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Autore: Annabel_Lee    11/01/2016    3 recensioni
Federico è sempre stato più assorbito dal suo dolore, dalla sua rabbia, per prestare attenzione a quella altrui: ma qualche volta succede, e ti ritrovi uno sguardo intrappolato in testa e non sai più che fartene, perché sembra che niente te lo possa strappare di dosso.
Lo sguardo, neanche a farlo apposta, è quello di Michael.
[Midez]
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fedez, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Scivolarono velocemente in un'intimità dalla quale non si ripresero mai.
-Francis Scott Fitzgerlad.
 

V

Lover, please stay
 

Space Oddity è un mormorare stanco sullo sfondo, le parole che si distinguono appena, la musica che riempie la stanza e rimane impigliata in testa come vecchio profumo sulla stoffa.
Attraverso le finestre, il tardo pomeriggio sfuma in un crepuscolo grigio, i fumi della città si mescolano al cielo in una striscia d'ocra che sembra quasi sabbia sporca sull'orizzonte, e il freddo di quel tramonto invernale non si sente, attraverso il vetro lucido delle finestre serrate. C'è solo l'ultima luce flebile del giorno a illuminare la stanza, e la lampada giallastra sul soffitto che riempie le pareti bianche di sfumature rosate.
Michael canticchia. Un mormorare distratto, mentre cerca di non bruciare il caffè sul fornello, le parole che gli sfuggono dalle labbra come una preghiera recitata a bassa voce.
Federico lo guarda e neanche ci fa più caso, perché è un vizio dell'altro che ha scoperto soltanto adesso, perché comincia ad abituarsi nel modo sbagliato a quelle ore di silenzio, in cui entrambi dovrebbero essere altrove, e si concentra sul suono flebile della canzone, sulla musica che li avvolge nel loro segreto. Si sente comunque fuori posto, in quell'appartamento vissuto poco, che riesce comunque a raccontare altre vite, altri pomeriggi d'Inverno persi nel calore soffocante di un gesto.
La fotografia di Michael e Andreas è di nuovo appesa al muro, un grumo doloroso che gli artiglia la gola e lo lascia stremato, e il vetro riflette la luce, e la cornice nuova è di un paio di sfumature più chiara della parete. Federico abbassa lo sguardo sul parquet, le unghie che scavano nella pelle dei palmi lunette rosse in rilievo sotto i polpastrelli sudati.
Giulia lo aspetta da quasi due ore.
Canticchia ancora, Michael. La sua voce si alza appena sul ritornello, e Federico è quasi sicuro che abbia fatto un disastro, perché ha insistito per mettere sul fuoco una moka azzurra appena comprata, perché fino ad una settimana fa lui neanche lo beveva l'espresso e l'odore del caffè è così forte da dare la nausea.
“Lo sai,” dice, due tazzine in mano e i capelli ancora umidi per la doccia che gli cadono disordinatamente sulla fronte, “che David Bowie si è ispirato ad una canzone dei Bee Gees per questa?”
Federico alza gli occhi, e Michael gli porge la tazza con un mezzo sorriso. Quando beve il primo sorso si scotta la lingua, e l'amaro che gli rimane in bocca è troppo forte, e lo lascia col sapore di bruciato sulle labbra. “Pensavo fosse ispirata a Odissea nello Spazio. Il film, hai presente?”
Yes, ma il sound è quello di Bee Gees.”
“I primi Bee Gees. Fine anni sessanta. Mica quelli di Stayin Alive.”
Stayin' Alive.”
“E cos'ho detto io?”
Ride, Michael. Ride, e la sua risata si perde in quella di Federico, nel sapore amaro di un caffè orribile che resta incastrato tra i loro sospiri. Chiude gli occhi, Federico, le mani chiuse a pugno in ricci scuri, perso per un attimo nel tutto e nel niente che gli esplode in testa, ed è come se fosse lui ad osservare la sua vita dall'alto senza poter far niente.
Il caffè si fredda sul tavolo.

