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Autore: VV_23    13/01/2016    7 recensioni
"Aveva parlato al plurale. Aveva sottinteso un noi. Un minuto prima ero sola, apatica, pronta ad accogliere la morte in ogni istante. Lui, con una semplice parola, aveva reso di nuovo possibile ipotizzare di riaccogliere la vita"
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Paint'
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Noi VIII

               Capitolo VIII


Dopo quel giorno, tutto torna come prima. La nostra convivenza riprende da dove l'avevamo lasciata: svegliarsi col profumo di pane e cioccolata, andare a caccia, lavorare insieme alla panetteria, cenare con Haymitch e Sae, condividere il letto. Il contatto fisico tra noi due si limita a quei piccoli accenni che rendono possibile a entrambi passare una giornata piacevole e affrontare in tutta sicurezza il vivere insieme; solo la notte ci concediamo un abbraccio più stretto, l'unico modo che conosciamo per affrontare le nostre paure e riuscire a dormire. Tutto però si svolge con una grande tranquillità, senza particolare trasporto, in una routine che né io né lui siamo intenzionati a interrompere. Nessuno dei due tenta più un approccio diretto come quello della panetteria, e finiamo quasi col dimenticare quello che è successo.

Mentre mi racconto questa storiella, tentando di convincermi che corrisponda alla reale situazione, una voce prepotente e veritiera irrompe nella mia mente interrompendo ogni altro pensiero.
Bugiarda.
La verità è ben diversa da quella che invento con stessa. Dopo quel giorno, niente è come prima. La nostra convivenza si fa più difficile, perché viene a mancare quella naturalezza e quella semplicità con cui l'avevamo vissuta fino a quel momento. Il contatto fisico tra noi due si riduce sempre un po' di più – scompare il bacio del buongiorno, quello che mi dava prima di alzarsi e che io percepivo appena nel dormiveglia del mattino; scompare il gentile tocco di benvenuto che mi donava al mio arrivo in panetteria; scompare il galante gesto di aiutarmi a infilare e sfilare la giacca, quando mi sfiorava quasi per caso le spalle – al punto da divenire pressoché assente; fa esclusione solo la notte, quando le sue braccia diventano l'unico rifugio possibile dai miei incubi: nemmeno la sera che è successo sono riuscita a stare lontana dal suo abbraccio, troppo spaventata da quello che avrei trovato nel mio sonno se lo avessi affrontato da sola; Peeta, generoso come sempre, non mi ha negato il suo conforto, e questa è forse l'unica cosa che realmente non è cambiata. Ma capisco di esser cambiata io nel profondo, perché sento che il mio corpo reagisce in modo diverso al contatto col suo: da quel giorno, nel momento in cui le sue mani si posano sulle mie spalle, brividi simili a scosse elettriche, dolorose e piacevoli al tempo stesso, mi attraversano il corpo. Inoltre, sviluppo una sorta di dipendenza dalla sua presenza, al punto che mi sembra quasi di non riuscire a respirare quando lui non è con me; il mio sguardo sembra seguirlo dappertutto: inizio a notare particolari di lui – del suo modo di muoversi, delle sue abitudini – che mi erano sconosciuti, e accresco quel bagaglio di informazioni sul ragazzo del pane che avevo iniziato a creare, inconsciamente, fin da quando eravamo ragazzini. Passiamo poco tempo insieme da soli: cerchiamo sempre di essere attorniati da altre persone, e la verità è troppo palese per essere ignorata. Perché non è vero che ci siamo dimenticati cosa è successo. Del resto, sarebbe impossibile farlo: la panetteria è ancora pregna dell'odore di tinta fresca – quella che si mescolava al profumo della sua pelle, quel giorno – il suo abbraccio protettivo sotto le coperte mi rende troppo familiare il suo calore – quello che si diramava dalla sua mano posata sulla mia schiena e che dalle labbra scendeva fino al cuore – e il suo respiro regolare di quando dorme s'infrange ogni notte contro il mio viso – come si era incontrato a metà strada col mio, per poi perdersi sulle mie labbra.
