Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: TonyCocchi    09/01/2016    3 recensioni
Raccolta di episodi AU ispirati al film Pearl Harbor (2001), in cui i vari personaggi di Attacco dei Giganti diventano soldati e civili americani durante l’attacco a sorpresa dei giapponesi alla base americana durante la Seconda Guerra Mondiale. Eren, Mikasa, Levi e tanti altri si incrociano con una delle pagine più tragiche della storia: tanta drammaticità, tantissima azione… e anche qualche pairing che non guasta mai!
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eren Jaeger, Hanji Zoe, Mikasa Ackerman, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Ciao a tutti! La mia passione per la serie si è rafforzata ulteriormente ora che ho appena letto le scans l’ultimo capitolo uscito, il 77… *__* Tranquilli, non faccio spoiler di alcun tipo, però è grandioso U_U

Con tale spirito di fan rinnovato, che compensa quel po’ di delusione per il fatto che il primo capitolo non abbia avuto manco un commento, vi presento il secondo tassello di questa drammatica AU che vede i nostri personaggi di Attack on Titan nello sconvolgente 7 Dicembre 1941 a Pearl Harbor. Mi spiace che finora questa mia fic sia passata inosservata, ma del resto era da tanto che desideravo scrivere queste scene, e sono contentissimo di come alla fine mi sono venute! Spero piacciano anche a voi!

Buona lettura!

 

 

 

A una prima impressione, silenziosa un po’ musona com’era, poteva sembrare una persona fredda e scostante, invece, dietro le apparenze, Mikasa Ackerman aveva un animo gentile e disponibile, pronto a prendere in mano la situazione pur di aiutare gli altri in difficoltà; nessuna meraviglia, quindi, che per le amiche e colleghe infermiere fosse divenuta una vera e propria colonna, un solido e affidabile punto di riferimento.

La calma che possedeva, unita alla sua ottima preparazione in qualsivoglia procedura medica, faceva si che qualunque problema si presentasse, sanitario o amministrativo, fosse lei la persona a cui rivolgersi per sapere cosa fare e trovare, più o meno, ogni risposta.

Quel giorno di dicembre, Mikasa si ritrovò a dover divenire colonna di sé stessa.

Doveva dimostrarsi all’altezza della sua fama, mantenersi salda dove tutti gli altri sbandavano terrorizzati, resistere a quel torrente che le si era parato davanti e che minacciava di travolgerla nel suo orrore.

Un torrente fatto non di acqua, ma di persone. Feriti. Decine, centinaia, di più.

Il piazzale davanti l’ospedale era gremito: sembrava qualcuno avesse dato fuoco a un formicaio e tutti quei poveri insetti, nella loro miserabile fragilità, fossero usciti fuori a implorare aiuto. La calca si riversava sulla scalinata d’ingresso e poi nel corridoio principale come attraverso un imbuto, e lei era lì, nel collo di esso, che non sapeva più dove guardare, su quale dettaglio concentrarsi.

Vestiti insanguinati.

Monconi d’arto.

Facce e corpi anneriti dal fumo e delle sfiguranti ustioni.

Urla. Pianti. Suppliche d’aiuto.

“La gamba!”

“Aiutatemi a trasportarlo!”

“I miei occhi! Non ci vedo!”

“Aiutatemi, ho detto!”

“Veloci!”

“Mikasa!”

Prestò attenzione solo a quell’ultima voce che giungeva dalle sue spalle.

Scansando una barella che si faceva largo con prepotenza nella calca, l’amica infermiera Christa Lenz, l’”angioletto della corsia”, come era stata soprannominata da medici e pazienti, si precipitò verso di lei.

“Sono in troppi, non abbiamo più posto! I dottori hanno detto di non farli entrare tutti!”

Quel piccolo ospedale non era fatto per affrontare una simile ecatombe, eppure era l’unico posto a cui quegli sventurati potevano rivolgersi, l’unica speranza di salvezza dalla morte giunta a reclamarli. Se volevano adempisse a tale ruolo, con i posti e soprattutto le scorte limitate che avevano, era l’unico modo: fare una cernita.

Frugò nella tasca: “Prendi questo pennarello!” –le gridò per farsi sentire sopra le mille voci e versi di dolore- “Segna con un cerchio quelli che pensi possano farcela, metti una “M” sugli altri!”