La testa gli scoppia, il nervosismo brucia in fondo al petto, il calore della rabbia fa tremare le mani e pesa sulla fronte assieme alla stanchezza che si ritrova scavata sotto gli occhi, e mentre la porta antincendio gli sbatte alle spalle le sue mani tremano appena quando si porta l'ultima sigaretta del pacchetto alle labbra troppo bruscamente.
Il caos delle prove generali gli rimbomba in testa, la voragine che gli si apre nello stomaco quando l'ansia sottopelle diventa troppa e mangia anche il respiro appena affannato che gli sfugge dalle labbra, e Federico è costretto a prendere la sigaretta ancora spenta tra le dita e a passarsi una mano sudata sulla fronte, per cercare di calmarsi, perché improvvisamente l'aria è difficile da respirare e l'azzurro terso della mattinata fa male agli occhi.
Il novembre milanese è uno schiaffo sul viso e un brivido attraverso la maglietta. E' l'eco scocciata delle quattro telefonate di sua madre in meno di due ore, è lo sguardo congelato di Giulia che lo aspetta in camerino con le unghie rovinate da morsi nervosi, la sensazione che comincia a mangiargli il petto ogni volta che la guarda e si sente ancora Michael addosso, il suo respiro affannato nelle orecchie e la sua risata che solletica la pelle.
Non si accorge di non essere solo, e soffoca un insulto tra le labbra, perché si rende conto di aver lasciato l'accendino nel backstage e non vuole neanche prendere in considerazione di rientrare in quell'inferno senza essersi calmato prima. Quando una voce famigliare lo riscuote alza la testa di scatto e per poco la sigaretta non gli cade a terra.
“Tutto bene?”
La ragazza bionda lo guarda incuriosita, le sopracciglia aggrottate, le spalle sottili strette in un cappotto troppo grande, una sigaretta fumata a metà in bilico tra indice e medio. Federico sbatte le palpebre un paio di volte, prima di riconoscerla, e quando risponde lo fa con la voce roca che gratta contro il palato e suona falsa anche alle sue orecchie.
“Sì,” si schiarisce la gola “Hai mica da accendere?”
Lei annuisce, i capelli disordinati che ondeggiano intorno al viso, e il sorriso di cortesia che le increspa le labbra non cancella la preoccupazione negli occhi chiari.
“Lo sai che bianco porta sfortuna?”
Lo dice senza pensare, gli occhi fissi sulla punta della sigaretta, parole vuote che rimbalzano tra loro tanto per rompere il silenzio teso che Federico sente sulla pelle, insieme ad uno sguardo insistente. Lei risponde subito, il fumo che le esce dalle labbra in spirali dense che le incorniciano il volto mentre Federico le restituisce l’accendino bianco sporco.
“Non faccio la musicista e non ho ventisette anni. Posso stare tranquilla.”*
Il sorriso che gli nasce sulle labbra non tocca gli occhi, ed è il riflesso di mille conversazioni avute per caso, con la sigaretta in bocca e l'aria troppo fredda per i vestiti che indossa. Il fumo brucia la gola e il mal di testa che preme sotto le tempie comincia ad essere un dolore insistente, e Federico chiude gli occhi un istante, soffia via il fumo con un sospiro.
Almeno è riuscito a calmarsi.
“Comunque sono d'accordo con quello che hai detto prima a Tommassini,” dice lei dopo un istante, e Federico si aspettava soltanto il saluto cortese di una mezza sconosciuta, e le sue parole lo trovano perso nei suoi pensieri. “La scenografia per i Landlord è una merda.”
La cenere cade da sola dalla punta della sigaretta. Federico la guarda mischiarsi con la grana del cemento, prima di prendere un'altra boccata di fumo.
“Mi fa piacere sapere che non sono solo io a pensarlo.”
“Guai a farglielo notare.”
“Non ci lavoro tutti i giorni io. Ma non ti invidio.”
Lei si stringe nelle spalle. “Faccio la fonica. Tommassini lo sopporto il giusto.”
Federico fissa il parcheggio semivuoto, sbircia per un istante l'orologio. Michael è in ritardo di quasi un'ora e mezza.
“Ti piace?” chiede, senza davvero che gli importi.
“Sono diplomata al conservatorio e non tocco il pianoforte da quattro anni. Non è esattamente la strada che mi aspettavo,” getta il mozzicone a terra, e Federico la guarda di sottecchi “ma o hai culo o dopo un po' ti accontenti. E' già tanto se ho un lavoro.”
“Se smetti di provare vuol dire che la strada giusta non era quella.”
“Facile parlare, per uno che ha avuto culo.”
“Non ho avuto paura di provare.”
“Certo. Però quando provi e ti rendi conto che stai mandando la tua vita a puttane per qualcosa che magari neanche durerà, sai, dopo un po' non riesci neanche più a guardarti allo specchio. No?”

