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Autore: Princess Of Marshmallows    15/01/2016    3 recensioni
{ • TASSATIVAMENTE VIETATA AGLI STOMACI DEBOLI | psycho!Ticci-Toby | abusi sessuali | torture fisiche e psicologiche | prigionia | bipolarismo | C.I.P.A. | allucinazioni }
“Doveva essersi assopita, perché non si era resa conto dei passi che si avvicinavano sempre di più alla sua stanza, ma quando sentì la porta aprirsi di scatto si svegliò immediatamente, e la luce l’abbagliò per qualche secondo.
Sapeva che sarebbe venuto. La figura si avvicinò a lei lentamente, mentre la ragazza voltò lo sguardo dalla parte opposta mentre si sentiva mancare il fiato dalla paura. Nella sua mente ritornarono nuovamente a galla le immagini di quella mattina. Cominciò a tremare e a battere i denti per il terrore quando sentì i suoi guanti di pelle neri poggiarsi sulla sua gamba.
«Hai paura? È così brutto stare con me?», domandò all’improvviso, facendola sussultare.”

Per il mondo Anastasia Hamilton è morta il sei ottobre duemilatredici nel genocidio di Denver.
Nessuno sa che è ancora viva e si è ritrovata costretta a subire giornalmente torture di ogni tipo.
• Storia precedentemente intitolata "Hopeless Children of the Lonely Night".
Genere: Angst, Dark, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jeff the Killer, Lyra Rogers, Nuovo personaggio, Slenderman, Ticci Toby
Note: Lemon, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate
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Part I

Part I

Chapter VII

Dietro la maschera

 

 

La confessione è sempre debolezza. L’anima solenne mantiene i propri segreti, e riceve la punizione in silenzio.

Dorothea Lynde Dix

 

 

«Ashley», disse Anastasia facendo capitolino dalla porta della cucina. La bionda stava mettendo le tazze nella lavastoviglie. «Hai notizie di Emily?».

«No, non ancora. E lo trovo un comportamento davvero maleducato», richiuse con forza lo sportello. «Che c’è? Posso darti una mano in qualcosa? Mi dispiace tanto per il caffè».

«Va bene così. Senti, poi mi stavo giusto chiedendo: a che ora avevi detto che doveva arrivare Malcolm?».

«Verso le sei, credo», alzò lo sguardo verso l’orologio appeso al muro della cucina. «Quindi abbiamo ancora un’ora e mezza da ammazzare».

«Okay, beh, volevo sapere se c’era tempo per una corsetta».

«Una corsetta?», parve stupita, e per un attimo era sembrata quasi allarmata. «Beh, immagino di sì…ma si sta facendo buio».

«Resterò nelle vicinanze. È solo che…», la rossa spostò il suo peso sull’altro piede, pensierosa. Non riusciva a spiegarselo bene a stessa, figuriamoci ad un’altra persona, fatto stava che aveva bisogno di uscire, di andare via.

Quella casa di vetro la stava opprimendo, più i secondi passavano, più sentiva il bisogno innaturale di correre. Quella situazione le sembrava talmente ridicola e irreale, aveva bisogno di starsene da sola con il gelido vento della foresta a riflettere su ciò che stesse accadendo, per prepararsi psicologicamente all’arrivo di Malcolm Wilford. Senza dimenticarsi di Emily: per qualche motivo a lei ancora più ignoto, era quasi convinta che la cheerleader della sua scuola fosse lì, da qualche parte, e sperava quasi di trovarla durante la sua corsa. Il suo ritardo era dovuto sicuramente a qualcosa, a qualche imprevisto. Forse si era persa. O forse…

«Il tempo ce l’hai, credo», disse Ashley, interrompendo l’orribile immagine che stava per formarsi all’interno del cervello della modella, e lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, dove si stava già addensando il crepuscolo. «Però sarà meglio che tu faccia presto. Quando qui cala il buio, infatti, è veramente buio».

«Ci metterò poco, tranquilla. Qual è il percorso migliore?».

«Uhm…farai meglio a prendere il sentiero che scende giù dal bosco… Aspetta, vieni con me in soggiorno, te lo mostro».