“<< M >>?”

“Morfina…”

Senza aggiungere altro, Mikasa, che era una persona diretta e non si faceva scrupoli a menar spintoni per farsi largo, uscì fuori: per prima cosa ordinò ai soldati di guardia di aiutarla ad allontanare tutti dall’ingresso e tenerli fuori, lasciando passare solamente coloro che avevano passato la sua valutazione.

Cominciò così il triage più duro della sua vita di infermiera, gravato da un brutto senso di vertigine: la vertigine di chi è in alto, suo malgrado, di chi ha il potere di scrutare, e di decidere. Della vita o della morte altrui.

“Tranquillo!” –cerchiò la fronte di un marinaio con un proiettile nel braccio ma nient’altro, per poi passare subito ad un ferito in barella.

“Tranquillo.” –disse ancora- “Va tutto bene.”

Per poi aggiungere, all’orecchio del barelliere: “Dategli della morfina, non lo farà soffrire.”

Aveva una gran fiducia nelle sue doti di infermiera e nella razionalità delle sue decisioni, non ebbe nemmeno un dubbio sui giudizi da lei espressi. A farla vacillare era soltanto l’angoscia nel constatare quante “M” stesse scrivendo… Sicuramente più di quante le scorte di anestetico avrebbero potuto tollerare.

Passò allora ad un uomo con una brutta frattura esposta alla gamba, sorretto per le spalle da due commilitoni: era pallido e tremava per lo shock, ma l’emorragia non era grave e probabilmente ce l’avrebbe fatta. Ma come solo si accostò a lui col pennarello, questi sbarrò gli occhi e prese a dimenarsi, tanto da rischiare che i compagni perdessero la presa e lo lasciassero rovinare a terra.

“Non toccarmi!” –urlò.

Cercò di carezzargli la testa per calmarlo, ma questi diede uno strattone al corpo, come avesse provato a colpirla con una testata: “Sei una di loro, vero? Sei una schifosa muso giallo! Non mi toccare! Non mi toccare! Non mi toccare!” –continuò ad urlare e scalciare come un forsennato.

“……”

Qualcuno avrebbe riso dell’ironia: quante volte le era capitato, con ammiratori e farfalloni vari, che questi provassero ad approcciare con lei complimentandosi per quanto “esotici” fossero i suoi occhi. L’americanissima Ackerman constatò tristemente che, nei giorni a venire, il suo sangue nipponico avrebbe pesato molto di più nelle occhiate della gente.

Aveva appena dato istruzione ai due che lo trascinavano per portarlo dentro, quando si sentì nuovamente chiamare dall’infermiera Lenz.

“Mikasa!” –quando la raggiunse, tutta trafelata, vide che malgrado non si vedessero che da qualche minuto, era tutta sudata e stravolta, trasmetteva più spossatezza di quanta non ne avesse. Inoltre, a giudicare dalle ditate di sangue sul camice, qualche ferito implorante doveva esserle caduto addosso.

Decisamente troppo per la piccola Christa, pensò Mikasa: aveva avuto dei dubbi già solo nel farsi aiutare da lei nella selezione, conoscendo il suo carattere per nulla forte, per nulla adatto a prendere decisioni di tale portata.

“Per favore dammi una mano! Alcuni non so decidere se… Non so se…”

“Christa, lo so che è difficile, ma devi farti forza! Devi…”

“Ehi! Ehi, voi!”

Le due si voltarono: un robusto marinaio, ansante per lo sforzo, stava trasportando tra le braccia il corpo di una ragazza: i capelli biondi, che ricadevano disordinati davanti al volto, erano macchiati di sangue, forse un’esplosione l’aveva sbalzata per aria ed aveva battuto la testa.

“L’ho trovata qui vicino! È viva?”

Mikasa avvertì ancora calore in quel corpo, ma il polso della carotide era del tutto assente.

“No, è morta. Portala…”

Appena le scostò i capelli per riconoscerla, Christa emise un forte grido.

“ANNIE!”