Le parole false che mi ripeto in ogni momento non sono altro che finestre chiuse sul mio cuore. Pur di rifiutare un'analisi più approfondita dei miei sentimenti, arrivo a dirmi la bugia più grossa di tutte, cioè che quel bacio tanto carico di desiderio fosse solo un'esplosione di ormoni di due ragazzi che per troppo tempo non hanno potuto godere della compagnia di qualcuno. Ma questa tesi è talmente ipocrita e vigliacca da costringermi ad ammettere, almeno a me stessa, la mia totale incapacità di affrontare i miei dissidi interiori. So che la reale risposta a tutti i miei dubbi è lì, che chiede solo di essere accolta, ma è troppo dura da accettare, perché le complicazioni sarebbero dietro l'angolo – e le imposte, ancora una volta, restano saldamente chiuse.
La tensione tra di noi è quasi palpabile, ed è una tensione ben diversa da quella elettricità che c'era prima e che ci spingeva l'uno verso l'altra: questa non fa che risvegliare in me ogni senso di colpa, tenendomi a distanza da lui. È come se ci fosse un recinto elettrificato che ci avvolge, mi sembra quasi di sentirne il ronzio. E quando lui mi guarda con quei suoi profondi occhi azzurri – che hanno il potere di attraversare quel recinto e di superare qualsiasi lontananza fisica io metta tra di noi – mi ritrovo per un attimo in apnea, sopraffatta dall'intensità del suo sguardo. Perché Peeta non è vigliacco come me, Peeta non è bugiardo. Lui ha accolto i suoi sentimenti, li ha accettati, e me li palesa tutti attraverso i suoi occhi brucianti di passione. Ha deciso di non nasconderli – di non nascondersi – di essere limpido, e di non risparmiarmi niente di quello che prova. Mi viene quasi da ridere se penso che, del resto, gli ho chiesto io di condividere con me ciò che tiene dentro; ma di certo non avevo preso in considerazione questo.

Poi, una notte, succede. Mi sveglio di soprassalto, con ancora i postumi di un incubo terribile che mi scuotono e mi fanno urlare e piangere. Peeta si sveglia e mi stringe forte, cullandomi, parlandomi dolcemente con voce impastata dal sonno interrotto. Mi accarezza i capelli con movimenti lenti e pacati, raccoglie le mie lacrime con le sue labbra, e poi mi bacia sulla bocca. È così diverso da ogni bacio che ci siamo mai scambiati: ci sono stati quelli per le telecamere, appiccicaticci come il rossetto che ero costretta a indossare; ci sono stati quelli disperati, caldi di febbre o tremanti di spavento; ci sono stati quelli passionali e istintivi, freschi di salsedine o profumati di pittura. Questo è un bacio dolcissimo, tranquillizzante, pacificatore, che ha il sapore salato delle lacrime che ho appena smesso di versare. Nel momento in cui le sue labbra sono sulle mie, è come aver recuperato un pezzo mancante del puzzle – è come sentirsi un po' di più a casa. Si separa da me, lasciandomi addosso ancora il suo sapore, e mi guarda con occhi ora più svegli, come se si fosse accorto solo adesso di quello che ha fatto. Sembra vagliare per un secondo la situazione, poi sorride debolmente.
“Non piangi più...” sussurra, le parole ovattate nel buio della stanza. Mi sento quasi in trance, mentre scuoto piano la testa. Sorride appena di più, gli occhi lucidi di sonno e di emozione, e mi abbraccia forte, mentre io mi rintano sul suo petto. Un altro pezzo del puzzle. Sentirsi ancora di più a casa.
La mattina, dopo alcune ore di sonno profondissimo, mi sveglio prima del solito; sento il rumore delle padelle che arriva dalla cucina, e, quando scendo, Peeta sta ancora preparando la colazione. Generalmente guardarlo cucinare mi mette addosso una grande serenità, ma stamattina sento come un tremito continuo che mi attraversa le membra. Forse sono le sue spalle larghe, messe in evidenza dalla t-shirt nera; forse sono i suoi capelli biondi spettinati; forse è il movimento armonioso delle sue mani. O forse sono io che, senza un motivo particolare, lo vedo più bello che mai. Quando si accorge della mia presenza, mi guarda e sorride, facendomi arrossire immediatamente.