Michael arriva in ritardo di quasi tre ore.
Federico lo vede parlare con un tecnico, le mani che gesticolano furiose, la fronte corrucciata e i capelli disordinati. E' quasi irriconoscibile, col viso stanco e le occhiaie nerissime, i gesti nervosi che si interrompono bruscamente quando ad un certo punto alza lo sguardo e si ritrova a fissarlo negli occhi.
Non si abitueranno mai.
“Fede? Hai finito?”
Giulia gli sfiora un braccio, la voce flebile e il suo sguardo scavato, e Federico quasi sobbalza quando si volta di scatto e lo trova fisso nel suo. Michael passa loro accanto e saluta in fretta, e una delle sue mani gli tocca il fianco quasi per caso, e uno sbuffo di profumo costoso resta nell'aria tra lui e Giulia che lo guarda, lo cerca, e trova solo palpebre che sbattono intontite e un silenzio a cui ormai si è abituata ma fa comunque un male cane.
“Sì. Andiamo.”

Alle cinque del mattino l'aria gelida si condensa fra le labbra e ferisce e spacca la bocca, e sulla lingua rimane soltanto il sapore metallico di neanche due ore di sonno e la stanchezza che incurva le spalle e resta sospesa in mezze parole e gesti abbozzati, in carezze che bruciano sulla pelle, in silenzi dolorosi che restano nel cuore e pesano sull'anima.
Un'ora infame dove è facile perdersi, nel buio assoluto che precede l'alba, nel silenzio che si confonde con l'aria gelida e Federico non riesce a capire neanche dove finisce la notte e dove comincia lui, e quindi affonda le mani nelle tasche della giacca, si concentra sull'eco dei passi di Michael al suo fianco, sul suono lieve del suo respiro che è assordante in tutto quel silenzio.
Lui neanche lo sente più, il peso di un'altra notte insonne. Ormai è diventata un'abitudine, aspettare il giorno e convincersi che bastino due tazze di caffè e una sigaretta in più per dimenticare.
In quella luce fioca di una strada qualunque, ai limiti del centro, Milano sembra ancora una città come tante e i semafori lampeggiano a vuoto nei riflessi delle vetrine spente, ed è facile per Federico credere che non esista niente oltre al chiasso dei suoi pensieri, al rumore leggero dei loro passi, alle sensazioni che queste nottate gli lasciano addosso e che svaniscono al mattino, quando torna alla vita vera e non c'è più tempo per perdersi. Risate smorzate, bottiglie di liquore vuote, pelle contro pelle, il sapore di caffè nella bocca di Michael e l'alba che alla fine arriva ogni volta e non possono farci niente.
“Non ero mai stato in questo lato di Milano. E' bello, così.”
La voce di Michael è calma, roca, sporca di sonno e stanchezza. Gli occhi vagano sulla strada e sulle luci fioche, l'ombra di un sorriso che gli increspa le labbra e Federico lo guarda e rabbrividisce appena, perché l'aria è fredda e densa, e un po' toglie il respiro.
“Ci venivo da ragazzino. Sai, c'era un locale qui vicino e a fine serata rimanevamo a fare colazione. C'è questo bar che apre tipo alle quattro, cinque, e il vecchio che lo gestisce ci faceva fumare nella saletta. E' un po' squallido in realtà.”