Mikasa si sentì torcere la gola. Non v’era dubbio fosse morta, e che fosse proprio la loro collega Leonhardt, quel giorno non in servizio: quel suo inconfondibile naso pronunciato, quei suoi occhi di zaffiro, adesso socchiusi, come fosse soltanto assonnata. Se Christa era conosciuta come l’angelo dell’ospedale, Annie, per l’impassibilità e la mano pesante nelle iniezioni, era un demonio, la più temuta di tutte loro: pochi sapevano che tipo di brava ragazza fosse in realtà, e da quel triste giorno, nessun altro l’avrebbe più saputo.

“No! No!” –continuava a gridare piangendo Christa alle sue spalle. Lei però era quella forte, lei non poteva.

“Portala sul lato dell’edificio.” –continuò atona la frase lasciata in sospeso, indicando all’omone il posto dove stavano radunando i cadaveri.

“A-aspetta! Aspetta, Mikasa!” –balbettò la bionda- “Forse è ancora viva! Portiamola dentro, ti prego!”
“Torna al lavoro, Christa…”

“Ti prego! Potrebbe essere ancora viva! È Annie!”
“Christa!”
“È Annie!” –le squarciò i timpani come squarciato era il suo cuore.

La colpì in viso con uno schiaffo.

Non avrebbe mai voluto ricorrere a tanto, si sentì subito malissimo, ma aveva dovuto, per il suo bene, e per quello di tanti altri.

Non si concesse una lacrima, né una nota incrinata nella propria voce: le afferrò le spalle e la guardò dritta negli occhi.

“Christa, sei un’infermiera… Guardati intorno, in questo momento c’è bisogno di te…”
“……”
“Fai il tuo dovere, Christa!” –gridò tornando verso l’ingresso dove feriti su moribondi si accalcavano contenuti a stento.

Christa invece rimase lì, sola, come paralizzata, mentre il mare intorno a lei continuava ad ingrossarsi senza conoscer pace dal dolore, e dall’incredulità.

“M-ma io… Io non…”

Balbettava e si guardava intorno. Un uomo talmente ustionato che i vestiti si erano fusi alla pelle, fattasi nerastra, gridò passandole accanto, e si raggelò ancora di più.

“Io non so che cosa fare…” –singhiozzò una vocina tra le grida.

Passò un altro uomo, supplicando in lacrime che qualcuno salvasse suo fratello: aveva tre buchi rossi nel petto e un altro al centro della fronte.

“Che cosa devo fare?”

Desiderava fare ciò che sapeva far meglio: aiutare, consolare, guarire, carezzare, restituire sorrisi; ma in quell’orrore insensato, tutta la pietà e la dolcezza del mondo sembravano così ridicoli e impotenti. Le sue mani non si tendevano verso nessun bisognoso, tremando senza sosta; il suo spirito si spezzava al ricordare il volto senza vita di Annie, e il suo cuore si stringeva al pensiero di quando l’avrebbe saputo quella persona.

“Che cosa devo fare?” –implorò al dramma che lì si consumava, indifferente a lei, di risponderle.

 

 

Era voluto diventare medico dell’esercito per poter restare accanto ad Eren e Mikasa. Era stato pure felicissimo quando erano riusciti a farsi trasferire tutti e tre nello stesso luogo, per giunta una meta tanto importante ed ambita. Quindi non aveva alcun diritto di lamentarsene adesso!

Così si ripeteva, per darsi la giusta carica, il giovane dottor Armin Arlet, ed affrontare la più grande sfida della sua carriera finora. Dopotutto se uno entrava nell’esercito doveva pur essere pronto a simili e anche peggiori evenienze, si pungolava nell’orgoglio, perché i nervi non gli cedessero.

Guai fosse successo: stava a lui porre un minimo d’argine a quella catastrofe, ridurre il più possibile il numero delle vittime. Tale era il numero di quelli che chiedevano aiuto che erano stati costretti a trasformare qualsiasi stanza dell’ospedale in una medicheria o una sala operatoria: inclusa la sala relax del personale dove si trovavano ora, che decisamente non aveva mai conosciuto un’atmosfera tanto concitata.

Finora gli era andata bene, ad occhio e croce era riuscito a salvare, per il momento, più persone di quante ne aveva viste morire…

Ma se tra quei feriti ci fosse stato qualcuno che conosceva molto bene… Se gli avessero condotto lì Eren, grondante sangue, o coperto d’ustioni, o con gli organi interni spappolati, magari con qualche pezzo mancante, ce l’avrebbe fatta a rimanere padrone di sé e salvarlo?

