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Autore: eatyourself    12/01/2016    0 recensioni
Yuri è un ragazzo come tanti altri; ha due fratelli, una madre malinconica, un padre disinteressato e distante. Un giorno, la madre decide di andarsene e abbandonarli, e tutto diventa più difficile. All'improvvisa responsabilità di badare a quello che resta della sua famiglia, si aggiungono i sentimenti confusi e tormentati che il protagonista inizia a provare per il suo migliore amico..
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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la casa ticchetta. ticchetto anch'io. insieme agli orologi e il legno e le tarme e le tende tutte sfilacciate. il rubinetto che perde. la mensola che scricchiola sotto il peso di un orologio di qualche secolo fa. tutta la polvere. le ragnatele ovunque. messe di ragni. cerimonie di ciuffi grigi negli angoli. le finestre stridono. il vento implora di entrare. mi implora letteralmente. lo ignoro. l'umidità. le macchie di umido sui muri. le crepe di chissà quale giorno, risalenti a chissà quale terremoto. sta cadendo tutto a pezzi. stiamo cadendo a pezzi. tutti. umani e inanimati. è un bel pensiero. rassicurante. nessuno sopravvivrà alla disfatta. all'ultima guerra, nessuna dichiarazione di pace. nessuna spartizione di stati minori, di famiglie distrutte, di macerie di città. non ci sarà nessuno a raccontarlo. solo qualche sputo di uomini. negli angoli più remoti, nelle isole più sperdute. due donne là, un fratello solitario qua, un vecchio sordo da un'altra parte. sopravvissuti e scarti, scarti di sopravvissuti. che si cercano, continuamente, senza sapere dove andare per trovarsi. chiusi in rancorosi silenzi, odiando la vita che ha risparmiato loro e non figli, genitori, amanti. ma va bene così.
sorseggio la mia tazza di tè nero. bollente. ustionante. la tazza è sbeccata ma è la mia preferita. bianca. con le margherite. sono sempre stato un tipo sentimentale. da qualche parte, dentro di me, si nasconde una ragazzina isterica. è un'ora imprecisata o imprecisa della notte. sto qui ad ascoltare la casa. siamo in città, siamo nel ventunesimo secolo, ma potremmo benissimo essere in una sperduta campagna inglese di fine settecento. può capitare, può capitare, quando i soldi per un appartamento moderno, un appartamento normale, non ci sono più. spariti. senza una ragione in particolare. non ci sono più e basta, fatevene una ragione, andiamo a vivere nella casa dei nonni. quella con vista parco. zona tranquilla. vi piacerà un sacco. di tutto quel fantastico discorso, la cosa che più mi turbava era la parte sottintesa della frase "andremo a vivere a casa dei nonni". la parte sottintesa c'era, ed era appunto "sì, ma senza i nonni". ce la aggiungevo io, ogni volta. era una forma di rispetto. di rispetto e terribile mancanza.
mio nonno è morto quasi quattro anni fa. gli volevo bene. non stava mai fermo un attimo. diceva che doveva tenersi impegnato, sennò si sarebbe trovato incatramato nella poltrona senza nemmeno essersene reso conto. la parola 'incatramato' mi faceva un sacco ridere. lo chiamavo il Nonno Incatramato. rideva anche lui. mi chiamava il suo Nipote Unposcemo, tutto attaccato. Unposcemo perché non sapevo il significato di un sacco di parole. ero un po' ignorante, e lo sono tuttora. allora lui si metteva lì, prendeva il vocabolario. dimmi una lettera, una qualsiasi. ora un'altra, un'altra qualsiasi. e un'altra ancora. perfetto. vediamo cosa è uscito fuori. C-Z-V-...niente. non è venuto fuori niente. e io che cerco pure! devi dirmi qualche vocale. sennò non vale. e io me la prendevo, perché non esistevano parole che iniziavano con tre consonanti. lui mi diceva che in realtà esistono, parole così. come STRANO, SPRUZZO, SFRATTO. ma erano poche e un po' antipatiche. mi raccontava anche un sacco di cose. sulla guerra. la seconda. che era un partigiano, che era andato in Albania. a combattere. che era rimasto insieme ai suoi uomini anche se ferito. gli avevano sparato. aveva ricevuto una medaglia all'onore, una cosa del genere. io lo guardavo con gli occhi sgranati. "chiudi quella bocca", mi diceva. io lo ammiravo. lo ammiro ancora. il solo fatto che non sia più qui non mi esenta dal considerarlo tuttora il mio mito. indiscusso.
