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Autore: r_clarisse    14/01/2016    1 recensioni
Africa, 148.000 aC.
Due ragazzi innamorati, David e Steven, contemplano la bellezza del loro nuovo mondo dopo quattro anni di esodo nella Flotta Coloniale.
Il loro viaggio è terminato e ricominceranno da capo, a partire da quel momento, insieme.
David racconta in prima persona la loro storia, la loro vita insieme nelle Dodici Colonie e la corsa disperata per la sopravvivenza dopo la loro distruzione per mano dei Cyloni.
Non ha la pretesa di essere un grande racconto, ne un'opera di fantascienza, ma spero possa far trasparire in qualche modo quella che è la semplicità dell'amore che può unire due persone, attraverso lo spazio e il tempo.
"Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi Tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 6 - Presagi

6.1 – “Giraffe e profezie”
La settimana scorsa un forte temporale ha messo a soqquadro il nostro accampamento: le assi di legno che avevamo impilato ai piedi dell’albero di fianco all’entrata sono state sbalzate qua e là come stuzzicadenti; due capanne sono state scoperchiate e c’è roba sparsa un po’ ovunque.
Il vento e l’acqua hanno fatto davvero un bel disastro quaggiù.
Massì, diciamolo, un bel casino.
Mi manca davvero avere un tetto solido sopra la testa, un tetto in cemento armato e con le tegole intendo. Certo, un anno nelle tende di New Caprica City mi ha allenato a vivere senza troppe comodità, però santo cielo… se potessi tornare indietro, a casa mia, lo farei immediatamente.
A volte mi sorprendo a pensare che mi manchino le paratie delle cuccette delle astronavi in cui siamo stati rinchiusi per quattro anni, nonostante allora spesso le maledicessi.
In fondo non erano così male. Le astronavi.
Non c’erano continui temporali ed acqua che entrava a fiotti dal soffitto; anzi, l’acqua a volte mancava.
A cento metri da noi, sul fiume, hanno trovato una giraffa morta: probabilmente dev’essere caduta durante il temporale ed è annegata nel corso d’acqua rigonfio per le precipitazioni.
Ho dovuto spiegare io ai bambini del nostro gruppo, ieri pomeriggio, che quella giraffa adesso è in paradiso e che purtroppo era arrivato il suo tempo, come per tutti noi; Ally Trevison ha pianto e mi ha guardato con quel musetto triste che una bambina di sette anni fa davanti ad un avvenimento spiacevole.
“Ma adesso” ha detto tirando su con il naso e singhiozzando “Come farà a mangiare le foglie degli alberi?” con tanta innocenza e disappunto.
Ah, questi bambini sono davvero particolari: sono alcuni tra i pochi sopravvissuti ad un olocausto che ha ucciso quasi trenta miliardi di persone; la maggior parte di coloro che conoscevano sui nostri mondi sono morti… ma loro sono ancora capaci di impressionarsi per la morte di un animale.
Piccoli cuori puri ed ingenui, pieni di stupore e vivacità.
In realtà li capisco; capisco la piccola Ally, perché nel profondo, la morte della giraffa ha colpito anche me. Perciò mi sono avvicinato a lei e le ho messo una mano sulla spalla mentre piangeva, dicendole di non preoccuparsi.

Steven mi ha raggiunto sulla collina, la solita collina dove andiamo per ammirare la vista delle praterie nella savana di fronte a noi.
E’ sempre confortante abbracciarlo, sentire il suo calore, sentirmi protetto nella presa delle sue larghe spalle.
Gli ho passato una mano tra i capelli, cortissimi, dopo che li ha rasati due settimane fa; ho riso malignamente e lui mi ha tirato una gomitata di disapprovazione, non gli piace che lo prenda in giro per i capelli. In realtà mi piacciono, lo fanno sembrare un duro, così corti.

Mentre cercavo di addormentarmi, l’altra sera, pensavo a quanto io e Jennifer fossimo in sintonia, nel tempo che abbiamo avuto insieme; quanto fossimo simili.
Non avevamo lo stesso sangue nelle vene ma…c’era qualcosa in lei che avevo anche io.
Ma cosa, che cosa poteva essere?
All’improvviso mi è balenato in mente un ricordo, e da lì ho capito tutto: una frase che lei mi disse quando ero un bambino, un pomeriggio in auto, di ritorno da scuola:

“Ho come avuto un flash di te da grande, davanti ad una prateria.”
Ho sbarrato gli occhi e fissato il “soffitto” della capanna; mi sono voltato verso Steve che dormiva dandomi le spalle.
Oh dei, può essere?