<< Dannazione! >> -si rimproverò: non era il momento di pensare a certe cose, aveva entrambe le mani nella cavità addominale di un guardiamarina con multiple perforazioni da schegge all’intestino!

“Dottore!”

Sarebbe stato ancora più facile lavorare senza le urla dell’infermiera Blouse, nella stanza con lui a tenere d’occhio il paziente sull’altro lettuccio, pure lui messo molto male. La comprendeva, poverina: su quel lettino, col collo squarciato, c’era proprio quel soldato semplice con cui aveva tanto legato negli ultimi sei mesi. Quei due erano diventati tanto inseparabili da far iniziare a sorgere voci interessanti sul loro conto… Lo avrebbe intristito molto che tale strana coppia, che aveva portato più volte l’allegria lì alla base, si spezzasse per sempre, ma non poteva interrompere un’operazione così delicata solo per simpatie personali. Non poteva farlo.

“Dottore, la prego! Venga qui!”
“Non posso, Sasha! Non posso!” –gridò, tergendosi il sudore dalla fronte alla bell’e meglio sulla propria spalla.

“C-Connie sta…”
“Non posso muovermi da qui, mi dispiace!” –ribadì, duro ma angosciato, constatando che oltre a un bel po’ di intestino, quel tipo ci aveva rimesso la cistifellea, e pure un rene sembrava a rischio.

Doveva sbrigarsi: più veloce era, meno sarebbero stati i morti. Quel giorno non c’erano turni, quel giorno non c’erano scuse, c’era il suo onore di medico in prima linea: quel giorno, avrebbe tagliato, asportato e suturato fino allo sfinimento, fino a cadere svenuto.

Eren avrebbe fatto lo stesso. Altro che raggiungerlo lì su una barella: se lo conosceva sapeva che quel “matto suicida”, era lì fuori a combattere e far combattere gli altri col suo animo trascinatore, protetto dalla sua pellaccia dura.

<< Eren, tornerai vivo da me e Mikasa, ne sono certo. Ci vediamo a fine giornata. >> -si rivolse a lui nel suo cuore, per poi tornare a immergere lo sguardo in quel quadro di rosso, bruno e biancastro che erano le budella di quel disgraziato.

 

Connie non aveva per niente una bella cera. Gli teneva la mano e tremava tutto, con l’altra teneva premuto un panno sul lato sinistro del collo, squarciato da delle schegge: ormai quel pezzo di stoffa aveva completamente cambiato colore.

Il suo respiro era veloce e stentoreo, il suo occhi, pesti, senza forze, girovagavano confusi per il soffitto, ma quel che non le piaceva in assoluto di più era il suo colore.

Le sembrava si facesse più pallido ad ogni istante che passava: come se il suo amico, il suo complice, il suo Connie, stesse scivolando via a poco a poco, come se lentamente glielo stessero portando via.

“S-Sasha…” –la cercò per avendola accanto, reso cieco dall’anemia.

“Resisti, Connie, resisti! Il dottore è occupato, ma sta arrivando, vedrai! Ora arriva!” –gli disse senza quasi riprendere fiato.

“S-sto morendo, non è vero?”
“N-no! No! Ma che morire, andiamo! È… una cosuccia… Una… cosuccia…”

Anche le dita che stringevano il panno erano fradice del suo sangue.

Pur nel suo stato, il soldato Springer non la bevve neanche un secondo: “S-Sasha, io non… voglio morire…” –prese fiato- “C-ci sono tante cose che voglio fare… E… tante cose che dobbiamo fare…”

Sasha lasciò uscire due lacrime: che ne sarebbe stato dei loro piani? Avrebbe dovuto dire addio al loro presente di risate, balli con la radio a tutto volume, scherzi a superiori e primari; e al loro futuro di piccoli, sciocchi sogni, che non vedevano l’ora di realizzare una volta terminato il servizio.

 

“Se non hai mangiato il pollo fritto di casa mia, nel Kentucky, allora tu, mia cara, non hai mai mangiato pollo fritto in vita tua!”
“Ah ah ah, andiamo, non può essere così buono!” –scoppiò a ridere, smuovendo un po’ la sabbia coi piedi nudi.