Le due tornarono nella sala principale, dove Ashley le indicò dall’enorme finestra un solco ombreggiato in mezzo agli alberi. «Lo vedi quello? È un sentiero che conduce alla strada principale. Lì il terreno e più solido, c’è meno fango rispetto al vialetto d’accesso alla casa. Non dovrai fare altro che seguirlo finché non arrivi all’asfalto, ma poi se fossi in te svolterei a destra lungo la strada e tornerei su dal vialetto, perché nel frattempo si sarà fatto troppo buio per tornare dietro in mezzo al bosco, il sentiero non è recintato e potresti finire nella direzione sbagliata. Aspetta», disse frugando in un cassetto della cucina, da cui tirò fuori un aggeggio simile a un paio di bretelle mal piegate. «Prendila: è una torcia frontale».

Anastasia la ringraziò – nonostante trovasse quel coso orribile e completamente fuori moda – e salì in fretta nella sua stanza per infilarsi la tuta e le scarpe da ginnastica. Diane, sdraiata sul letto con lo sguardo rivolto al soffitto, stava ascoltando una canzone degli Imagine Dragons dal suo iPhone.

«Cosa mi racconti?», le domandò con aria di voler fare conversazione, togliendosi gli auricolari.

«Che quella Ashley è matta da legare. O meglio, è lunatica».

«Si tratta di un termine medico, dottoressa Hamilton?».

«Sì, viene dal latino, ed è collegato alla credenza pagana secondo la quale la pazzia era dovuta al fatto di essere stati investiti dalla luce della luna piena».

Diane scoppiò a ridere, mentre la rossa si toglieva i pantaloncini di jeans firmati e si infilava in fretta gli scaldamuscoli e la felpa.

«Sono una ragazza alquanto pittoresca, direi. Dove sono le mie scarpe da ginnastica?».

«Le ho messe sotto il letto. Beh, in fondo le persone si trasformano in lupi mannari, quando c’è la luna piena. È la stessa cosa, probabilmente. A proposito di pazzia, hai per caso intenzione di uscire?».

«Sì», la modella si chinò per guardare sotto il letto. Le scarpe erano lì, ma irraggiungibili. Si inginocchiò per recuperarle, cercandole a tentoni. La voce di Diane le risultò un po’ ovattata date le coperte: «Ehm…e perché?».

«Vediamo un po’», Anastasia uscì da sotto il letto e si mise a contare i motivi sulla punta delle dita. «Perché non ho mai avuto intenzione di venire qui, perché odio questa casa sperduta nel nulla dove non prende il cellulare manco ad invocare gli dei, perché Ashley è una possibile psicopatica, perché Tyler e la sua famiglia perfetta mi danno la nausea, perché Felix mi sta sul cazzo…oh, ho già detto che non ho mai avuto intenzione di venire qui?».

«Ehi, sei stata tu ad accettare la mia proposta, quindi adesso non prendertela con me», si mise subito sulla difensiva la bruna. «E poi fuori sta un cazzo di buio pesto».

«Non è buio pesto», guardò fuori dalla finestra mentre si allacciava le scarpe. Era abbastanza scuro, ma non del tutto. Il sole era tramontato ma il cielo era ancora limpido ed illuminato da un diffuso chiarore perlaceo ad ovest, e una luna bianca e rotonda stava sorgendo dagli alberi ad est. «Inoltre ci sarà la luna piena, perciò non sarà del tutto scuro nemmeno dopo il crepuscolo».

«Ahhhh», fece all’improvviso Diane, assumendo un’espressione divertita e spaparanzandosi sul letto. «Hai bisogno di riflettere sui tuoi sentimenti contrastanti per un certo Felix?».

«Cosa? No, no, no!», Anastasia scosse la testa, mentre Diane scoppiò a ridere. «L’ho appena conosciuto, quel coglione, e se vuoi un’opinione penso che sia…».

«…dannatamente attraente?», completò la frase l’amica.

«No! Non stavo per dire questo!».

«Ma lo pensi».

La rossa sospirò. «Va bene, è un fico da paura, e leggermente interessante», confessò portandosi le mani ai fianchi e alzando gli occhi al cielo. «Ma non ha niente a che fare con la mia voglia di uscire».

