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Autore: feffyna22    14/01/2016    5 recensioni
WHAT IF - Katniss vive nel distretto 12 insieme alla sorella e alla mamma. E' molto amata da Haymitch, che è la figura paterna di cui sentiva la mancanza dopo la morte del padre. Verrà estratta per partecipare agli Hunger Games insieme al suo amico Gale, lasciando dietro di sé sentimenti nuovi, che aveva appena iniziato a nutrire verso Peeta, un suo compagno di classe.
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gale Hawthorne, Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Black Pearl'
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CAPITOLO 7 - L'arena



L’ascensore sale, provo a mettermi in piedi, sono sconvolta. Barcollo, potrei morire subito anche senza avere assunto alcun veleno.
 
Siamo tutti in cerchio, Gale è al polo opposto, riesco a riconoscerne solo il contorno.
Mi guardo intorno ma sono completamente disorientata, mi accorgo che molti di noi lo sono. Hanno fatto le cose in grande quest’anno.
Nessun bosco, nessuna campagna, nessun luogo esotico.
Siamo al chiuso, sarà l’edizione più cruenta nella storia degli Hunger Games.
Riconosco un Hovercraft un poco lateralmente a noi e mi rendo conto che quello è la nostra Cornucopia e che noi ci ritroviamo in un hangar. Cerco le uscite, ci sono 10 pesanti porte di metallo, ma non sono sicura che siano tutte aperte. E soprattutto non ho la più pallida idea di dove conducano.
In più, 5 di queste porte possono essere raggiunte solo attraverso delle scale, chiunque le salirà sarà totalmente esposto alla furia dei favoriti.
Al di sotto dell’hovercraft ci sono molte armi che, via via che ci si allontana dall’aereo, sono sempre meno imponenti e mortali, fino ad arrivare a semplici zainetti e a buste da lettera che giacciono a pochi metri da ogni tributo.
Non mi è chiaro il ruolo dell’hovercraft in tutto questo, il mio primo pensiero è che sia una via di fuga, ma comprendo subito che è un’idea stupida, nessuno può abbandonare l’arena prima della fine dei giochi. E’ la regola.

Il countdown parte, sento di trovarmi nel mezzo di qualcosa di molto più grande di me. Vorrei avere la certezza di fare la cosa giusta. Abbandonarmi al sacrificio di Cinna è per me molto più facile, in fondo potrei mentirmi e dirmi che ha scelto lui. Eppure sono ancora in tempo, potrei suicidarmi senza alcun motivo apparente e finirla qui.
“Ci uccidono lo stesso, Kat”. Le parole di Cinna risuonano chiaramente nella mia testa.
 
No –non sprecare il sacrificio di Cinna.
Salvati, elevati, combatti per Katniss.
 
Tre
Due
Uno
 
-Evita la cornucopia, acqua-
Il ragazzo dell’11 prende al volo una delle buste, uno zaino ed un coltello, corre verso le scale: nel 10 raccolgono la frutta sugli alberi, si arrampica ed in poco tempo è già sparito dietro una delle porte. Provo a fissare nella mia testa da dove è uscito, se non dovessero essere tutte aperte, mi servirà saperlo.
Cerco Gale, scatto verso la porta sulla destra ma un calcio sul fianco mi fa rotolare sul pavimento gelido. Non avverto alcun dolore, sarà l’adrenalina. Con la gamba faccio cadere per terra la ragazza che mi ha colpito di non so quale distretto, striscio fino ad uno degli zaini, ma lei ripiomba con rabbia su di me, sarà uno dei favoriti e ha già una spada in mano. Provo di nuovo a svincolarmi da lei, mi slancio in avanti e afferro uno dei coltelli più piccoli.
Vorrei urlarle di fermarsi, che non ho intenzione di ucciderla, che non deve morire lì. Vorrei dirle di combattere, ma non contro di me.
Io non ti voglio uccidere, ma devo difendermi. Lo devo a me stessa.
Sento che si sta lanciando su di me, mi giro e le pianto la lama nell’addome mentre la sua spada mi si conficca nella treccia.
Restiamo tutte e due per qualche secondo a bocca aperta. Sono un mostro.
Strappo i capelli dalla spada, metà della mia treccia resta puntata lì per terra. Mi alzo e mi guardo intorno, provo a cercare Gale –non posso stare ferma-, a qualche metro da me vedo i favoriti avventarsi sui tributi più giovani ed ingenui. Istintivamente, inizio a correre verso una delle porte.
Sento una mano sulla spalla, mi giro con ferocia e paura e punto il coltello ad un centimetro dal naso di Gale.
E’ sporco di sangue.
“Sei ferito? Corri!”, provo a trascinarlo via ma lui resiste.
“Kat, aspetta”.
Aspetta? Aspettare cosa? Noto una mannaia nella sua mano ricoperta di sangue. Probabilmente, non è suo. Probabilmente, non lo è nemmeno quello sui suoi vestiti.
“Alleanza”, mi dice indicando i favoriti. “Ho detto che voglio anche te e hanno accettato”.
Non ho sentito una parola, fisso le mani di Gale, rosse di morte.
“Non sono pronta”, dico terrorizzata.
“Andiamo, non possiamo stare qui in mezzo”, mi dice rigido e con fare rassicurante, quasi senza ascoltarmi. Ma il sangue è ovunque, anche sul suo viso.
Mentre lui si gira per raggiungere i favoriti, io mi getto su una delle buste lì per terra, corro verso una porta: è aperta.
 