“Vuoi andare lì?”
“Non ti aspettare niente di che. Ma hai finito il caffè, quindi.”
Ride piano, nel buio e nel silenzio, e Federico lo sente farsi un po' più vicino.
“Però parlavo della calma, di questo silenzio. Come se ci siamo solo noi,” e i loro gomiti si sfiorano mentre camminano e la via è deserta, le finestre buie, e la testa gli si riempie dell'odore famigliare del suo profumo.
Neanche due settimane di vicinanza e già lo conosce, quel modo di avvicinarsi con una delicatezza sfrontata, quel vizio di sfiorarlo per caso e di toccarlo con violenza con gli occhi prima ancora che con le mani.
Ancora Federico non sa come reagire, a certi gesti spontanei che vanno oltre il buio di una stanza vuota, oltre a sussurri rochi soffocanti contro la pelle: perché di giorno Giulia neanche lo guarda più negli occhi, perché, anche se la pelle di Michael è calda contro la sua, proprio non ci riesce a rimanergli accanto, quando del sesso rimane soltanto l'odore sulla pelle e il respiro affannato incastrato nella gola. Federico finge di non vederlo, lo sguardo velato dell'altro, quando parlano ai lati opposti della stanza e sa che la notte appena passata gli rimarrà addosso per giorni, fino al prossimo incontro.
Michael ha un modo tutto suo di dipingersi un personaggio addosso e di fingere senza recitare, il sorriso sulle labbra e gli occhi che proprio non riescono a nascondere niente. Labbra massacrate da morsi nervosi, dita eleganti che tamburellano insistenti un minuto prima di entrare in scena. Piccoli gesti, piccole parole che Federico ha sempre intravisto e che lo colpiscono soltanto ora, perché comincia a conoscere quel suo modo di amare che è tutto un prendere e un volere, senza scuse, senza mezzi termini. Ama come un bambino, Michael. Con prepotenza ed egoismo, con gli occhi pieni di qualcosa che Federico sente rodere nell'anima e che fa male, e allo stesso tempo gli mozza il respiro in gola ogni volta.
Michael che si nasconde in un muro di silenzio, che si stringe a lui con una forza che fa male. Federico gliela sente addosso, la paura, la rabbia, tutti i silenzi in cui si rinchiude e che nasconde negli occhi con un gesto vago della mano. Le sente sulle dita, tutte quelle emozioni, quando gli sfiora la pelle e lo sente tremare sotto di sé, quando lo intravede nel buio cercarlo tra le lenzuola sfatte e tutto quello che riesce a fare è schiarirsi la voce e soffiare via il fumo di una sigaretta che ormai non sa più di niente. Michael non parla di quello che lo consuma dentro, e Federico stringe la presa su di lui come può, nell'unico modo che conosce.
Non lo sa, cosa sta succedendo. Cos'è questa cosa che è nata tra loro, fatta di incontri frenetici, di risate stanche quando emergono dal buio, di pacche sulle spalle e unghie affondate nella carne in un piacere che lascia sempre la bocca amara e la testa leggera. Non lo sa e lo spaventa, e l'aria grigia di Milano è troppo fredda anche con Michael accanto, che si avvicina troppo e non si fa mai toccare.