Lei…sapeva?

“… davanti ad una prateria.”
Davanti ad una prateria.
Ma certo.
Il giorno in cui siamo arrivati siamo arrivati sulla Terra; il giorno in cui abbiamo messo piede sul nostro nuovo pianeta, la nostra nuova patria.

“Ho come avuto un flash di te da grande, davanti ad una prateria.”
La frase continuava a ripetersi nella mia testa mentre io tenevo stretto il lembo della coperta nelle mani; mentre il cuore mi batteva a mille.
Le navette da sbarco erano atterrate a mezzo chilometro dalla collina, quel giorno, esattamente dove sarebbe poi sorto il nostro accampamento; io e Steven eravamo andati a fare due passi verso quella collina e ci eravamo seduti all’ombra dell’albero sulla sua cima, ad osservare il panorama… la prateria.
Miei Dei, ma come ho fatto a non rendermene conto in quel momento? Come ho potuto essere così distratto da non accorgermi che Jennifer me l’aveva detto, che aveva descritto quella scena… più di dieci anni prima.
Ho guardato nuovamente Steven e gli ho scosso il braccio per svegliarlo.
“Hey, Steve…”gli ho sussurrato.
“Mmmh…” ha bofonchiato senza aprire nemmeno gli occhi.
Dopo un secondo di indugio, ho pensato che sarebbe stato meglio parlarne più avanti, da svegli, e l’ho lasciato dormire in pace.
E sono tornato nel limbo dei miei pensieri a chiedermi come fosse possibile.
Lei lo sapeva, sapeva che avrei visto quella prateria, e sapeva anche un’altra cosa:


“Penso che tu vedrai grandi cose, David; ho capito che un giorno tu farai parte di qualcosa di stupefacente.”
…e cosa poteva esserci di più impressionante dell’esodo della civiltà umana dai suoi mondi e più stupefacente della sua rinascita da zero su un pianeta dall’altro lato della galassia?
Ovviamente non era conscia del significato delle sue “visioni”, se così possiamo chiamarle; non immaginava certamente che il nostro quotidiano sarebbe stato incenerito con le bombe nucleari e che i Cyloni ci avrebbero sterminati, ma dentro di se, sentiva che sarebbe accaduto qualcosa di grande, di enorme.
Pensando a queste strane idee che iniziavano a marciare velocemente nella mia mente, stavo finalmente per addormentarmi, quando un ulteriore pensiero mi è piombato di fronte, come se fosse davvero davanti a me, seduto sulla sedia accanto al letto: quei sogni che facevo quasi cinque anni fa, quelle immagini, quelle strane visioni notturne, quelle parole, quelle figure bizzarre, quegli incubi.
Aspetta! Non era la prima volta che ci pensavo! Ma si!
Quel giorno, il giorno degli attacchi alle colonie, quattro anni fa, mentre me ne stavo seduto in prima classe nell’astronave di linea accanto a Steven e attorno a noi dilagava il panico per la notizia! Già allora ci avevo pensato! Lo avevo sognato!
Lo avevo sognato?
Poteva essere così? Poteva essere che io… no. Oh forse si?
Mi sono voltato nuovamente verso Steven e sono scivolato contro la sua schiena, abbracciando la sua vita.
Per un attimo ho percepito i miei occhi inumidirsi, e ho avuto paura; volevo piangere. Mi sono stretto a lui e ho pensato che in qualche modo…mi sentivo colpevole.
Sapevo.
Io e Jennifer sapevamo.
Avevamo visto il futuro, solo che non ce n’eravamo mai resi conto.

6.2 – “Navette e assegni”
Per diversi giorni avevo pensato a quello che Steven mi disse quella sera, seduti sul cofano della sua auto a guardare le stelle:
“Io penso che… beh, ti ci porterò un giorno. Ti porterò a casa.”
A casa, su Helios Beta; su Virgon.
“E’ un sistema solare pieno di opportunità David!” Mi aveva detto in seguito.
“E’ un luogo di crescita, diciamo. La gente è diversa da qui, sono tutti più aperti e pensano in modo trascendente.” Nulla a che vedere con Helios Delta, il sistema che ospitava il nostro grigio e chiassoso Canceron.
Più andavamo avanti e più sentivo che Steve era sincero quando mi diceva di volere davvero un futuro con me, e soprattutto che lo voleva .
E più lo sentivo, più l’idea si faceva strada anche dentro di me.