“Buongiorno, Katniss” mi saluta gentilmente, e io abbasso lo sguardo mormorando un “'Giorno” quasi impercettibile. Noto che lui stringe un po' più forte il coltello con cui sta tagliando il pane, ma dura un attimo, prima che riprenda col suo lavoro. Senza dire una parola, apparecchio il bancone per la colazione e tento di riordinare il subbuglio che dimora nella mia testa, finché, all'improvviso, non sento più lo sbattere meccanico del coltello sul tagliere. Giro la testa nella sua direzione e vedo che Peeta ora stringe convulsamente le mani attorno al bordo del tavolo: le nocche sono bianche, come il suo viso, e lo sguardo è perso nel suo mondo di mezze verità e ricordi modificati. Guarda con apprensione il coltello, che nella sua mente deve essere diventato un'arma pericolosissima, e io mi volto verso di lui, muovendomi cauta.
“Peeta...” lo chiamo, tentando di mantenere la voce ferma e al tempo stesso confortante. Vedo le sue spalle irrigidirsi, e poi, finalmente, mi guarda. I suoi occhi sono velati di preoccupazione, ma non sono neri come temevo.
“Noi ci siamo baciati. Due volte. Vero o falso?” mi chiede, la voce incerta. Cerco di non arrossire, ma non posso impedirmi di deglutire ansiosa. Posso mentire a me stessa, nascondermi nei miei armadi fittizi, ma non posso mentire a Peeta. Gli devo la verità.
“Vero” mormoro, con voce roca. Lui mi guarda, ancora confuso, e so che la verità, stavolta, ha bisogno di più voce. “Vero” ripeto, con maggiore convinzione. Stringe più forte il bordo del bancone, come se la mia risposta non gli fosse piaciuta, e mi sento vacillare.
“Ed è reale?” mi chiede piano. Sul momento non afferro appieno la sua domanda – gliel'ho appena detto, che è successo davvero – e aggrotto involontariamente la fronte; un tremito gli attraversa il volto, che ora sembra spaventato. Spaventato da me, da quello che potrei dire. Pessima mossa, mi dico, recuperando un'espressione tranquilla.
“Che cosa, Peeta?” gli domando, con voce conciliante. Nel suo sguardo c'è tutto: terrore, tensione, dolore; eppure, mi sembra anche di scorgere una scintilla di speranza che tenta di venire fuori, che cerca un modo per alimentarsi e diventare fiamma.
Noi” chiede in un sussurro.
Nel giro di qualche frazione di secondo, capisco alcune cose importanti. Capisco cosa gli sta passando per la mente, che deve aver avvertito quanto quello che ci sta succedendo mi confonda, e capisco quali sono i ricordi che sta rivivendo – quelli che non hanno avuto bisogno di alcuna modifica, per risultare terrificanti agli occhi di una persona innamorata: mi torna in mente la messinscena per il pubblico insaziabile di Capitol City, i baci sprecati per avere del cibo, le parole impegnative buttate al vento solo per ottenere qualcosa in cambio; mi tornano in mente i suoi occhi pieni di gioia e amore, mentre io morivo dentro nel realizzare che, a recitare, ero solo io; mi torna in mente lui che, ferito, mi lascia la mano quando gli dico che sono confusa, per poi riprenderla a esclusivo beneficio delle telecamere. Mi torna in mente quando tutto succedeva, senza essere reale. Gli ho dato così tanti motivi per dubitare di me e dei miei sentimenti, e adesso – evitando i suoi occhi e le sue mani, eppure cercando il conforto delle sue braccia per dormire, egoista e opportunista come sono sempre stata – non mi sto comportando molto meglio di allora.