Sto correndo da diversi minuti e non ho più fiato.
Questi corridoi sono tutti uguali e sembrano non finire mai.
Ogni metro e mezzo un faretto sul soffitto illumina la moquette blu. Attendo il momento in cui sarò nuovamente accecata dalla  luce del sole e tremo all’idea di non rivederla. Per quel che ne so potrei essere già morta, correre all’infinito per questi cunicoli potrebbe essere il mio personalissimo inferno.
E invece, senza alcun preavviso, il corridoio si apre in un locale immenso, sulla destra il muro è sostituito da vetrate che si affacciano sulle piste d’atterraggio.
Sono in un fottuto aeroporto!
Non ne ho mai visto uno, nemmeno in tv. Viaggiare in aereo dopo i Giorni Bui è concesso ai capitolini e unicamente per raggiungere mete oltreoceano, ma i viaggi sono così costosi che non è un lusso concesso a tutti.
Gli abitanti di Capitol saranno entusiasti dell’arena, gli altri distretti ne saranno terrorizzati: forse per la prima volta nella storia degli hunger games si avvertirà nelle piazze la stessa tensione che provo io adesso, circondata da una realtà che non conosco.
Mi avvicino al vetro della finestra più vicina e comprendo che uscire da qui sarà impossibile: fuori imperversa una bufera, la neve cade così fitta che nessuno potrebbe sopravvivere lì fuori senza venire sepolto in meno di un minuto.
 
Riconosco i metal detector, sono gli stessi attraverso cui ci fanno passare quando dobbiamo riscuotere le razioni di cibo dopo esserci iscritti ai giochi.  
Li eludo facilmente. Non ho la più pallida idea di dove andare. Un rumore dal soffitto attira il mio sguardo. E’ una telecamera, segue i miei movimenti. Immagino i capitolini prenotare già da ora le visite guidate dell’arena, per quando i giochi saranno ormai conclusi. Istintivamente, regalo al pubblico un dignitoso dito medio e ricomincio a camminare.
Altri corridoi, questi molto più illuminati dei precedenti. La moquette lascia il posto ad un pregiato marmo color avorio.

La cornucopia dev’essere lontana, perché non sento alcun rumore già da molto tempo, ma continuo a non sentirmi tranquilla e se trovassi qui in mezzo un nascondiglio sarebbe per pura fortuna.
Alcune barriere girevoli mi separano da androni costeggiati da vetrine, tutte vicine le une alle altre.
Non ci sono finestre, ma questo particolare penso che non si colga facilmente: tutto sembra eccessivamente curato, come a voler distogliere lo spettatore occasionale dall’assenza di qualsiasi cosa di autentico. Ma io, che ricercavo il fuori e la luce da quando ho messo piede nell’hangar, sto soffrendo i grossi, grassi lampadari di cristallo che penzolano sulla mia testa. Il silenzio è profondo e con difficoltà provo a muovermi senza generare alcun suono.
Trovo una grande mappa di vetro tra due panchine, devo capirci qualcosa.
Quindi, è un aeroporto senza entrata, non l’hanno proprio costruita. L’uscita tecnicamente esiste ma è un suicidio preannunciato. Ci sono tre livelli di negozi, uno dei quali con un supermercato, due livelli di parcheggi, il tetto. Tutto si sviluppa intorno ad un blocco centrale di forma quadrata e in corrispondenza dei quattro lati del blocco ci sono delle scale che portano ai piani superiori o inferiori.
Faccio un giro rapido, per provare ad orientarmi: destra, destra, destra, ancora una volta a destra. Dovrei ritrovarmi al punto di partenza, invece ho davanti a me una vetrina con manichini bianchi, senza volto, le mani rigide a novanta gradi, vestiti di tutto punto. Mi inquietano, bianchi e lucidi, privi di qualsiasi nota di calore umano. Così reali nelle loro pose estreme. Provo ad aprire la porta ma è bloccata. Sospiro.
 