Era ormai pieno inverno, il mese di Ianuarius si apprestava a finire, ed Eneris era coperta da un leggero strato di nevischio biancastro, tanto sottile da far trasparire qua e là il catramoso colore dell’asfalto stradale, ma abbastanza spesso da rallentare tutte le automobili in circolazione nella zona.
La neve illuminava tutto il paesaggio e quel –seppur sporco- bianco gli donava una sorta di nuovo candore, come se la natura avesse deciso di far sembrare pulito il nostro piccolo angolo di pianeta. Ma soltanto per finta.
Quel pomeriggio, tornavo a casa a piedi dall’asilo comunale, un po’ prima rispetto al solito per via della chiusura anticipata; appena girato l’angolo all’incrocio tra la statale e la via principale della cittadina, dovetti tapparmi per un attimo le orecchie con le mani: i fiocchi di neve mezzi sciolti sui miei guanti di lana mi puntellarono le guance con un fresco pungolio.
Il rumore assordante di una manciata di piccole navette da trasporto che sfrecciavano a nemmeno cento metri d’altezza sopra di me mi fece quasi cadere a terra per lo spavento; guardai in alto nel cielo bianco per contarle da dietro l’albero sul marciapiede: una, due, tre, quattro, cinque! Cinque navette che sfrecciavano in modo decisamente sconveniente e, senza dubbio, illegale sopra il nostro spazio aereo.
Era la terza volta quella settimana: era opera di una gang della quale non ricordo il nome ma che all’epoca faceva davvero scalpore nei sobborghi della nostra zona.
Quegli idioti, stanchi di gareggiare con automobili truccate sulle strade dei centri abitati – rischiando non poco- avevano iniziato a sfidarsi in gare di volo spericolate nei cieli delle nostre campagne: facevano sempre gli stessi giri, ed Eneris era sotto il loro “percorso”.
La gente si lamentava da più di un mese per disturbo della quiete pubblica ma durante le sedute alla giunta comunale, il sindaco non sapeva dire altro che:
“Prenderemo dei seri provvedimenti nei riguardi di quei teppistelli.”
Parole rincuoranti, ma lasciate a se stesse: la polizia non muoveva un dito e quei frak di mafiosi continuavano a scorrazzare in cielo. Era più che un disturbo, era un pericolo per la nostra sicurezza: due settimane prima una delle navette aveva sfiorato il tetto del granaio del signor Johnson raschiando via una decina di tegole e aveva urtato in pieno il mulino a vento accanto.
Che sarebbe successo se una navetta avesse perso il controllo e fosse precipitata sulla piazza della città o su una casa?
O se ci fosse stato un incidente aereo con altre navi –che circolassero legalmente-?
Queste cose mi facevano davvero infuriare al tempo.
Raccolsi la busta di plastica che avevo fatto cadere a terra e continuai a camminare; Steven mi attendeva appoggiato alla staccionata ingrigita del giardino di casa mia.
“Aspetta, fermati un secondo dove sei!” Disse estraendo il cellulare per scattarmi una fotografia.
“Ok..” dissi facendo una strana smorfia ed alzando il braccio destro mostrando la busta azzurra piena dei disegni dei bambini.
“Allora, ti sono mancato?” dissi –o almeno provai a dire- mentre eravamo labbra a labbra.
“Si, sono state otto lunghissime ore, non so come ho fatto a resistere, mia linfa vitale!” Rispose prendendomi in giro ed alzando gli occhi al cielo in tono solenne.
“Davvero divertente ma attento a non inciampare nei tuoi lacci, cantante.” Lo spinsi con una gomitata.
“Non preoccuparti, in genere sono cose che fai tu D!” Rise.
Pensai a quanto fosse vero ed entrammo in casa.
Jennifer aveva appena caricato il camino di legna e ci venne incontro sorridendo.
“Ah, i miei ragazzi, venite qua!” Ero così felice che lei fosse contenta per noi.
Dovrebbe essere la situazione ideale, ma purtroppo non è sempre così.
A volte i genitori disapprovano le storie dei figli per le ragioni più disparate; non era il nostro caso fortunatamente, dato che vedeva Steve come un secondo figlio.
Ci abbracciò entrambi, insieme e con forza, per poi andare di corsa in cucina.
“Steve ha portato una crostata fatta in casa per stasera, ah a proposito ringrazia tanto la mamma!” Disse mentre sistemava nel forno lo sformato di patate che avrebbe servito a cena.
“C’è anche del gelato nel frigorifero, so che fa freddo ma il gelato è sempre buono…”
Will miagolava appollaiato sul mobile dietro il divano, tra un soprammobile e l’altro.
“Oh, vieni qua palla di pelo, è ora di cena per te!” Dissi accanto alla virgana affaccendata.
