivi?”
“Recensioni, racconti, favole… la cronaca ed i pettegolezzi non mi interessano.”
“Una scrittrice, insomma!”
“Seh, magari!”
“Ma ti piacerebbe.”
Annuii: sì, per il mio sogno, ma probabilmente sarebbe rimasto tale per sempre.
“Perché non provi ad inviare qualche racconto a qualche casa editrice?”
Boccheggiai. Come aveva fatto quel ragazzo a raggiungere quella parte del mio cuore a cui avevo concesso di accedere a pochissime, fidate, persone, senza che me ne fossi resa conto? Perché, nel giro di due domande, era riuscito a portarmi su quegli argomenti di cui non volevo assolutamente parlare?
Anche questa volta comprese il mio disagio e non disse nulla; si alzò e “Torno subito” aggiunse.

“Possiamo andare.”
Non l’avevo sentito arrivare, persa com’ero nei miei pensieri; solo quando me lo trovai davanti, mi resi conto che avevano già sparecchiato.
“Uh?”
“Vuoi restare qui fino a stasera?”
Arrossii e lo seguii velocemente fuori da locale. Il signor Hoshino ci salutò con un inchino e mi rivolse un sorriso che forse voleva dire qualcos’altro, ma che non riuscii a interpretare.
Fuori faceva freddo; le nuvole avevano ricoperto il cielo e si era alzato il vento. Nascosi il viso nella sciarpa e non parlammo più, ognuno perso nei propri pensieri sulle verità rivelate e su quelle che invece avevamo lasciato nel nostro cuore, mentre le folate di vento ci schiaffeggiavano con violenza.
“Fa freddo.” Commentai.
“Ma no. Tokyo è molto più fredda in questo periodo.”
“Eh già. La famosa neve a Natale.”
Rise: “Non pensavo che gli anime fossero così educativi.”
“Oh, invece lo sono molto.”
“Davvero? Non ne sono un appassionato, veramente.”
“Oh. Allora cosa fai nel tuo tempo libero?”
“Leggo.”
Mi fermai. “Leggi?”
“Perché sei così sorpresa? Pensi che io sia un ignorante?”
“No, no…non hai la faccia di un lettore, ecco.” E soprattutto un cantante che legge non riesco ad immaginarmelo.
“Ah sì? E che faccia avrei?”
Di un cantante. “Non so… di un giocatore di tennis, per esempio.”
“Mi spiace deluderti, ma non conosco neanche le regole del gioco.”
“Peccato.” Mi finsi contrariata.
Eravamo arrivati davanti alla stazione senza neanche accorgercene. Mi fermai e lui mi imitò.
“Io sono arrivata.”
“Ah. Dunque non sei di qui?”
“Per la verità no. Sono una studentessa fuori sede e abito in un paese nelle vicinanze.”
“Capisco. Quindi… devi andare?”
Estrassi il cellulare dalla tasca e guardai l’ora sul display. “Sì. Il mio treno parte fra dieci minuti.”
Lui indicò il telefono nella mia mano. “Posso?”
Glielo tesi senza capire e digitò qualcosa: “So che non dovrei, dato che non ci conosciamo molto, però… se magari hai voglia di parlare un po’, o vuoi che ti insegni un po’ di giapponese,” ridemmo “sappi che puoi contare su di me. Non potrò mai ringraziarti abbastanza.”
“Non ho fatto niente…”
Non rispose, ma mi restituì il cellulare prima di voltarsi e allontanarsi verso il traffico cittadino. Guardai lo schermo e vi lessi una serie di cifre che rappresentavano il suo numero di telefono.