Ding.
Ding.
Ding.
 
Tre tintinnii si diffondono dagli altoparlanti. Alzo lo sguardo, mi aspetto una comunicazione da un momento all’altro. Invece si spengono improvvisamente tutte le luci, si accendono dei piccoli faretti d’emergenza che emettono un fioco raggio verde. Sto ferma in piedi, vorrei scappare, ma non so dove. Sento suoni penetranti intorno a me, non li riconosco. Avverto come un tenue graffiare nel mio orecchio destro, mi volto di scatto ed un urlo acuto e stridulo mi rimbomba nell’orecchio sinistro. Mi fa come da scia, si va affievolendo man mano che gli vado incontro. Perché gli vado incontro?
Nessun essere umano urlerebbe mai a quel modo.
Avverto qualcosa dietro di me, come un mantello ma più simile ad un respiro che ad un mantello. Che cosa dico?
Tornano le luci, mi riscopro ferma, immobile. Ho immaginato tutto? Eppure nelle mie orecchie avverto ancora le urla sovrumane di prima, seppure più flebili.
Aggrotto la fronte, le urla stridule si fanno terrene, reali, terribili. Le inseguo: arrivata davanti al negozio, comprendo che non c’è nulla che io possa fare per salvare il ragazzo dell’11. Disorientato dai rumori e dalle allucinazioni, dev’essersi fatto prendere dal panico. Lo trovo conficcato nel muro sulla destra da una moltitudine di lame lunghissime e affilate, probabilmente scattate dal muro opposto in seguito al passaggio del tributo. Sensori di movimento, quindi. Me li aspettavo.
 
La parete si apre, con un meccanismo che ho colto appena, il muro con il ragazzo viene ingurgitato all’indietro, mentre al suo posto compare un nuovo muro, identico a come doveva essere quello sostituito prima che la trappola scattasse. Probabilmente, l’avranno già riattivata.
Noto sull’uscio del negozio una delle buste da lettera. La apro ma mi rendo subito conto che è vuota. Me la rigiro tra le mani e provo a pensare a cosa fare, quando un luccichio sul pavimento attira la mia attenzione. Chiavi, ecco cosa contengono le buste.
Il ragazzo aveva probabilmente trovato il mazzo di questo negozio. Le raccolgo, sono tre.
Mi tolgo le scarpe da ginnastica, mi stendo sul pavimento e procedo un poco alla volta, lanciando prima davanti a me le scarpe per vedere se si attiva qualcosa. Il mio sguardo si posa su una piccola serratura sul pavimento, nascosta da un carrello di giacche. Provo ad inserire tutte e tre le chiavi, giro la serratura con l’ultima del mazzo, compare una piccola luce verde, adesso dovrei aver disinnescato la trappola.
Mi alzo in piedi, afferro una maglietta, pulisco le mie mani dal sangue del tributo che ho ucciso, la appallottolo e la metto nello zaino. Ne prendo un’altra e asciugo la pozza di sangue del ragazzo dell’11. Chiudo a chiave l’entrata. Spero che nessuno noti le macchie rimaste. Vado nel magazzino e prego affinché, guardando attraverso la vetrina, il negozio appaia immacolato.
 