“David” Mi chiamò Steven a bassa voce dalla sala.
“C’è qualcosa che dovrei dirti.” Si sedette sul divano con le braccia incrociate nel maglione rosso che gli avevo regalato qualche settimana prima, aspettando che lo raggiungessi.
“Che succede?”
“Beh ecco… sai, ti avevo parlato di mio padre che…lavora nella Flotta Coloniale no?”
“Si certo, sulla Yashuman, giusto?”
“Si. Ecco lui si è.. è qui, sul pianeta. Ha preso qualche giorno di congedo ed è qui su Canceron. Vorrebbe vedermi. Anzi” si voltò verso di me “vorrebbe vederci.”
“Oh.” Alzai leggermente le sopracciglia.
“Beh, va bene, ma… non sapevo che parlaste. Oh aspetta, parlate?” Chiesi con un poco di disappunto; ogni volta che si era parlato di suo padre, Steve mi aveva sempre lasciato intendere che il loro rapporto fosse quasi inesistente, se non per eccezione di qualche rarissima email ogni tanto.
“Si.. cioè, più o meno. Da qualche mese abbiamo cominciato a sentirci con più assiduità, almeno una volta a settimana.”
“Non lo sapevo! Beh ne sono davvero felice Steve… anche tu lo sei vero?” gli misi una mano sulla spalla.
“Si abbastanza. Voglio dire, non faccio i salti, assolutamente, comunque non c’è mai stato quando ero piccolo… ma almeno lo sto… riscoprendo.”
Ricominciò a guardare per terra, verso il pavimento sotto la televisione.
“Da quando gli ho detto di te non fa che chiedermi di come vada tra noi. Sembra davvero interessato. E’ la prima volta che lo sento così vicino all’idea di padre.”
In quel momento alzai le sopracciglia ancora di più e sorrisi.
Sentì qualcosa smuoversi dentro: Steven aveva parlato a suo padre e lui si preoccupava per noi, faceva il tifo per noi! Voleva saperne di più. Per un attimo, percepì un profondo senso di gratitudine verso quest’uomo, praticamente a me estraneo, che nonostante fosse sempre stato un pessimo padre per il mio compagno, adesso voleva redimersi.
Tuttavia, l’unica cosa che risposi fu “Oh!”
“C’è dell’altro.”
“Ovvero?” Chiesi.
“Lui…insomma ti ho detto che manda a me e mia madre un assegno ogni mese? Beh… adesso lo ha triplicato.”
“Davvero?” Dissi sbalordito, appoggiandomi con il braccio sinistro allo schienale del divano.
“Si. Dice che ne ho bisogno, ho bisogno di più denaro possibile perché adesso… devo investire nel mio futuro ma soprattutto… nel nostro.”
Io lo ascoltavo in silenzio.
“Dice che per qualunque cosa noi avremo mai bisogno potremo fare totale affidamento su di lui. Se ci servisse aiuto per gli studi, o una casa… o un trasferimento.”
Rimasi in silenzio ancora per un secondo; Jennifer ascoltava in silenzio a sua volta, fingendo di essere indaffarata.
“Oh Steve è..” provai a rispondergli “E’ davvero… non so che dire. Io…grazie!” Lo abbracciai immediatamente. Era curioso come sia io, che Steven che suo padre, dessimo già per scontato che saremmo diventati parenti.
“Si nemmeno io so cosa dire..” Ridemmo entrambi, e il gatto saltò sul divano accanto a noi.
Jennifer ci raggiunse con un vassoio con tre tazze di thè rosso.
“Prendete ragazzi!”
“Beh e… quando vuole incontrarci?” Chiesi mentre mi chinavo verso il tavolino per prendere la tazza.
“Ecco… vorrebbe vederci oggi!”
Sobbalzai e deglutì il thè ustionandomi la gola.
“Oh frak!” riposi di nuovo la tazza sul tavolino per poi ricominciare “No ok, scusa la reazione, solo che… oh dei, incontrerò tuo padre! Oggi! Non sono psicologicamente pronto!”
Jennifer e Steven risero pensando che scherzassi.
“No davvero!” Dissi “E se non dovessi piacergli? Che so, magari...”
“Ma che dici, no!” Mi fermò lui afferrandomi l’avambraccio destro “Non dire sciocchezze, non sarà così.”
Rimasi nuovamente in silenzio per un secondo finchè Jennifer non riempì il vuoto con la propria voce  “A che ora pensate di andare?” Disse per poi portarsi i capelli dietro all’orecchio sinistro con la mano; mi voltai verso di lui
“Beh mio padre ci aspetta tra mezz’ora a Lewdan, nel bar vicino alla stazione dei treni Lev.