«Ne è davvero certa, cara Miss Anastasia “mi farei aprire come una scatoletta di tonno da un certo fotografo sexy dai capelli tinti di blu” Hamilton?».

«Sicurissima», fece un doppio nodo ai lacci e si rialzò in piedi. «Non continuare a rompere il cazzo, Diane. Ho veramente bisogno di uscire, altrimenti impazzisco, luna o non luna, fotografo o non fotografo».

«Ah. Te la stai cavando davvero così brutta?».

«No», ma in un certo senso era così, anche se non riusciva a spiegarsene il motivo. Non poteva dirle che cosa aveva provato all’idea che degli sconosciuti si fossero messi a frugare nel suo passato: era un po’ la stessa sensazione di quando le veniva stuzzicata una ferita che non era ancora guarita del tutto. Era stato uno sbaglio accettare quell’invito, adesso se ne rendeva conto. Però ormai era bloccata lì finché Diane non avesse deciso di andarsene.

«No, va tutto bene, ho solo voglia di uscire un po’. Adesso. Ci vediamo tra un’oretta».

Anastasia si diresse verso le scale, con la risata beffarda della bruna che la seguiva dietro la porta chiusa e le sue ultime parole le riecheggiarono nelle orecchie.

«Puoi correre quanto vuoi…tanto non riuscirai a fuggire!».

 

Una volta nel bosco la modella respirò una boccata d’aria pulita e frizzante e cominciò gli esercizi di riscaldamento. Si stirò le membra con la schiena rivolta nel garage, lo sguardo verso gli alberi. Il senso di minaccia quasi claustrofobico che aveva provato prima era sparito. Che fosse per via di tutto quel vetro…la sensazione che là fuori potesse esserci qualche malintenzionato intento a guardare dentro senza che loro lo sapessero? Oppure era strana l’atmosfera anonima delle stanze che le ricordava esperimenti da laboratorio, sale d’attesa ospedaliere?

Fuori, si rese conto, la sensazione di sentirsi osservata era sparita.

Cominciò a correre.

Era facile. Sì, facile. Niente domande, niente Emily, nessuno che punzecchiava o ficcanasava, solo l’aria pungente e profumata e l’elastico tonfo dei piedi sul tappeto di aghi di pino. Benché avesse piovuto parecchio, l’acqua non riusciva a ristagnare in questo terreno cedevole e drenante come invece faceva sul vialetto compatto e pieno di solchi, e c’erano poche pozzanghere, e men che meno lunghi tratti melmosi: solo chilometri di sentiero pulito e reso morbido da strati su strati di aghi caduti dalle migliaia di pini, sotto le suole di un paio di scarpe.

Per qualche motivo a lei incomprensibile, in quel momento le ritornò in mente sua nonna materna: quando Anastasia aveva appena sei anni le raccontò che, quando da bambina si arrabbiava con un’amica, scriveva con il gessetto il suo nome sotto le suole e continuava a scarpinare finché non si era cancellato del tutto. Intanto che il gesso si consumava, anche il suo risentimento sbiadiva sempre di più.

Quanto al lei, invece, aveva l’abitudine di ripetere mentalmente un mantra, e continuava a correre finché non riusciva più a sentirlo al di sopra del battito del suo cuore e dei suoi piedi.

Quella sera, pur non essendo arrabbiata con lui – o perlomeno, pur non essendolo più – sentiva il proprio cuore che scandiva il ritmo del suo nome: Malcolm, Malcolm, Malcolm.

Giù, sempre più giù in mezzo al bosco, continuò a correre tra le tenebre che si infittivano ed i suoni sommessi della notte. Vide pipistrelli scendere in picchiata nell’oscurità, e udì animali balzare fuori dalle tane. Una volpe attraversò in un lampo il sentiero davanti alla giovane e poi si fermò, superba ed arrogante, fiutando con il muso affusolato la scia del suo odore mentre la oltrepassava di corsa nella quiete dell’imbrunire.