Quindici minuti dopo il mio rientro a casa, il Canone di Pachelbel allietò il mio appartamento. Non guardai neanche per sapere chi fosse: solo una persona poteva chiamarmi a quell’ora, proprio quel giorno.
“Mara, devi raccontarmi tutto!” esplose la voce della mia amica, distruggendomi un timpano, non appena aprii la chiamata.
“Ciao Ila.”
“Smettila di essere così tranquilla, Mara! Non ti sopporto quando fai così! Allora, dimmi tutto!”
“Tutto cosa?” decisi di tenerla sulle spine ancora per un po’.
“Insomma, Mara! Matsumoto Shin’ichi si presenta all’ateneo di Bari per parlare con te, ti porta fuori da qualche parte, e tu mi chiedi tutto cosa?”
Ok, era arrivato il momento di smetterla di giocare, decisi.
“Non è successo nulla di particolare: mi ha soltanto offerto un pranzo per ringraziarmi per l’aiuto che gli ho fornito ieri.” Decisi di non sbottonarmi più di tanto.
“Ok, ok. Ammettiamo pure che ti ha solo invitato a pranzo. Avete parlato, no? Di cosa?”
Della sua vita privata. “Di niente in particolare: dei miei studi e delle differenze tra il clima nostro e quello di Tokyo.”
“Gli hai parlato dei tuoi studi? Gli hai detto che sei una giornalista?” sembrava sconvolta.
“Tanto per cominciare, non sono una giornalista, e tu dovresti saperlo meglio di me. E comunque, sì, gliel’ho detto.”
“E lui come ha reagito?”
Secondo me ci è rimasto, ma quando gli ho detto che preferisco scrivere racconti si è rilassato subito. O almeno, a me è parso così. “Non ha detto niente.”
“Come niente?! Hai idea di quante ragazze avrebbero fatto carte false per essere al tuo posto e quante si sarebbero già fiondate in redazione?!”
“Non io. Per me era solo un turista.”
“Oh. Vuoi forse dire che non vi rivedrete più?”
“Boh…” il mio pensiero corse al nuovo numero in rubrica “Non lo so. Però mi ha lasciato il suo numero.”
Dall’altro capo del telefono ci fu un silenzio troppo prolungato, tanto che pensai che fosse caduta la linea.
“Ila…?”
“TI HA LASCIATO IL SUO NUMERO DI TELEFONO?!”
Allontanai il cellulare dall’orecchio e feci un balzo per lo spavento: “Ila, cavolo, non urlare!”
“Mara, ma sei scema? Matsumoto Shin’ichi ti dà il suo numero di telefono e tu ti comporti come se non fosse successo niente?!”
Non mi comportavo come se non fosse successo niente, solo che lei non poteva saperlo. Per tutta la durata del viaggio, e anche dopo, mi ero chiesta che significato avesse avuto per lui quel gesto e mi ero convinta che fosse stato solo un segno di gratitudine nei miei confronti.
Intanto, la mia amica stava continuando a sproloquiare al telefono: “Non ci posso credere! Davvero non capisci cosa significa? Sei una giornalista, eppure ti ha lasciato il suo numero di telefono: gli piaci!”
E come al solito saltava subito alle conclusioni.
“Ila, adesso non incominciare…”
“Non incomincio un bel niente. Lui si è fidato di te, non te ne rendi conto?”
“Ila, forse non hai capito: lui non sa che io so.”
Silenzio. Ancora.
“Come?”
“Lui. Non. Sa. Che. Io. So. Chi. E’.” scandii bene.
“Scusa, fammi capire bene: tu non gli hai detto che sai che è un cantante e un doppiatore?”
“Sì.”
“E perché?”
Come perché? Perché non c’era stato modo di dirglielo, e poi, anche se ci fosse stato, non ne avrei mai avuto il coraggio, dopo aver ascoltato la sua storia.
“Perché non è capitato, Ila. Mica potevo dirgli ‘Ah, so che sei un personaggio famoso’. Se lui non ha voluto dirmelo, avrà avuto le sue buone ragioni, no?”
Ilaria mugugnò qualcosa che sembrava un sì.
“Comunque, tu cosa hai intenzione di fare? Lo richiamerai?”
“Non lo so. Ci penserò.”
Era vero.