Non ci vorrà molto, non è un uomo di molte parole in realtà” Terminò ridendo.
“Torneremo per la cena a ogni modo!” Disse per rinfrancare sia me che Jennifer – che sicuramente non avrebbe avuto piacere a servire uno sformato di patate sfreddato-.
“Non preoccuparti” Rispose “Ho qui Will a farmi compagnia, lui ha sempre bisogno di qualcosa. Vieni qui gattaccio!”

6.3 –“Pyramid e caffè”
Come sempre, c’era traffico e la neve non aiutava; in genere Steven non affondava mai troppo il piede sull’acceleratore, ma quel pomeriggio non voleva decisamente arrivare in ritardo.
In fondo, suo padre, che si stava dimostrando così benevolo nei suoi e nostri confronti, meritava un po’ di riguardo; ma a prescindere da eventuali aiuti che ci avrebbe dato… mi riempiva il cuore di felicità sentire che lui e il figlio si stavano riavvicinando. Sapere che si era pentito di averlo lasciato solo nei momenti più importanti della sua infanzia e giovinezza.
Inoltre, non avendo mai avuto un padre, mi sentivo quasi invidioso delle sensazioni che Steven avrebbe provato da lì a breve, anche se in ritardo di ventanni.
La folla è in delirio qui all’Atlas Arena dove i Caprica Buccaniers e i Virgon United si sfideranno a breve nella finale di stagione!” diceva il cronista sportivo alla radio.
Non avevo mai seguito il Pyramid; in realtà c’erano ben pochi sport che mi interessassero anche soltanto marginalmente. Eppure, la mia conoscenza, seppur scarna, della questione, culminò in un’affermazione:
“Sai che ho lo stesso cognome di un giocatore di Pyramid?” Dissi voltandomi verso Steven che era intento a tenere gli occhi sulla strada.
“Ah si?”Replicò “In che squadra? Da che pianeta viene?”
“Veniva, è morto un paio d’anni fa, aveva quasi ottant’anni ormai.” Risposi passandomi una mano tra i capelli.
“Si chiamava Rod Jenkins; giocava nei Caprica Buccaniers circa sessant’anni fa, quando la squadra era proprietà di Daniel Graystone, prima di…” Mi fermai un momento.
“Prima dei Cyloni.” Steven finì la frase che avevo lasciato in sospeso.
Daniel Graystone.
Ai suoi tempi era acclamato come “l’uomo che prevedeva il futuro”; chissà se quando aveva la mia età immaginava che un giorno, il suo nome sarebbe passato alla storia… e che le sue creazioni avrebbero distrutto i nostri mondi.
Sui libri di storia si parlava in modo piuttosto vago di come lui fosse arrivato a creare il primo Cylone, su Caprica; molto dettagliati erano invece i capitoli riguardanti la loro –prima, ma al tempo considerata unica- ribellione: la Grande Guerra Cylone, avvenuta quasi cinquant’anni fa, diversi decenni prima che io e Steven nascessimo.
La guerra che aveva disseminato morte e distruzione su tutte le Dodici Colonie e al termine della quale l’umanità aveva giurato di non ripetere mai più l’errore di creare qualcosa che avrebbe potuto rivoltarglisi contro.
Centinaia di documentari del periodo circolavano in rete, in televisione, a scuola: una cosa che mi aveva sempre stupito, era vedere come in quarant’anni di tempo, nei nostri mondi non fosse cambiato poi molto: quelle persone, quelle che avevano visto le atrocità della guerra, si vestivano come noi, guidavano automobili come le nostre, e facevano la nostra stessa vita.
Nessuno di noi giovani pensava che nell’arco di un anno avremmo dovuto fronteggiare orrori ben peggiori a quelli dei nostri nonni, mezzo secolo prima.
“Come fai a saperlo? Non sapevo ti interessassi di Pyramid!” Continuò lui mentre svoltava all’incrocio principale per entrare in Lewdan.
“No, non me ne interesso infatti” risi “ma tempo fa digitai il mio cognome per vedere cosa ci fosse in rete e ho letto delle parole chiave in una delle prime voci sullo schermo: Pyramid, Jenkins, Graystone Industries, Cyloni… così ho letto la storia di Rod Jenkins.” Risposi.
“E che tipo era?”