e poi c'era la nonna. la nonna è morta due anni fa. un'operazione andata male. o forse, non abbastanza bene. non abbastanza bene, quindi i medici si erano un po' rassegnati. il capononso era andato da mia madre, la solita aria da circostanza, le braccia conserte. guardi, la situazione è questa e questa. non le faremmo un favore, a continuare ad accanirci. forse è solo arrivata l'ora di lasciarla andare. e mia madre aveva detto sì, certo, sono d'accordo anch'io. non avrebbe mai voluto diventare un vegetale, era una donna forte, una donna indipendente. non potrei mai farle una cosa simile. nessuno aveva chiesto il mio parere. non so quale sarebbe stato il mio, di parere. non so cosa avrei detto, a quel dottore alto e allampanato, con i peli che uscivano dalle orecchie e la faccia buona. io non sono generoso. sono uno schifoso egoista. forse gli avrei detto, per favore ci provi, a salvare mia nonna. non importa se diventerà come una piantina da salotto. senza parlare, a guardare il vuoto, a sbavare sul bavaglino. mi prenderò cura io di lei. la amerò lo stesso. potrò dirle un'altra volta un po' di cose che non le ho ancora detto. ci sentivamo sempre, ma non le avevo detto ancora tutto. forse, non abbastanza. sarebbe stato importante ripetermi, fino allo sfinimento. volevo lasciare un segno. non ero pronto, per una cosa del genere. nel modo più assoluto.
solo tre giorni prima, tre, ero andato a trovarla. lei parlava normalmente, sorrideva, eravamo andati nel bar della casa di cura. io avevo preso le patatine. era un bar triste. pieno di persone tristi. con i golf color pastello, tosse, il freddo rimasto appiccicato alle giacche dei visitatori, le flebo che se ne andavano in giro. le brioche appassite dietro i vetri, i panini larghi e sfatti come in un autogrill, montagne di merendine e barrette di cioccolato. pochi gelati. il cornetto, il cremino, la coppa del nonno. la signora alla cassa con un'espressione pensosa e assente. i capelli corti e il naso alla Chiellini. non mi aveva nemmeno guardato negli occhi, quando ero andato lì con il mio sacchetto di patatine. potevo rubarlo, che non sarebbe successo nulla. che vita deprimente, a essere relegati in quel posto di vecchiaia e stanchezza e morte per sfinimento. non avrebbe dovuto stravolgere nessuna abitudine, quando anche lei sarebbe diventata da ricovero. al suo posto avrebbero preso un'altra più giovane e magari più allegra. lei si sarebbe ridotta a spingere la sua carrozzina con mani fragili e stanche per tutto il corridoio. entrare dentro il bar, salutare qualcuno, far finta di avere ancora quarant'anni, far finta che alle sette poteva tornare a casa dalla sua famiglia. poi ero tornato al tavolo. con i miei genitori e la nonna. lei mi aveva detto, io qui non ci voglio più stare. ci impazzisco. mi sembra di diventar scema. voglio tornare a casa. ma non con un tono lamentoso, un tono di polemica. era tranquilla. a quelle parole, mi ero subito offerto. nonna, ci vengo io con te. ti aiuto io. ti faccio la spesa tutti i giorni, apparecchio, faccio le lavatrici, ti ricordo le medicine. faccio tutto io. ci guardiamo i telefilm, "Forum" a pranzo e "Chi l'ha visto" al mercoledì sera. ci sbucciamo i mandarini e diamo da bere alle piante sul terrazzo. mi ricorderò di spegnere tutte le luci, di spegnere la calderina, di piegare bene la roba stirata. ci faremo un sacco