Sento delle voci euforiche provenire da fuori, riconosco tra tutte quella di Cato, il tributo del 2, l’unico oltre a Gale di cui io ricordi il nome. Forse perché è biondo e mi ricorda i capelli del ragazzo del pane, quando durante le ore di scuola la luce filtrava attraverso le finestre e i suoi capelli si arricchivano di mille riflessi diversi. Non pensarci, Kat. Non ora. Concentrati.
Chiudo con la serratura la porta del deposito e aspetto che le loro voci si dileguino. Trattengo il respiro e resto in silenzio finché non sento più nulla.
Tasto il muro alla ricerca di un interruttore, lo trovo. La luce fredda illumina il mio corpo ricoperto di sangue che non mi appartiene. Quello della ragazza si è ormai seccato ma quello del ragazzo no, delle gocce scivolano lungo le mie dita, istintivamente me le asciugo sulla maglia. Rabbrividisco. Provo a distogliere la mia attenzione da quell’odore pungente che mi ricorda l’incontro con Snow. L’immagine di mamma e Prim massacrate mi colpisce come un fulmine. Con difficoltà lascio che scivoli via ed inizio ad esplorare. Con grande sorpresa trovo, nascosto da alcuni scaffali, un passaggio per un secondo vano. Davanti a me, una di quelle macchinette automatiche che vendono cibo e bevande. Provo a guardarmi intorno, alla ricerca di una cassetta degli attrezzi. Potrei infrangere il vetro ma rischierei di attirare tutti qui in pochissimo tempo. E comunque non trovo altro che un cacciavite arrugginito.
Studio per qualche minuto la macchina, ma rinuncio in fretta.
 
Mi siedo per terra e decido di scoprire cosa sono riuscita ad acchiappare nell’hangar. Apro la busta che ho raccolto prima: anche in questa ci sono tre chiavi. Una per aprire uno dei negozi. Una per disinnescare la trappola. La terza?
Un lampo improvviso emerge nei miei occhi.
Mi precipito verso la macchinetta, cerco la serratura, la trovo. La chiave gira e un piccolo schiocco di ingranaggi mi fa capire che ho aggirato il meccanismo.
Premo un paio di numeri, prendo delle merendine e una bottiglia di acqua. Soddisfatta, mi rimetto seduta sul pavimento e ricomincio a curiosare tra le mie cose. Apro lo zaino: trovo un pacco di fazzoletti, un blocco con una penna, una saponetta, un plaid, del latte liofilizzato. Il bottino è misero ma non credo che per gli altri sarà molto diverso: per la prima volta nell’arena c’è ogni cosa che ci serve, vogliono spingerci ad andare a prendercele. Tutti noi resisteremo, ma ad un certo punto dovremo uscire da qui. Lo scontro sarà inevitabile e il presidente avrà lo spettacolo che cerca.
Avverto la sensazione sgradevole della maglietta bagnata di sudore sul mio corpo. Provo nuovamente fastidio per avere addosso tutto quel sangue. Ho caldo, ma tremo. Il golfino puzza. Io puzzo.
Prendo la bottiglia di acqua e  la saponetta e mi lavo dietro ad una tendina improvvisata con il plaid –fa così caldo qui dentro che non penso che mi servirà-.
Lo uso anche per asciugarmi. I capelli, ormai corti ed ingestibili, mi arrivano alla base del collo. Provo ad acconciarli in qualche modo, ma è una sfida persa in partenza. Immagino Effie inorridire.
Mangio alcuni crackers e poi con un paio di giacconi che ho trovato in uno scatolone costruisco un giaciglio improvvisato.
Mi metto a dormire. Ho molto a cui pensare, ma non oggi. Oggi lascio i pensieri al limite del mio cervello, dimenticati in luoghi reconditi della mia mente. Domani, al mattino, ne pagherò il prezzo e il senso di colpa mi peserà con più vigore sul petto. Ma oggi no, proprio non ce la faccio.
 
Non so che ore sono, ma non penso che sia mattina. Mi sveglia di soprassalto un rumore che poi riconosco essere uno spot pubblicitario. Dopo qualche minuto, altri suoni a me nuovi mi destano definitivamente.
Il centro commerciale prende vita.
Un brivido corre lungo la mia schiena non appena sento delle voci, sono ovunque. Il negozio dev’essere pieno di gente.
Li sento all’improvviso anche nel magazzino e mi rannicchio in un angolo.
 
Le voci stanno per trovarmi.
Le voci si muovono verso di me.
Le voci sono sopra di me.
Le voci si allontanano da me.
 