“Non so, l’articolo diceva che fosse un pessimo giocatore.” Scoppiai a ridere
“Oh, buono a sapersi!” Ridacchiò a sua volta “Ci siamo, ci aspetta in quel bar..” Disse mentre slacciava la cintura; assunsi un’aria leggermente ansiosa  in quell’istante: l’idea di incontrare il padre di Steve in modo così tempestivo mi preoccupava non poco.
Riallacciai i bottoni del giaccone, infilai i guanti, scesi dall’auto e seguì Steven sul marciapiede.
Eravamo uno accanto all’altro, lui teneva le mani in tasca e, come suo solito, camminava guardando a terra leggermente ricurvo in avanti, per poi raddrizzarsi dopo qualche secondo.
“Sei sicuro che non … insomma, che io gli vada bene?” Avevo paura che una volta mi avesse incontrato, quell’uomo avrebbe potuto disapprovare il nostro rapporto, o me; del resto era comunque un ufficiale militare, e probabilmente aveva degli standard molto alti: io, per quanto composto  non ero esattamente lo specchio della perfezione e della rigidità, mi lasciavo andare spesso in risate senza contegno o in battutacce –che non facevano ridere, tra l’altro-, quindi ero legittimato ad avere qualche dubbio.
“Non preoccuparti D, vedrai che andrà tutto bene, e poi” Si mise una mano sulla nuca “te l’ho detto, non è un uomo di molte parole…”
Il bar si trovava al pian terreno del palazzo di forma cilindrica della Entiks, la banca principale della città, ed il cui logo era incastonato sulla cima dell’edificio, alto più o meno ottanta metri, attraversato da lunghe vetrate semi trasparenti che tagliavano la sua superficie fluida di cemento ed acciaio grigio. La scritta olografica azzurra “Entiks” era proiettata in maiuscolo verticalmente dal ventiseiesimo piano al ventunesimo, una lettera per ogni livello.
La porta di vetro scorrevole del caffè – il Waloh Bar- portava un simbolo a forma di brioche stilizzata e, prima che questa si aprisse davanti a noi, mi accorsi di osservarla con uno strano e probabilmente insensato interesse.
Entrammo: la sala era pervasa dai versi di una canzone pop molto allegra e movimentata.
Adrian Sanchez sedeva al tavolino sotto alla finestra, non lontano dal bancone; non lo avevo mai visto prima di allora: non indossava l’uniforme, bensì un maglione grigio sotto una giacca aperta nera. I capelli grigi e corti si connettevano alle folte basette brizzolate; aveva un filo di barba, giusto perché non era in servizio e poteva permettersi di tenerla.
“Ecco!” pensai tra me e me non appena entrammo e lo vidi “La barba! Dovevo farmi la barba, la noterà!” adesso ero davvero in ansia.
“Buonasera ragazzi!” Disse Adrian, alzatosi dalla sedia non appena averci visti avvicinarci; io sorrisi e prima che potessi rispondere, Steven accennò con un tentennante ma sentito:
“Ciao papà!” anche lui sorrise, con quella solita espressione che ho descritto innumerevoli volte prima; gli tese la mano, ma il padre lo sorprese tirandolo verso di se per abbracciarlo.
Rimasi di stucco e sgranai gli occhi; non mi aspettavo un benvenuto così caloroso, specie per come Steve mi aveva parlato del genitore.
Anche lui stesso era sorpreso e mostrò i denti in un sorriso più grande, chiudendo gli occhi; le sue mani picchiettavano affettuosamente sulle spalle di Adrian.
Non sapeva cosa dire, in parte perché non era solito per lui avere un contatto così ravvicinato con il padre, in parte perché d’altro canto nemmeno lui stesso era un ragazzo di molte parole.
Terminato l’abbraccio, Adrian si voltò verso di me: mi avvicinai e sorridendo indugiai:
“Salve signor Sanchez, è un piacere conoscerla!” gli tesi a mia volta la mano, non sapendo se avrebbe abbracciato anche me; la mancanza di confidenza fece si che la nostra rimanesse una stretta di mano, ma viva e sentita.
“David, finalmente, il piacere è mio!” Rispose; il suo tono di voce era pacato, la parlata rigida e composta, ma calda. Come quella del figlio. Sorrisi.
“Steven mi ha parlato molto di te, sono felice che ti abbia trovato. E’ un uomo fortunato.”
Sorrisi di nuovo. Sembrava sincero mentre lo diceva, eppure non mi conosceva ancora davvero, se non per ciò che poteva essergli stato detto da Steven.
“Sono io ad essere fortunato, ma la ringrazio!”
Adrian sorrise; mi voltai verso Steven che mi si avvicinò.
“Sediamoci! Prendete qualcosa? Offro io!”