Facile, sì, quella velocissima discesa simile ad un volo nel crepuscolo. E non aveva paura, nonostante l’oscurità. Lì fuori gli alberi non erano simili a spettatori silenziosi al di là del vetro, bensì amichevoli presenze che la accoglievano nel bosco, facendosi da parte rispettosi dinanzi ad Anastasia che correva, rapida e un po’ ansimante lungo il sentiero.

La sfida sarebbe stata il tratto in salita, quando sarebbe tornata indietro sul vialetto pieno di solchi e di fango, e sapeva di doverci arrivare prima che il buio diventasse così fitto da impedirle di vedere le buche. Perciò si mise a correre più in fretta, al limite delle proprie forze. Niente tempi da rispettare né obbiettivi da raggiungere, non conosceva nemmeno le distanze. Superò con un salto un tronco caduto e chiuse gli occhi per un istante – un folle istante nella luce sempre più fievole – fingendo di essere in volo, senza dover mai toccare terra.

 

Finalmente scorse la strada, un pallido serpente grigio nell’oscurità. All’uscita dal bosco udì il chiurlo sommesso di un gufo e seguì il consiglio di Ashley, svoltando a destra sull’asfalto. Poco dopo udì il rumore di un’automobile dietro di lei e si fermò, facendosi da parte sul ciglio della strada. Non voleva rischiare di essere investita, del resto chi era alla guida non poteva certo aspettarsi di imbattersi in un runner a quest’ora ed in un posto del genere.

L’auto si avvicinò rumorosa nel silenzio della sera, ed Anastasia se la ritrovò quasi addosso, rombante come una motosega. L’abbagliò con la luce accecante dei suoi fari, dopodiché sparì nel buio, la sua presenza segnalata solo dal rosso delle luci posteriori simili a due occhi iniettati di sangue, sempre più piccoli via via che si allontanavano.

Poiché il suo passaggio l’aveva lasciata lì, a sbattere le palpebre, semiaccecata, attese un po’ nella speranza che i suoi occhi si riabituassero all’oscurità, ma ora la notte sembrava infinitamente più nera di qualche minuto fa, e di colpo la modella ebbe paura di finire in un fosso sul ciglio della strada o di inciampare in un ramo. Si frugò in tasca alla ricerca della torcia di Ashley e se la agganciò in testa con una certa fatica. Se la sentiva strana addosso, troppo stretta e al tempo stesso abbastanza allentata da farle temere che potesse cadere a terra non appena avesse ripreso a correre. Ma almeno adesso riusciva a vedere il tratto d’asfalto davanti a sé, con le sue righe bianche sui lati che scintillavano sotto il fascio di luce.

Un’interruzione sulla destra le mostrò che era arrivata in prossimità della svolta, al che rallentò e girò l’angolo. Adesso Anastasia era davvero contenta della frontale e, anziché correre, avanzava più lentamente, girando cauta attorno alle pozze di fango ed evitando i solchi nei quali avrebbe potuto rompersi una caviglia. Ciò nonostante aveva le scarpe parecchio infangate e ad ogni passo le sembrava si trascinarsi dietro un mattone: pulirle sarebbe stata una bella impresa, al suo ritorno. Un vero schifo.

Cercò di ricordarsi la distanza da casa… sei o settecento metri, magari? Desiderò quasi di essere tornata indietro in mezzo al bosco, buio o non buio. Tuttavia, parecchio più in su, la rossa vide la casa simile al fato di un promontorio, con le sue pareti di vetro nudo che risplendevano dorate nella notte.

Il fango le risucchiava i piedi come se volesse trattenerla lì, al buio, perciò digrignò i denti e costrinse le proprie gambe stanche ad accelerare l’andatura. Era arrivata a metà percorso quando udì un rumore giù in basso, sulla strada principale. Un’auto che rallentava.

Non aveva un orologio e aveva lasciato il cellulare in casa, ma di certo non potevano essere già le sei, vero? Impossibile che avesse corso per un’ora, le era sembrato molto meno tempo.

E invece eccolo lì, il rumore del motore mentre l’auto svoltava nel vialetto e poi ancora il rombo quando la persona alla guida inserì una marcia più bassa per arrancare su per la salita, rimbalzando da una buca all’altra.