Sono registrazioni.
Il panico passa ed io ritorno in Katniss.
Il panico ritorna e mi allontano da Katniss.
Così tutto il tempo. Finchè mi rendo conto che le voci non cesseranno mai fino alla fine dei giochi. Un regalino degli strateghi, in questo modo non avremo la possibilità di basarci sui nostri sensi, una volta usciti dai nostri nascondigli. In più, l’incessante chiacchiericcio da un lato non dà modo ai nervi di placarsi e dall’altro deforma ulteriormente questo luogo desolato rendendolo, se possibile, ancora più inquietante.
Impazzirò o mi abituerò a questo via vai di passi, di risate, di porte che s’aprono e che si richiudono, di parole tratte a caso da conversazioni- tra chi?
 
Mangio una barretta e mi copro le orecchie con le mani e inizio a riordinare le idee, ne ho davvero bisogno.
A quest’ora Snow mi avrà già punito. In che modo? Chi ha pagato per le mie colpe? Prim? Non voglio nemmeno pensarci. Non considererò nemmeno per un secondo questa possibilità. Mia madre, lei non può abbandonare mia sorella. Me lo ha promesso. Immagino che al primo sospetto di pericolo, sarà fuggita con Prim verso la casetta sul lago, fuori dalla recinzione. Papà mi ci portava spesso ed era il mio posto segreto, ci tornavo quando mi sentivo molto sola. Una volta mi raccontò che lì le chiese di sposarlo. Mamma mi ha assicurato di ricordare la strada, che per certi posti esistono mappe speciali, ti tornano in mente appena decidi di andarci. Mamma e Prim sono vive.
Anche Haymitch, sarà al centro dei riflettori ora, Snow ha le mani legate e mi auguro solo che il mio mentore non sia tanto sciocco da restare a Capitol a combattere per la mia sopravvivenza. Alzo lo sguardo alla ricerca della telecamera. Ne trovo una in un angolo, la osservo per qualche secondo, “Haymitch”, dico mentre soffoco con difficoltà le lacrime. Mi manca moltissimo. Vorrei, almeno un’altra volta, abbracciarlo e lasciarmi avvolgere dall’affetto che prova per me. Non ho mai riflettuto molto sulla qualità dei legami che una persona può creare, dicono che il vincolo di parentela sia quanto di più stretto possa esistere tra due persone. Eppure, sento di essere sua figlia più di quanto io non lo sia mai stata per mia madre.
Non hanno alcuna idea di quello che provo per Peeta, poi è fidanzato –deglutisco a fatica-, Peeta è salvo.

Quindi sono tutti vivi? Improbabile. O magari sì, sono tutti vivi. Vorrei illudermi, ma sento una voce nella mia testa, un fastidio allo stomaco. Io sono stata punita. In qualche modo, io sono stata punita alla fine di quei sessanta secondi.
Quanto sarà lunga la lista dei cadaveri alla fine di questi giochi?
Cinna è in cima all’elenco. Aggrotto la fronte, alla ricerca di una valida spiegazione. Perché Cinna si è sacrificato per me? Era gentile, certo. Ma mi conosceva appena. Io, al suo posto, non avrei mai rischiato la mia vita. Per Prim? Certo, per lei sì. Ma per lei e basta. Il ricordo di lui che cade per terra mi verrà a cercare la sera, prima di dormire, per il resto della mia vita. Ancora una volta, ho come la sensazione di stare nel mezzo di qualche grande progetto, che non capisco.
E Gale? Avrà ingannato i favoriti, accanendosi su qualche cadavere, o avrà realmente svelato le sue carte di letale guerriero? Non mi sono mai fidata di lui. Ma proprio mentre mi dico queste cose, ricordo la rabbia nella sua voce mentre, senza paura di essere scoperto, condannava i giochi con parole d’odio verso Capitol. Sì, lui condannava i giochi, non ha ucciso nessuno. Comprendo che alla fine uno di noi due morirà. E’ la prima volta che ci rifletto su. In fondo, pensavo di essere stata condannata a morte, non avevo minimamente concepito l’eventualità di arrivare fino a questo punto dei giochi.
 
Silenzio improvviso, nessuna voce nessuno spot.
 
Sento il motivetto dei giochi e scopro che il soffitto è una specie di schermo formato da grossi quadrati: le immagini dei tributi morti si susseguono. Ne sono morti 12. Il soffitto si spegne, il motivetto cessa e provo a dormire rifugiandomi tra gli strati dei giacconi, mentre le voci e gli annunci pubblicitari ritornano ad invadermi le orecchie.
 
   
 
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