Il bar è un buco un po' squallido, incastrato tra due palazzi ingrigiti dal tempo e dalla polvere, nascosto nel buio di un vicolo che puzza di spazzatura e fogna. La Milano nascosta ai limiti della periferia, che gratta l'anima ad ogni respiro, e Federico vorrebbe chiedere a Michael se la vede ancora bella quella città, che è solo sogni stanchi e merda attaccata al fondo delle scarpe.
L'orologio appeso alla parete color senape segna quasi le sei, e il vecchio dietro al bancone è lo stesso toscano sboccato di quando Federico era un ragazzino e si ritrovava tra quelle quattro mura con le orecchie che fischiavano, la testa che girava, e i ricordi confusi di un'altra nottata buttata al cesso.
Si rilassa contro lo schienale della sedia, e il sapore del caffè misto a quello della sigaretta appena accesa gli gratta la gola, e si passa una mano sugli occhi mentre Michael ignora il vibrare insistente del suo telefono poggiato sul tavolo di metallo.
“Non rispondi?”
L'altro scuote la testa, si passa una mano fra i capelli. “Tra poco devo andare,” dice soltanto, un'occhiata nervosa al display. Le cinque e cinquantasei minuti.
Federico annuisce, respira via il fumo. Il telefono continua a vibrare, Michael scocciato rifiuta la telefonata e i ricci arruffati gli cadono disordinatamente sulla fronte aggrottata. Lo guarda e sente un nodo allo stomaco, Federico, mentre gli occhi dell'altro si fissano senza troppa delicatezza nei suoi. Sta per dire qualcosa, Michael, lo vede nel modo in cui si morde le labbra e abbassa gli occhi un istante. Ma parla per primo, e la sua voce è roca e trema un po', e finge noncuranza mentre lascia cadere la cenere dalla punta della sigaretta. “Quando torni?”
“Devo fare la ripresa per The Voice fino martedì. Mercoledì mattina torno in Milano,” ed è un sospiro mentre poggia i gomiti sul tavolo e giochicchia col piattino sotto la tazza vuota che ha davanti.
“Va bene.”
Il silenzio che cade tra loro è fatto d'abitudine. E' leggero e non pesa sugli occhi e sul cuore, e Federico spegne la sigaretta nel portacenere e sente le dita di Michael sfiorargli il polso, e sono fredde contro il battito tranquillo del suo cuore. Una carezza impercettibile, un brivido che è il ricordo del mormorare spezzato di qualche ora prima.
“Avevi ragione,” dice dopo un istante Michael, abbassando la voce “non è molto bello questo posto.”
Federico alza gli occhi dal mozzicone, e Michael lo guarda da sotto le ciglia, un mezzo sorriso sulle labbra, le dita che distratte disegnano sul suo polso cerchi concentrici. Ride anche Federico, e il Vecchio comincia ad armeggiare con una vecchia radio in bilico tra bottiglie di liquore e vecchi trofei sportivi. Il grattare dello statico è un rumore fastidioso, ai limiti delle loro coscienze.
“Ma davvero ci venivi da adolesciente?
Federico si stringe nelle spalle, e l'espressione di Michael è a metà tra il divertito e il sinceramente inorridito, mentre arriccia il naso e non smette di guardarlo negli occhi, di toccargli il polso. Sotto il tavolo le loro ginocchia si sfiorano, e sa che non è un caso, e non ritrae la mano. “Cornetto e cappuccino con la botta ancora addosso. Il degrado.”
Torna il silenzio, la radio schiuma fuori un paio di parole confuse mentre il Vecchio si ostina a cercare una frequenza con quella ferraglia scassata, le unghie di Michael grattano appena sulla pelle delicata delle vene in rilievo. E' tornato serio, e inclina appena la testa, e fissa un punto imprecisato sul tavolo.
“Quanto possiamo andare avanti?”
E' quasi flebile, la voce di Michael. Federico per poco non capisce di che cosa stia parlando, ma si morde la guancia un istante dopo e il sapore del sangue sulla lingua non aiuta. L'altro non lo guarda, e le sue dita che lo sfiorano sono improvvisamente troppo. Non risponde, e la tentazione di allontanare la mano è forte, ma le dita dell'altro sono ancora sul suo polso, e sono bollenti, e bruciano contro la pelle.
“Che cazzo ne so ” risponde alla fine, e quello che non dice rimane nello sguardo dell'altro, negli occhi languidi che distoglie dal tavolo e lo osservano per un istante. E Federico sente una fitta di senso di colpa che gli perfora il petto, perché Michael non dice niente ad alta voce e le sue emozioni te le vomita addosso nel tempo di uno sguardo. Forse è quello il momento in cui capiscono entrambi che manderanno tutto a puttane per qualcosa che neanche sanno cos'è, e Federico sente lo stomaco chiudersi e il petto farsi pesante.
Le dita di Michael si stringono intorno al suo polso, il nodo allo stomaco che gli toglie il respiro, la sensazione di un'intimità che non vuole e che è tutta lì, in quella presa delicata, che lo lascia andare dopo neanche un istante.
“Non so se viene anche Andy la prossima settimana,” dice Michael alla fine, una nota indurita nella sua voce.
“Avete...”
Scuote la testa. Lo guarda mordersi le labbra mentre si raddrizza, mentre comincia a gesticolare prima ancora di parlare, e Federico sente tra loro il fantasma di mille frasi lasciate in sospeso, delle vite che continuano a ignorare in notti dove le parole tra loro sono sempre troppo poche.
“I don't want him here,” e Federico l'inglese lo conosce abbastanza per capire, e abbassa gli occhi sulla tazzina vuota, sulla macchia marrone rimasta sul bordo. Lo statico della radio si interrompe bruscamente, il vecchio preme due o tre pulsanti e alla fine mette nella radio una cassetta, e Federico vorrebbe ridere perché non ne vede una da anni e chi è che le usa più, le musicassette, nel duemilaquindici?
Il nodo in gola si fa più stretto. La musica arriva distorta e rovinata, e Federico forse l'ha già sentita, forse la scambia per qualcos'altro. Michael invece la riconosce subito, perché quell'album lo sa quasi a memoria, e canticchia a bassa voce i primi versi senza neanche accorgersene.
Pushing thru the market square, so many mothers sighing. News had just come over...
Il telefono riprende a vibrare insistente.