La seconda cosa che capisco è che tra noi non saranno mai grandi discorsi, non saranno mai giri di parole: saranno frasi, domande, liste, silenzi. Come vivere insieme senza quasi deciderlo davvero, come i cassetti svuotati e l'abbraccio privo di parole che ne è seguito. Saranno i fatti a cementare il nostro rapporto. Devo agire subito, o rischierò di perderlo – e se perdo lui, ora, perdo me stessa. È per questo motivo che mi stacco dal lavandino e mi avvicino a lui, senza mai lasciar andare il contatto con i suoi occhi. Prima ancora che abbia il tempo di avere paura o ripensamenti,  lo dico.
“Lo è. È reale”.
E nel momento in cui la mia risposta si perde nell'aria, nel momento in cui libero le mie parole, libero anche il mio cuore. È l'ultima conferma che do a me stessa. Perché il bacio di stanotte – umido e salato di lacrime, eppure così piacevole, così familiare, con quel sapore di casa – mi ha fatto finalmente capire che io voglio Peeta. Non voglio solo le sue braccia per confortarmi. Voglio ritrovare quella naturalezza che aveva caratterizzato le nostre prime settimane insieme. Voglio la quotidianità che non è noiosa routine, ma che rende ogni giorno splendido nella sua semplicità. Voglio che il calore della notte non si disperda con le luci del mattino, ma che avvolga le nostre giornate. Voglio sedermi accanto a lui sul divano e posare i piedi sulle sue gambe come avevo fatto all'intervista dopo la nostra vittoria, ma non come avevo fatto all'intervista, perché d'ora in poi sarà spontaneo e sincero; e voglio la sua fronte posata sulla mia tempia, esattamente come aveva fatto all'intervista, perché lui era vero già allora, anche se in quel momento avevo pensato che il suo fosse un gesto finto come il mio. Voglio poter guardare Peeta nel modo in cui mia madre guardava mio padre, e poter accettare i suoi sguardi senza sentirmi in colpa per quello che provo. E voglio che tutto questo si evolva in emozioni nuove, baci finalmente veri, sentimenti sinceri che ci facciano crescere insieme e andare avanti nonostante la bruttura del nostro passato, gli ostacoli del nostro presente, le incognite del nostro futuro. Abbiamo legato inconsapevolmente le nostre vite tempo fa, con quel pane bruciato lanciato sotto la pioggia, e dato vita a un legame fino a quel momento sopito con una stretta di mano sul palco della Mietitura; siamo passati attraverso l'inferno, l'oblio più nero, la perdita di noi stessi, e siamo riusciti a ritrovarci. Quando poi lui è tornato, abbiamo sì deciso di affrontare il resto delle nostre vite insieme, ma l'abbiamo fatto come se fosse una sorta di contratto, un patto di sopravvivenza; per sentirci più “al sicuro” abbiamo cercato di ammansire quella parte più istintiva di noi, più corporale, finché è esplosa in un nuovo primo bacio. Il modo in cui Peeta risveglia i miei sensi, il mio corpo, i miei desideri – il suo farmi sentire bambina e adolescente e donna tutte insieme – mi spingono in una direzione completamente diversa, una direzione in cui rischiamo il tutto per tutto e stiamo insieme come mai prima d'ora. Perché la verità è che non è giusto rifiutare quella parte di noi. Non è giusto rifiutare quello che ci smania dentro. Sarebbe come rifiutare la vita stessa – sarebbe come sopravvivere, ma non vivere. E spalanco quelle imposte per fare entrare aria fresca e pulita, la stessa che invase lo studio dopo il suo ritorno, la stessa che ora accompagna le nostre notti. È come una rivelazione, un segreto stuzzicante che non si può più tenere per sé e che che si vuole condividere con qualcuno. Voglio che lui sappia, come io ho saputo, attraverso i suoi sguardi carichi di sentimenti.
Gli prendo le mani e lentamente le sciolgo dalla loro morsa; una resta lì, con le dita saldamente intrecciate alle sue, mentre l'altra risale il suo braccio, fino alla spalla, alla nuca, per perdersi poi tra i suoi ricci biondi. Unisco le nostre fronti, lui chiude gli occhi, e rilascia un sospiro che è liberatorio e ansioso insieme.
“Ti prego” mormora “ti prego, non illudermi di nuovo. Se devi andare via da me, fallo ora”.