Mi voltai verso il bancone e vidi la cameriera avvicinarsi per prendere le ordinazioni: Alexia Curtis –lessi il nome sul suo cartellino- era una giovane donna con grandi ambizioni che voleva farsi strada nella vita e realizzare i propri sogni. Studiava legge all’università statale di Canceron e lavorava nel pomeriggio per pagare almeno una parte della retta autonomamente. Avrei scoperto questi dettagli su di lei più di un anno dopo.
“Sono felice di vedervi insieme. Voglio farvi i miei più sentiti auguri per il futuro!”
Fui leggermente sorpreso di questa sua apertura così veloce al dialogo; era ottimista, sorridente e seppur impostato, sapeva di casa.
“Grazie signor Sanc..” Risposi o almeno provai a rispondere prima che mi interrompesse impetuosamente “Adrian, chiamami Adrian.”
Sorrisi e tacqui per un secondo per poi annuire “Adrian, va bene!”
“Ci sono decine di superiori e subalterni che mi chiamano Signor Sanchez quando sono in servizio, adesso posso sfruttare l’occasione per sentirmi più… casual.” Affermò con convinzione; risi, perché aveva un concetto tutto suo dell’essere casual.
“Grazie Papà.” Disse Steven “e ti sono gr..” si interruppe, si voltò verso di me “..ti siamo grati per il tuo aiuto, davvero.”
“Per noi significa moltissimo il suo appoggio.”
Alexia arrivò con i nostri tre caffè.
“Non ringraziate. Ormai siete giovani uomini e dovete costruire il vostro futuro con le vostre forze, questo è vero… ma finchè sarà in mio potere aiutarvi sarò una garanzia per voi.”
La sua sollecitudine nell’esserci solidale era animato dalle più disparate ragioni: nobile istinto paterno, senso di conservazione, affetto.
Ma perché tutto ciò si risvegliava in lui solo in quel momento?
Perché, se ne era capace, non aveva dimostrato affetto al figlio durante la sua infanzia, quando davvero ne aveva bisogno?
Forse ora voleva fare ammenda, sia come genitore disattento che per il suo matrimonio fallito?
Ad oggi, non ne sono ancora convinto.
Ma ciò non toglie che la mia impressione su quell’uomo, abituato a vivere su un’astronave da guerra, non potesse essere che positiva.
Grazie, Adrian.

6.4 –“Spigoli e incubi”
Dopo la cena che Jennifer aveva con impegno preparato per passare una piacevole serata insieme, riuscì a convincere Steven a fermarsi per passare la notte da noi, rassicurando la mia madre adottiva sul fatto che avremmo dormito in letti separati.
Dopo esserci accertati che dormisse, lui mi raggiunse in camera mia per condividere le coperte.
“Sei certo che dorma?” chiese lui con un filo di voce mentre si avvicinava in punta di piedi nel corridoio pervaso dal buio della notte.
“Si, sta prendendo dei sonniferi per dormire bene… non sarà sveglia prima delle otto e trenta di domani!” Risposi ridendo.
“Bene allor…auch!” Si tappò la bocca per non farsi sentire dopo aver sbattuto il mignolo da qualche parte nella stanza; risi di nuovo e più forte di prima.
Ci infilammo sotto le coperte calde del mio letto e dopo un secondo di silenzio, ricominciai a ridere.
Non comprenderò mai a pieno questo lato della mia personalità; le situazioni in cui mi ritrovo possono essere banali così come le più improbabili, ma la mia reazione spontanea sarà una: ridere.
“Che cosa ridi?” Chiese nuovamente, ridacchiando anche lui con la sua voce calda e piacevole.
“Niente è che… è che pensavo ad oggi. Tuo padre è una bella persona, mi è piaciuto molto!”
“Si lo è…” rispose senza scomporsi troppo. Il suo braccio era sotto il mio collo; mi voltai verso di lui “Va tutto bene?” gli domandai guardandolo.
“Si… si certo. E’ che… credimi, sono stupito quanto te di averlo nella mia vita. Fino a pochi mesi fa era quasi un estraneo per me” disse con un filo di rammarico “però… ne sono felice.”
Mi sorrise.
Ci scambiammo un bacio.
“Non so te, ma io sto per crollare Steve.”
“Buonanotte.”
Chiusi gli occhi e mi sistemai per bene, facendo calzare il mio corpo con il suo, in modo che fossimo entrambi comodi. Sentivo il calore della sua pelle, lo respiravo.
Era una sensazione meravigliosa. Fuori si congelava, ma noi eravamo lì.
Mi addormentai.

Erano circa le tre del mattino quando cominciò.