Avrei dovuto capire subito che la questione non sarebbe finita lì. Se ci avessi pensato prima, avrei evitato di andare all’università, il giorno dopo. Tuttavia, mentre facevo finta di non notare gli sguardi curiosi delle ragazze che erano state presenti ad estetica del giorno precedente, scossi la testa: per me, andare a lezione, era più di un dovere che facevo verso me stessa, per non avere poi problemi quando mi sarebbe toccato studiare; era un piacere. Ero capace di presentarmi in aula con la tosse e una febbre da cavallo, figuriamoci per una ragione talmente stupida.
“Mara!” Enrico mi venne incontro raggiante “Devi dirmi tutto!”
“Eccone un altro” pensai mio malgrado. Se non fosse stato omosessuale, avrei giurato che lui e Ilaria sarebbero stati una coppia perfetta, dato che erano così simili.
“Lasciala un po’ in pace, dai!” Luca gli fu subito accanto per trascinarselo via. Gliene fui grata: dal pomeriggio precedente, non ero ancora riuscita a togliermi dalla testa la domanda di Ilaria. Cosa avrei dovuto fare? Chiamarlo? E per dirgli cosa, poi?
“Ragazzi…”
Luca ed Enrico, che stavano ancora battibeccando circa il racconto della mia presunta giornata romantica, si bloccarono e si voltarono verso di me.
Deglutii: probabilmente, stavo facendo il più grande errore della mia vita.
“Se voi aveste ricevuto il numero di una persona che vi ha offerto il pranzo… cosa fareste?”
I due si guardarono per un attimo, poi tornarono a concentrarsi su di me.
“Lo chiamerei, ovvio.” Enrico si era lanciato su di me, pronto a riempirmi di buoni consigli.
“Enrico, io non correrei così tanto.” Come al solito, Luca aveva il compito di spegnere l’animosità dell’amico.
“Sei il solito guastafeste, Luca. Se le piace, lo deve chiamare.”
“Appunto. Se le piace.”
“Ti piace?”
Enrico non aveva peli sulla lingua, indubbiamente.
“Non è questione di piacermi o meno. E’ questione che mi sembra parecchio maleducato non farmi più sentire, dopo che lui mi ha invitata a pranzo.”
“Allora, se è tutto qui, puoi chiamarlo, no?” Luca sembrava voler dire qualcosa, ma Enrico l’aveva battuto sul tempo.
“Ma cosa dovrei dirgli?”
“Digli che vuoi sdebitarti con lui per il pranzo e lo inviti fuori tu!”
“Ma no! Così sembra che ci stia provando lei!”
“E che c’è di male?!”
“Sei il solito idiota!”
“Sei tu che pensi sempre troppo, Luca.”
Lo sapevo che non avrei dovuto contare su di loro. Non su tutti e due quando erano insieme, almeno.
“Ragazzi, fatela finita! Sembrate una coppietta sposata!”
Immediatamente, ci fu silenzio.
“Il punto” proseguii prima che riprendessero a litigare tra loro “è che lui voleva sdebitarsi con me, per averlo accompagnato in ateneo. Quindi non ha senso la scusa dello sdebitarsi.”
“Oh.”
I due si persero nei loro pensieri, alla ricerca di una soluzione per il mio problema.
“Quindi, capite? Non voglio che pensi chissà cosa, ma non voglio neanche sembrare una maleducata.”
“Il punto, secondo me, è un altro.”
Luca mi guardò negli occhi e all’improvviso ebbi paura: a differenza di Enrico, lui era un ragazzo riflessivo e ponderato, che non dava mai giudizi affrettati e che preferiva vagliare bene il problema, prima di dare la propria opinione. Ogni suo commento era frutto di riflessioni accurate; e, soprattutto, centrava sempre il problema. “Al di là dell’educazione… tu vuoi rivederlo, oppure no?”
“Ragazzi! La sapete la grande novità?” l’arrivo di Ylenia mi aveva impedito di rispondere a una domanda di cui neanche io sapevo bene la risposta.
“Ciao. Che succede?”
“Non avete idea di quello che sto per dirvi!”
“Beh, dubito che ce l’avremo, se non parli…”
Il commento di Enrico fu soffocato da una gomitata di Ilaria, appena arrivata; in ogni caso, Ylenia parve non averlo notato.
“Dai, racconta, siamo curiosi!” la incitò lei.
Ylenia le sorrise, grata per l’interessamento. Non la conosceva abbastanza per capire che stava soltanto cercando un modo carino per togliersela dai piedi il prima possibile, probabilmente per lanciarsi in una sua personale arringa contro la mia stupidità.
“Avete presente Stefano?”
Ci guardammo un attimo, mentre lei aspettava una nostra risposta positiva.
“Ehm… Stefano Giannoccari?” propose a caso Enrico, ben sapendo che non conoscevamo nessuno con quel nome. Non era la prima volta che utilizzava quel trucco e avevo scoperto quanto fosse ottimo per evitare figuracce; come quella, appunto.
Ylenia sbuffò: “Ma che Giannoccari! Parlo di mio fratello Stefano!”
“Ah.”
Ci guardammo ancora una volta e capimmo che nessuno di noi aveva la più pallida idea di chi fosse quella persona e che, probabilmente, nessuno sapeva neanche che lei avesse un fratello.
“Oggi esce il suo film!”
“Il suo film?”
Eravamo colleghi della sorella di una star e non lo sapevamo?
“Sì! Beh, naturalmente lui non è ancora così famoso da avere un ruolo molto ampio, ma è fantastico! Verrete a vederlo, vero?”
Restammo un attimo in silenzio, ponderando i pro e i contro della situazione.
“Ma certo, Ylenia. Non ci perderemmo mai il debutto cinematografico di tuo fratello.” Rispose Luca affabilmente: mi ero sempre chiesta se un ragazzo buono e disponibile come lui sarebbe mai stato capace di dire di no a qualcuno, almeno una volta nella sua vita.
“Fantastico! Allora ci troviamo davanti al cinema alle venti, ok?”
Annuimmo senza aggiungere una parola e la seguimmo con lo sguardo, finché non raggiunse un altro gruppo a cui avrebbe raccontato la stessa storia.
“Mara?” la voce di Luca ruppe per l’ennesima volta il silenzio “Credo che tu abbia risolto il problema che ti affliggeva.


Note dell’autrice:
Questo capitolo partecipa alla sfida Temporal-mente, indetta da Criticoni. In questa storia, ho inteso il termine “blue” non con il significato di “blu”, ma come “triste”, riferito appunto al passato di Hiroshi, la cui condizione di sangue misto non era per lui certamente fonte di gioia.

Dunque! *_* Mi ero ripromessa di farlo a fine storia, ma credo che i ringraziamenti, adesso, siano più che dovuti. Ringrazio infinitamente Maja, Gra, Sol e Ahiunpodilui per i commenti che mi hanno lasciato finora. Quindi ho deciso di postare questo capitolo un po’ prima di quanto avrei dovuto come ringraziamento. Davvero, ragazzi, non avrei mai pensato che avrei potuto creare mostri! XDD Ogni allusioni a chi sono io sono puramente casuali! U_U
   
 
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