Anastasia si appiattì contro la siepe per lasciarla passare, schermandosi gli occhi contro il bagliore dei fari e sperando di non beccarsi schizzi di fango al suo passaggio, ma con sua grande sorpresa l’auto si fermò, con un’esalazione di gas di scarico simile ad una nube bianca contro la luna, dopodiché udì il ronzio di un finestrino elettrico e venne investita da una canzone degli Arctic Monkeys al massimo volume, subito abbassato.

La ragazza avanzò di un passo con il cuore che aveva ripreso a battere forte, come se avesse corso molto più in fretta del normale.

La torcia era regolata in modo da puntare a terra per illuminare il cammino, più che per chiacchierare con qualcuno al buio, e non riuscendo a tirarla su, se la sfilò dalla testa e puntò il suo fascio contro il viso del ragazzo dentro l’auto.

Non che ne avesse bisogno, però.

Sapeva già chi fosse.

Malcolm Wilford.

«Hamilton?», domandò, quasi incredulo. Con la luce dritta negli occhi, sbatté le ciglia e se li riparò con la mano. «Wow. Sei veramente tu? Non sapevo che… Cosa ci fai qui?».

Silenzio.

Per qualche istante Anastasia non capì cosa stesse succedendo. Che si fosse verificato un orribile errore? Era possibile che lui non l’avesse affatto invitata, che fosse stata solo una stupida idea di quella Ashley?

«Io…beh, insomma, il tuo compleanno», borbottò la rossa. «Per caso tu non…».

«Questo lo so, che cogliona che sei!», scoppiò a ridere, con una folata nervosa di fiato bianco nell’aria fredda. «Volevo dire: cosa ci fai qua fuori? Ti stai forse allenando per una spedizione polare o qualcosa del genere?».

«Stavo facendo una corsetta», rispose quella, cercando di farla sembrare la cosa più normale del mondo. «E poi non fa t-tanto freddo. Freschino, piuttosto», e invece era parecchio infreddolita, ora che stava ferma, e smentì le sue ultime parole rabbrividendo convulsamente.

«Forza, sali, ti do un passaggio su fino a casa», si sporse avanti e aprì lo sportello dalla parte del passeggero.

«Ho addosso…le scarpe che ho addosso, sono tutte infangate…».

«Non preoccuparti, è una macchina a noleggio. Adesso salta su, prima che ci congeliamo entrambi».

Anastasia girò attorno alla macchina e, una volta dentro, il calore prodotto dall’impianto di riscaldamento si diffuse di colpo nella felpa e negli scaldamuscoli freddi e impregnati di sudore. Siccome il fango le si era infilato addirittura nelle scarpe, adesso aveva le dita dei piedi immerse in quella sostanza viscida. La ragazza storse le labbra, aveva voglia di gridare per il disgusto.

Malcolm inserì di nuovo la marcia e mise a tacere Do I Wanna Know? con un colpetto del dito.

Il silenzio diventò tutto ad un tratto assordante.

«Dunque…», disse il ragazzo guardandola di sbieco nello specchietto retrovisore.

«Dunque…», gli fece eco prontamente lei. Per quanto ci provasse, nemmeno in quel momento riusciva ad apprezzare la compagnia di Malcolm. Perché doveva essere schiava del passato fino a tal punto? Perché non poteva guardare avanti e basta?

«È da tipo agosto che non ci si vede», scosse i capelli neri, tamburellando le dita sul volante. «Però caspita, cioè…mi fa piacere rivederti, Hamilton».

La ragazza non rispose.

Aveva solo voglia di chiedergli come mai si trovasse lì. Perché lei? Perché dopo tutto quello che era successo?

Perché? Perché? Perché?

Però non lo fece. Anastasia non aprì la bocca di un millimetro, limitandosi a starsene seduta con lo sguardo fisso alla casa via via che si avvicinavano.

«Mi fa davvero piacere rivederti», ripeté. «Allora, so che hai posato per Dior, ultimamente…giusto?».

«Sì», rispose. Le parole successive suonarono false e stonate, come se stesse mentendo, o raccontando storie a proposito di qualcun altro, un lontano parente, magari. «Sì, ho posato per Dior all’inizio di questo settembre».