“Fidati, è così! E tu ti reputeresti una mangiona? Mi deludi!” –la prese in giro, sgranchendosi sotto il cielo rosso di un caldo tramonto hawaiano.

“Io sarò una mangiona, ma non ho mai conosciuto qualcuno che adorasse il pollo fritto quanto te!”
“Te lo farò assaggiare! Appena è finita la ferma ti porto con me nel Kentucky, così mi dirai!”

“Oh, e come potrei tirarmi indietro?–rise ancora, girandosi su un fianco per guardarlo negli occhi- “Ma lì da voi nel Kentucky sapete fare bene solo il pollo fritto?”
“Che io ricordi nella città vicino la nostra fattoria c’è un negozio d’hamburger niente male!” –le lanciò lui uno sguardo furbetto, conoscendo i suoi gusti.
“Adoro gli hamburger!” –le brillarono gli occhi e le venne l’acquolina- “Quando saremo lì dobbiamo fare una gara a chi ne mangia di più!” –propose, sicura dell’entusiasmo della persona al suo fianco.

“Ah ah! Andata!” –fece subito, suggellando con una stretta di mano.

Un gabbiano si inserì nel felice silenzio venutosi a creare tra i due.

“Non vedo l’ora di andare lì con te.”

 

Così gli aveva detto. Quanti posti voleva vedere insieme a lui, quante risate voleva ancora fare, quante cose nuove voleva sperimentare, con lui, quel ragazzo sulla sua stessa lunghezza d’onda che rendeva tutto più divertente qualunque cosa facessero, purché stessero vicini.

Doveva star pensando qualcosa di simile anche lui, perché anche i suoi occhi presero a grondare come fontane: “Sasha…” –un brivido lo scosse- “Ti prego… non farmi morire… Non… voglio…”

Le scosse convulsive spezzavano le parole del suo pianto, mentre cieco continuava a cercarla.

“Non farmi morire, Sasha, ti prego… Ti prego…”

Un ultimo singhiozzo e lo vide perdere conoscenza.

Al diavolo Armin, non sarebbe stata lì ad aspettarlo nel mentre che la persona più importante per lei al mondo si spegneva tra le sue mani.

Scostò il panno zeppo di sangue e guardò la ferita. La lacerazione era profonda, ed era giunta all’arteria carotide, quella che porta il sangue al cervello. Le arterie fanno fuoriuscire il sangue ad alta pressione: un minuto scarso e Connie sarebbe morto dissanguato. Non era affatto brava con le suture, figuriamoci quelle dei vasi sanguigni, ma ci doveva pure essere un modo per chiudere, o almeno tappare per il momento quella breccia.

I dottori si erano complimentati più volte con lei per il buon istinto nel prendere decisioni: si affidò a quello. Cercò con le dita quel grosso cordone pulsatile, e parò la breccia con le punte dei polpastrelli.

“Io non ti faccio morire, Connie!”

La Morte stessa in persona sarebbe rabbrividita davanti ai suoi occhi e al suo tono di voce in quel momento.
“Mi hai capito, Connie? Non provarci neanche a morire, perché non te lo permetto!”

“Ho quasi fatto!”

La voce del dottor Arlet non le arrivò neanche: i suoi occhi e la sua anima erano fissi su quel campagnolo coi capelli rasati tanto sciocco e tanto buono che era diventato la cosa più bella e divertente del suo mondo, e la cui vita stava letteralmente trattenendo sotto le dita.

“Io non ti faccio morire! Non ti faccio morire!”

 

 

 

Naturalmente la scena Connie x Sasha non poteva mancare, e penso sia quella che ho scritto con più trasporto e la meglio riuscita! La sua determinazione è tale da rivaleggiare anche con quella vecchia megera con la falce: Sasha non permetterà a uno stupido vaso che perde di spezzare il loro epico duo!

La scena dell’ospedale è altrettanto drammatica, e nulla riesce ad addolcirla: tra chi si lascia trascinare, chi resta saldo e non si permette di crollare, e chi purtroppo è rimasta vittima della follia della guerra. Forse è un inconscia vendetta nei confronti di Annie la mia, per ciò che ha combinato nella serie, chissà… XD

Spero vi sia piaciuto! Ai prossimi episodi!

  
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