di risate. come una volta. mi sei mancata un sacco. lo sai. i miei genitori si guardavano, al di sopra dei bicchieri enormi di Coca-cola, ancora mezzi pieni. un'occhiata tenera e rassegnata, ci leggevo distintamente un po' di compassione nei miei confronti. povero, poverino, che ci crede pure. la nonna non ci metterà più piede, in casa sua. ma facciamo finta di sì. e allora a dirmi che si poteva fare, una cosa del genere. bastava organizzarsi un attimo. si poteva fare. li avrei uccisi tutti e due. erano loro, gli illusi. loro, i poverini. io la nonna ce l'avrei riportata, a casa. saremmo stati benissimo. non la vedevo male. era un po' magrina, un po' fragile. ma ci sarei stato io, non avrebbe dovuto muovere un dito. mi faceva stare in pace, pensarla a casa sua. sarebbe stata un po' ghiacciata, all'inizio. un po' ostile. avrebbero dovuto abituarsi entrambe a quel lieto e insperato nuovo incontro.
al suo piano un gruppo di non so chi cantava canzoni genovesi. i vecchietti ascoltavano contenti. muovevano il piede a ritmo, abbozzavano qualche parola. le parole della loro infanzia, della loro giovinezza. impossibile da non ricordare. che poi, magari erano le stesse persone che non riconoscevano i parenti quando arrivavano in visita la domenica pomeriggio. siamo tornati in camera, ci siamo detti ancora qualche scemenza. mi ricordo le pareti arancioni, la vista bella, il letto affianco vuoto. c'è una signora simpatica, un po' sorda, non parla molto, ma non dà fastidio. meno male, ho risposto io. ci siamo salutati, ciao nonna, ti voglio bene, ti chiamo tra non tanto. ho seguito i miei in corridoio. per andare via. già nella testa le ragioni della mia guerra, ecco i cento motivi per riportare subito la nonna a casa. poi, non so. qualcosa, qualcuno, mi ha detto "torna indietro". altre volte mi era capitato. di voler tornare indietro. ma non l'avevo fatto. tanto, ci sarebbe stato tempo. non facciamo le ragazzine isteriche. quella volta no. sono tornato indietro. l'ho abbracciata di nuovo. la sua espressione contenta di rivedermi così presto. ciao nonna, ti chiamo. l'ultima immagine che ho: lei, al centro di quella stanza arancione, sulla sedia a rotelle, magra e sorridente. ciao nonna. non l'ho rivista mai più. tre giorni dopo, solo tre, dopo una serata orrenda e troppo lunga a un festival inutile, un biglietto sulla tavola della colazione. mi ero alzato a mezzogiorno, era tardissimo, avevo mal di testa, c'era il sole. "la nonna se n'è andata, non ha sofferto, in frigo c'è da mangiare per tutti, vi chiamiamo...". è stato in quel momento che il mio mondo ha smesso[lc1]  di girare. mi sono sentito d'un tratto vuoto. svuotato. tutto era concentrato in quei pochi centimetri quadrati, giallo fosforescente. nient'altro esisteva più. non è possibile. non è possibile. io ci ho parlato ieri mattina. cosa state dicendo. per favore, dai. facciamo i seri. dai. qualcuno mi dica di no. il giorno prima ero andato a comprarmi una felpa nuova. avevo buttato via una serata su spiagge lunghissime, in mezzo a gente stupida, a coppie che si riunivano dopo lunghi viaggi, a bicchieri di plastica pieni di alcolici annacquati. senza sapere, senza saperlo, che non c'era più niente per cui valeva la pena continuare a camminare e fare lo scemo.
furono tempi bui, quelli che seguirono.

   
 
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