«L’ho sentito dire, ho letto una tua intervista su una rivista di moda. Io sono…davvero contento per te. È straordinario, sai? Dovresti esserne orgogliosa».

«Ho posato insieme ad altre ragazze, quindi alla fine non è niente di così speciale», la frase le uscì di bocca con una bizzarra eco di amarezza, senza che ne avesse intenzione. Sapeva di essere bella, di essere sicura di sé e fortunata. E lavorava sodo pur di apparire ancora più bella agli occhi degli altri. Doveva essere orgogliosa di stessa, e infatti lo era. Lo era sempre stata.

«E tu invece?», riuscì a dire.

«Sono da poco diventato barista in una discoteca nel centro di Denver».

Discoteca, alcol e musica. Il lavoro perfetto per lui. Anastasia sorrise: un sorriso quasi autentico, non del tutto falso stavolta.

«Sono…molto felice», soggiunse lui piano. «E poi senti, anche se frequentiamo comitive diverse, possiamo dire che entrambi all’Old Denver’s Tales ne abbiamo viste e fatte di tutti i colori, non ti pare?», le lanciò un’occhiata nella spettrale luce verdognola proveniente dal cruscotto. «E chi se le scorda più tutte quelle ubriacature…le canne…quella volta in cui ero così strafatto che mi sono spogliato e ho ballato nudo sul bancone…».

«Quella volta in cui venisti buttato fuori a calci in culo dalla proprietaria…», ribatté Anastasia, e poi desiderò di non aver fatto un commento così sprezzante. Perché? Perché era così sulla difensiva?

Ma Malcolm si limitò a ridere.

«Che figura di merda! Sono sicuro che qualche stronzo ha ancora il video di me che ballo nudo».

«Chi lo sa?», sorrise vagamente la rossa alzando le spalle.

I due restarono in silenzio nell’ultimo tratto del vialetto, durante il quale Malcolm dovette guidare con ancora più cautela a causa dei solchi sempre più frequenti, e finalmente arrivarono sullo spazio ghiaioso davanti alla casa, dove il giovane parcheggiò con una manovra fluida tra l’auto a noleggio della rossa e la Land Rover di Ashley.

Malcolm spense il motore e per qualche istante rimasero seduti nella macchina buia a contemplare la casa, e le persone che se ne stavano in bella mostra al suo interno come attori su un palcoscenico, come aveva detto Felix. C’era Ashley tutta affaccendata in cucina, china sul forno, mentre Tyler era chino sul telefono nel salone. Felix invece guardava delle foto all’interno della propria macchina fotografica, sprofondato nel divano giusto di fronte alla grande vetrata. Diane non si vedeva da nessuna parte: molto probabilmente – con grande invidia da parte della rossa – era sul balcone a fumarsi una paglia.

Perché mi trovo qui? pensò di nuovo, stavolta in preda ad una sorta di agonia. Perché sono venuta?

A quel punto Malcolm si voltò verso di lei, il viso illuminato dalla luce dorata che usciva a fiotti dalla casa.

«Hamilton…», cominciò lui, proprio mentre la modella diceva: «Ascolta…».

«Che c’è?», domandò Malcolm. Lei scosse la testa.

«No, vai prima tu».

«Parla tu prima, davvero. Non era importante».

Tutto ad un tratto il cuore di Anastasia prese a battere velocemente e pensò all’unica domanda alla quale desiderasse una risposta in quel momento.

Ora o mai più.

«Perché, Wilford?», gli chiese di punto in bianco, e lui alzò gli occhi grigi, il viso pallido nell’oscurità.

«Perché cosa?».

«Perché mi trovo qui?».

«Oh, merda», abbassò lo sguardo sulle mani. «Sapevo che me lo avresti chiesto. Forse non mi crederesti, se ti dicessi per dimenticare il passato e diventare amici e tutto il resto».

La ragazza scosse la testa.

«Non è per quello, vero? Hai avuto un anno per rimediare, se proprio lo avessi voluto. Perché proprio ora?».