Per molto tempo non ho saputo dare nome a ciò che ho visto quella notte; non sono stato capace di ricollegarlo a quanto ho vissuto, sebbene ora mi renda conto di quanto fosse eclatante ed ovvio.
Sognavo.
Mi trovavo nel nulla.
Il vuoto.
Il buio.
Il nero.
Il nero assoluto.
All’improvviso, un’immagine sfocata; i contorni sfumati, indefiniti, non chiari.
“Che cosa?” Chiesi a me stesso ad alta voce, ma senza muovere le labbra; come se nel sogno, le parole non avessero bisogno di essere pronunciate.
Oh dei.
Un viso: un uomo… un uomo che sicuramente avevo già visto, sembrava un personaggio importante; forse l’avevo trovato su un libro di scuola, un articolo di giornale, in foto.
I capelli chiari, rossicci; viso scarno, sguardo intenso.
“No… Daniel Graystone!!!” Esclamai.
Scomparve nel nulla.
Di nuovo il buio.
Il silenzio.
Il vuoto.
Il nero.
Udì uno strano rumore in lontananza, come un conto alla rovescia.
Una luce.
Intensa.
Abbagliante.
Accecante.
Terrificante.
Mi coprì gli occhi con le mani per poi riprovare a scrutarla: dopo il bagliore iniziale, la luce assunse una forma definita. Rimasi a fissarla attonito, senza fiato per diversi secondi.
Non volevo crederci.
“Miei dei”
Un esplosione nucleare. Mi resi conto in quel momento di sognare, che ciò che stavo vedendo non fosse reale, o almeno così speravo fosse. Ma che senso poteva avere? Per quale motivo lo stavo sognando?
Poi di nuovo il nulla.
Il silenzio.
Il vuoto.
L’angoscia.
Vidi qualcosa nell’oscurità, qualcosa in alto stava prendendo forma lentamente.
Incrociai le braccia; stavo tremando. Questo sogno mi stava mettendo alla prova.
Fu allora che lo vidi: non potevo giurarlo, ma mi sembrava di vedere un enorme sagoma, un trentatré rosso ed enorme che pervadeva quello che sembrava essere un cielo oscuro.
Cominciai ad avere davvero paura in quell’istante, ma non potevo sapere di che cosa.
Di nuovo il nulla.
Mi guardai attorno, voltandomi velocemente, a destra, a sinistra, in alto, in basso.
Niente. No, mi sbagliavo.
Il nero adesso era puntellato di minuscoli pallini bianchi, sembravano quasi… no, erano stelle!
Il vuoto era diventato la volta celeste, lo spazio, il freddo e buio spazio.
Una stella si avvicinava a me, la potevo vedere perfettamente. Poi scomparve.
Il vuoto era tornato un’ultima volta.
Sentivo il mio cuore battere a mille.
Una figura di fronte a me apparve all’improvviso: una donna, una bellissima, affascinante donna.
Alta, con gli occhi azzurri e dei meravigliosi capelli mossi, di un biondo perlato, più chiari dei miei.
Mi guardava: sorrideva, ma qualcosa nel suo sorriso mi inquietava; come se fosse malvagio; ora che ci facevo caso, assomigliava più ad un ghigno che ad un sorriso.
Mi svegliai di soprassalto.
NO!” gridai, spaventando e svegliando Steven che aprì gli occhi e si alzò immediatamente.
“Che succede? Cosa?” Chiese di scatto.
“Io… io non so che…” Lo guardai negli occhi e notai che lo stava facendo anche lui, con l’aria preoccupata. Stranita. Mi mise una mano sulla spalla.
“Credo di aver avuto un incubo…”
“Brutto?”
“Non lo so nemmeno io. Non so come interpretarlo.” Non che mi fossi mai disturbato nel cercare di interpretare i sogni prima, ma sentivo che questo… fosse diverso.
“Dai… non pensarci. Vieni qui.”
Tornammo sotto le coperte, cercando di ricominciare a dormire.
Sentivo il suo respiro sul collo, e ciò mi tranquillizzò.
Per qualche minuto chiesi a me stesso per quale motivo avevo appena sognato Daniel Graystone, un’esplosione atomica…e quella donna. Che senso aveva? Che correlazione poteva esserci?
Forse non ve n’era proprio, forse era stato soltanto un parto della mia immaginazione.
Si, doveva sicuramente essere così, intimai a me stesso.
Avrei capito tempo dopo che non fosse così.
Chiusi di nuovo gli occhi.



Avevo previsto la catastrofe.
Continua…


 
   
 
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