Un nodo alla gola, il peso delle mie colpe, la consapevolezza che nel suo mondo distorto io non gli voglio nemmeno un po' di bene, non nutro nemmeno rispetto per i suoi sentimenti. Ho così tanto per cui fare ammenda.
“Peeta” lo chiamo “guardami”.
Siamo di nuovo durante la rivolta, nel bel mezzo della sua crisi, quando ho giocato l'ultima rischiosissima carta e l'ho baciato con disperazione, per chiedergli di non farsi portare via da me.
Resta con me. Sempre.
Quando li riapre, i suoi occhi sono lucidi.
“Resto con te. Sempre”. Per davvero.
Lo attiro a me e, per la prima volta dopo mesi, lo bacio io per prima, mettendoci tutto quello che provo per lui, facendo sì che sia reale, che non possa esserci alcun dubbio. E dopo, c'è una gran quantità di baci. Non sembravano molto sinceri da parte tua. Gli passo le braccia attorno al collo e lo stringo forte, quasi come volessi diventare una cosa sola con lui, spingendolo fino al bancone della cucina a cui tanto strenuamente si era aggrappato. Le sue braccia mi circondano, e quasi mi sollevano da terra quando, con foga sempre maggiore, le nostre lingue si cercano e il nostro bacio assume mille sfumature diverse. Se possibile, è ancora più intenso di quello mosso dal desiderio che ci siamo scambiati in panetteria, perché questo bacio ha qualcosa in più: è un bacio di conferma, un bacio di appartenenza, un bacio di possesso. È il bacio che risponde alla sua domanda: urla che ora siamo un noi.
Quando ci separiamo, siamo entrambi leggermente ansimanti, e immagino che le mie guance risultino arrossate come le sue. I suoi occhi sono azzurri e profondi quando mi guarda.
“Katniss...” soffia fuori, e il suo alito sulle mie labbra mi fa desiderare di baciarlo ancora. “Katniss, ora non c'è proprio possibilità che ti lasci andare via”.
Lo guardo e sorrido a cuor leggero.
“Lo spero” gli rispondo soltanto, cercando di smorzare la tensione. I suoi occhi sono finalmente limpidi quando mi sorride, accarezzandomi le braccia in un gesto che dovrebbe essere innocente, ma che mi fa comunque rabbrividire.
“Colazione?” mi chiede con voce morbida, e la sua semplice proposta suona come un invito a qualcosa di proibito alle mie orecchie estasiate da questa nuova vicinanza. “Anche se temo che oggi sarà un po' scarsa...”. Spegne il fuoco e prende la padella, che rilascia un odore non proprio invitante di cui mi rendo conto solo ora – ora che ci siamo separati e che il profumo della sua pelle non obnubila più i miei sensi; il contenuto della padella è ormai completamente bruciato, e noi ci ritroviamo a ridere a cuor leggero di questo piccolo incidente domestico in un modo che sembra tutto nuovo, tutto nostro.
E seduti a quel bancone, con davanti niente più che una tazza di tè e un po' di pane,  ritornano gli sguardi complici e i sorrisi sinceri; ritornano i tocchi leggeri delle dita che si sfiorano, i gesti gentili della sedia spostata per farmi accomodare e dello zucchero versato e mescolato nella mia tazza di tè. È la colazione più buona della mia vita, anche senza focaccine al formaggio né cioccolata, perché il sapore fresco e dolce della verità è il più soddisfacente che io conosca.

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Ed eccoci con l'ottavo capitolo! :3 tengo molto a questo chap per quello di cui tratta e per come si è evoluto: è nato come un paragrafo piccino piccino, ed è stato molto interessante svilupparlo fino a questo punto, anche se ho sempre la sensazione di non esser riuscita a dire tutto quello che volevo o a essere completamente esaustiva...insomma, spero che voi possiate smentirmi e soprattutto che vi piaccia! :)
Ancora mille volte GRAZIE per ogni lettura, per ogni seguite/ricordate/preferite e per ogni recensione!!! Ne sono davvero felice e super grata!!!
VV**
  
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