«Perché…», tirò un gran respiro, e quando Anastasia realizzò che fosse molto nervoso si stupì più che mai. Le sembrava quasi impossibile: non era mai accaduto che lui non avesse il pieno controllo di sé; era sempre stato bravo con le parole, forse persino più di lei. E Anastasia era già discretamente brava nel manipolare le persone.

«Perché…», ripeté, sfregiandosi le mani sudate una all’altra, osservandosele, come se la risposta fosse lì, da qualche parte tra la pellicina che si stava scorticando. Iniziò a torcersi le dita. «Perché ho pensato che meritavi di saperlo. Meritavi che te lo dicessi io, faccia a faccia. Ho promesso…ho promesso a me stesso che te lo avrei detto in faccia».

«Che cosa?», la modella si sporse in avanti.

Non era spaventata, solo perplessa. Aveva dimenticato le sue scarpe bagnate e luride, e il puzzo di sudore emanato dai propri indumenti. Ora non esisteva più niente, a parte il viso preoccupato di Malcolm, pieno di una nervosa vulnerabilità che la giovane non gli aveva mai visto prima d’ora.

«Giorno dopo giorno non posso fare a meno di sentirmi in colpa, perché sento come se sia iniziato tutto da me», proseguì. Si guardò le mani mentre Anastasia si limitava a fissarlo confusa. «Sai, neanche quando ero un bambino mi sono comportato bene. Ero cattivo, mi piaceva prendere in giro gli altri, quelli diversi da me e dai miei coetanei. Davo loro soprannomi crudeli, rubavo le loro merendine, sputavo addosso ai loro faccini innocenti e qualche volta li picchiavo. Così, per noia, Hamilton. Solo per noia».

«Dove vuoi arrivare, Wilford?», gli chiese, non riuscendo più a sopportare quella tensione. Non capiva cosa avesse a che fare tutto quello con lei. Cosa c’entrava con il suo passato da bulletto?

«Vedi, quando facevo la quarta elementare, mi accanii contro uno del primo anno. Era diventata la mia vittima preferita. Adoravo farlo star male e vederlo piangere. Sono stato crudele, gli ho rovinato la vita. È tutta colpa mia. Ero solo un bambino. Io…non potevo immaginare», si passò le mani sulla faccia. Aveva gli occhi lucidi e sembrava che stesse per piangere. Malcolm Wilford che si mostrava debole e vulnerabile. Diane non le avrebbe mai creduto.

«E chi sarebbe?», domandò, mentre sentiva il cuore accelerare nuovamente. Stette per qualche secondo in silenzio, per poi azzardare: «È…è per caso una persona che…conosco?».

Malcolm non rispose e per cercare di spezzare l’ansia Anastasia rise nervosamente.

«Sì, è una persona che conosci», confermò, guardandola finalmente negli occhi, nei quali la modella non scorse nemmeno un briciolo di allegria o spensieratezza, solo una sorta di ferrea determinazione, come se stesse per fare una cosa sgradevole ma assolutamente necessaria. «E quel bambino era Toby Erin Rogers».

 

 

 

 

 

Note dell’autrice: Buongiorno/Buonasera a tutti. Eccomi qui con il settimo – wow, non ci credo – capitolo di questa Long-Fic. Non so neanche da dove cominciare, sinceramente. Anche questo capitolo si svolge ancora nel passato, ma dal prossimo – o da quello ancora dopo – si ritorna nel presente. Di Emily ancora nessuna traccia, Anastasia sembra iniziare a provare una leggera infatuazione per Felix e finalmente abbiamo scoperto perché Malcolm ha voluto “invitare” la nostra protagonista al suo compleanno. E, a quanto pare, Anastasia conosceva Toby già prima del rapimento.

Lasciatemi una recensione e fatemi sapere cosa ne pensate, i vostri pareri sono fondamentali! E, nonostante non risponda qualche volta, sappiate che leggo sempre con infinito piacere tutte le meravigliose recensioni.

Credo che io qui abbia finito. Non so mai che cosa dire nelle “note dell’autrice”.

Au revoir,

S h y. (Quando la smetterò di cambiare nickname? Probabilmente mai.)

   
 
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