I. New Shores
Su. Giù. Su.
Giù.
Mi sentivo
sbatacchiata di qua e di là come un pettirosso intrappolato
nella crudele morsa
di un tornado. Cercavo di contrastare quelle forze mostruose, ma era
tutto
inutile: ero troppo debole per lottare contro una simile ondata di
energia, e
quella mi scagliava da tutte le parti per poi riagguantarmi e gettarmi
di
nuovo; ad ogni colpo, stilettate di dolore mi perforavano
l’anima. Ciò che ero
diventata… un’anima, uno spirito senza corpo,
capace di soffrire ma non di difendersi…
ciò che ero diventata mi spaventava. Se avessi avuto una
bocca, avrei gridato,
gridato con forza, fino a consumarmi per l’impeto stesso
delle mie urla; però
non avevo una bocca, e quindi languivo in silenzio, tormentandomi in
muta
agonia.
E poi fu il nulla.
Nulla, semplicemente:
un Nulla freddo e incolore, odioso nella sua facilità.
Nulla…
Infine ebbi un ultimo
flash: un’isola, un’isola coronata da una sottile
tiara di monti e attraversata
da fitte macchie di vegetazione. Un’isola che andava
avvicinandosi rapidamente,
troppo rapidamente…
Certe volte è davvero
fastidioso con tutti quei suoi abracadabra, pensò la giovane
donna scendendo
agilmente dal proprio cavallo, ma il mio
signore è un genio, su questo non ci piove.
Si
guardò diligentemente attorno: il Lido d’Avorio
era splendido, lambito da quel
mare così limpido e con la sabbia che rifulgeva come una
morbida distesa di
fiamma argentea. La nuova anima aveva scelto un gran bel posto per
atterrare.
Allora, dove sei,
caro il mio Obiettivo?
Iniziò
a camminare con circospezione sotto le alte palme che punteggiavano la
spiaggia. Ovunque guardasse, lo scenario, per quanto magnifico, era
sempre lo
stesso: mare, sabbia, palme.
«Giovanni!»
Al
suono del suo nome, il cavallo di Eredin si accostò alla
padrona e le appoggiò
il muso su una spalla.
«Fiuta,
Giovanni» lo incitò lei. «Le anime
appena cadute hanno ancora addosso l’odore
degli oceani cosmici. Avanti, fiuta!»
Il
cavallo allargò le froge e annusò cautamente
l’aria. Attraverso il contatto con
l’animale, Eredin ricevette un turbine di impressioni diverse
– l’odore
salmastro e pungente del mare, la delicata essenza della linfa di
palma, il profumo
dei fiori di pesco portato dal vento – ma niente di
ciò che stava cercando.
Strano…
Eredin
si grattò la nuca, perplessa: che il Superbo, Eccelso,
Ineffabile Merlino
stesse perdendo colpi? Come aveva potuto sbagliare un calcolo tanto
ordinario?
E ora? Eredin accarezzò
distrattamente la guancia vellutata di Giovanni.
«Cosa
possiamo fare, vecchio mio?»
Il
cavallo la guardò con i miti occhi scuri, balenanti di
azzurre scintille
stregate, ed Eredin si decise.
Tornerò da Merlino e
gli chiederò delucidazioni, concluse.
Era
davvero strano, però; possibile che Merlino si fosse
sbagliato? In tanti anni
di noviziato, Eredin non l’aveva mai visto commettere un
errore tanto banale
come sgarrare le coordinate di un’anima.
Eredin
balzò in groppa a Giovanni e ne strinse la criniera setosa;
non usava le
finiture, non con il suo fidato famiglio. Un lieve colpo di tacchi, e
il
cavallo prese ad avanzare lentamente sotto le foglie ombrose delle
palme. Un
altro colpetto, e Giovanni accelerò ad un trotto appena
accennato.
Forse dovrei
prendermi qualche giorno di riposo, meditò Eredin,
ammirando il paesaggio
rigoglioso e sfolgorante attorno a lei. Il
Lido d’Avorio è davvero una favola…
Potrei nuotare o rilassarmi al sole anziché
passare le giornate col naso nei libri.
Sarebbe
stato fantastico distendersi un po’, ma già
immaginava la ferma risposta di
Merlino: «I maghi non battono la fiacca, Eredin, grattarsi la
pancia non
rientra tra i nostri doveri»; e ovviamente avrebbe tirato in
ballo tutti i suoi
sentenziosi proverbi, “l’ozio è il padre
dei vizi” e via dicendo e…
«Ehi!»
Eredin
fermò di colpo Giovanni; laggiù, dietro quella
bassa macchia di tamerici, le
era sembrato di scorgere qualcosa… un riverbero, tipo. La
novizia maga saltò
giù dal cavallo e corse in mezzo alle tamerici: queste, per
quanto rade, erano
sufficienti a nascondere qualcosa di grandi dimensioni, qualcosa come
un corpo
umano…
Eredin
scostò alcuni ciuffi verdognoli, e subito un sorriso astuto
le increspò le
labbra.
«Allora
eri nascosta qui, eh? Ti eri mimetizzata ben bene, direi.»
Si
chinò in avanti e, con forza sorprendente,
afferrò l’anima sotto le ascelle e
la tirò su: il corpo privo di sensi era piccolo e minuto, e
le sue proporzioni,
per quanto armoniose, erano quelle esili di una ragazzina.
Più sono giovani,
più
è facile che vengano attirate a Pangea, pensò Eredin
ricordando le scrupolose
lezioni di Merlino.
Quest’anima
non era proprio una bambina, ma si trattava comunque di un esemplare
molto giovane: poteva
avere forse sedici o diciassette anni. Chiaramente apparteneva alla
stirpe
degli elfi nordici di Feyrial, come testimoniavano la pelle quasi
trasparente, la
vistosa tonalità argentea dei capelli e la logora tunica in
pelle di
berenoceto.
Al
tocco delle mani di Eredin, le palpebre della creatura fremettero e un
brivido
le scosse la spina dorsale.
«Non
preoccuparti» disse la novizia in tono amichevole, tirandola
completamente
fuori dalle tamerici. «Va tutto bene, sei al
sicuro.»
Le
classiche banalità da dire per tranquillizzare
un’anima debuttante. Eredin la
trascinò via dai cespugli e la caricò sul dorso
di Giovanni, poi montò dietro
di lei. Il pungente odore degli oceani cosmici le schiaffò
in faccia una
zaffata, e l’apprendista maga fece una smorfia: non si
sarebbe mai abituata a
quel lezzo alieno e amarognolo, anche se Merlino lo giudicava un
raffinato
profumo.
Bah…
Eredin
arricciò il naso, quindi vinse la propria diffidenza e si
chinò sull’elfa per
assicurarsi che fosse ben assicurata al dorso di Giovanni; infine diede
di
sprone all’animale, e quello s’avviò
verso casa, verso Fea.
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È
la prima fiction originale ke scrivo, per cui un po’ di
comprensione ^-^”