Le sei e mezzo.
Federico è ancora lì, Ziggy Stardust che in sottofondo fa l'amore col suo ego, la terza sigaretta tra le labbra e il secondo caffè della giornata davanti. Si passa una mano sugli occhi, e il Bar è semivuoto, perché vicino alla periferia nessuno corre come in centro, e c'è sempre qualche minuto di troppo tra un'alba e l'altra, tra un giorno in più e una notte in meno.
“Eh, giovine,” il Vecchio prende le tazze vuote sul tavolo e indica il portacenere, “un ti fanno mi'a bene tutte velle sigarette cor caffè.”
Un sorriso tirato sulle labbra. “Sto smettendo,” e il vecchio inarca un sopracciglio.
Pensare che c'era quasi riuscito.

Lover, I feel your sorrow
Pourin' out of your skin.
I don't wanna be alone
If I end tonight, I'll always be.

So take from me,
what you want, what you need.
Take from me,
whatever you want, whatever you need.
But lover, please stay with me.


 

Note: 
* Secondo una specie di leggenda metropolitana gli accendini bianchi portank sfortuna perché tradizione vuole che diversi membri del "Club 27" avessero in tasca proprio un accendino bianco al momento della morte.

Allora. Ho troppe cose da dire. 
Intanto mi scuso, perchè un aggiornamento dopo un mese è scandaloso, soprattutto adesso che mancano due capitoli. Mi scuso con tutti voi, davvero. Cercherò di essere più puntuale con i prossimi aggiornamenti. 
Prima di parlare della storia in sè vorrei fare delle piccole precisazioni che sento dovute. Spero perdonerete il papiro un po' sconnesso.
Quando ho cominciato a scrivere questo capitolo la prima scena che è nata con spontaneità è stata quella del Bar. Due persone che parlano piano, "The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the spiders from Mars" in sottofondo. Un album che ho molto a cuore, di uno dei miei artisti preferiti. Con la musica di Bowie ci sono cresciuta, e neanche immaginavo che il mattino dopo la fine di un capitolo dove quella stessa musica era stata una grande ispirazione avrei scoperto della sua morte. Per un istante ho pensato di cambiare completamente le canzoni che cito nel capitolo, perché non mi piace l'idea che venga vista come una sorta di paraculata. Ma penso che, nel piccolo di una cosa senza alcuna pretesa come questa, possa essere un piccolo tributo al Duca e alla sua musica.
Le sue canzoni che cito sono tre, e sono tra le più famose. Space Oddity, canzone che può essere interpretata in mille modi diversi. Molti la vedono come una metafora sull'utilizzo delle droghe, ma personalmente ho sempre pensato che parlasse di alienazione. Il distanziarsi così tanto dagli altri da perdersi nella propria mente, la realizzazione cinica che il mondo è orribile e nessuno può farci niente. La canzone che Michael canticchia nel bar è Five Years, la opening track di "The Rise and fall of Ziggy Stardust and the spiders from Mars", parla della fine del mondo, degli ultimi cinque anni concessi al pianeta terra prima della fine, alle reazioni della gente di fronte all'inevitabile. L'ultima è proprio Ziggy Stardust, una delle canzoni di Bowie più conosciute, centrale nella storia che sta alla base del concept dell'album, e che non ha certo bisogno della mia presentazione. 
Niente, tutto questo mi ha reso molto triste. Penso che me ne tornerò ad ascoltare "Blackstar" e la trilogia di Berlino. Magari mi riguardo pure "The man who fell to earth" e "Labyrinth". Tanto per. 
Tornando alla storia e a cose più liete, il titolo del capitolo è rubato ad una canzone di un gruppo venuto fuori da poco e che sinceramente adoro. Lover, please stay  dei Nothing but thieves è una canzone intima e struggente, una di quelle ballad che ti fanno accoppanare la pelle e piangere quando ne hai bisogno (e ve la linko non nella versione che si trova sul loro canale vevo, ma in una un po' più vecchia che ha un che di riservato e casereccio che mi piace un sacco). E' il filone portante su cui si poggia il capitolo. 
Come promesso la citazione all'inizio è ancora di "Di qua dal Paradiso", di Fitzgerald, come quella del capitolo precedente.
Un grazie speciale ad emitea, che ormai più di una beta è la confidente dei miei momenti di blocco. Senza i suoi incoraggiamenti questo capitolo ci avrebbe messo anche più tempo ad arrivare. 
Io, forse, ho finito di annoiarvi. Per ora. 
Un bacio, e alla prossima. 

 
  
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