Part I
Chapter VII
Dietro la maschera
“La confessione è sempre debolezza. L’anima
solenne mantiene i propri segreti, e riceve la punizione in silenzio.”
Dorothea Lynde
Dix
«Ashley»,
disse Anastasia facendo capitolino dalla porta della cucina. La bionda stava
mettendo le tazze nella lavastoviglie. «Hai notizie di Emily?».
«No, non ancora. E lo trovo un comportamento davvero
maleducato», richiuse con forza lo sportello. «Che c’è? Posso darti una mano in
qualcosa? Mi dispiace tanto per il caffè».
«Va bene così. Senti, poi mi stavo giusto
chiedendo: a che ora avevi detto che doveva arrivare Malcolm?».
«Verso le sei,
credo», alzò lo sguardo verso l’orologio appeso al muro
della cucina. «Quindi abbiamo ancora
un’ora e mezza da ammazzare».
«Okay, beh, volevo
sapere se c’era tempo per una corsetta».
«Una
corsetta?», parve stupita, e per un attimo era sembrata quasi allarmata.
«Beh, immagino di sì…ma si sta facendo buio».
«Resterò nelle vicinanze. È solo
che…», la rossa spostò il suo peso
sull’altro piede, pensierosa. Non riusciva a spiegarselo bene a sé stessa, figuriamoci ad un’altra persona,
fatto stava che aveva bisogno di uscire, di andare via.
Quella casa di vetro la
stava opprimendo, più i secondi passavano, più sentiva il bisogno
innaturale di correre. Quella situazione le sembrava talmente ridicola e
irreale, aveva bisogno di starsene da sola con il gelido vento della foresta a
riflettere su ciò che stesse accadendo, per prepararsi psicologicamente
all’arrivo di Malcolm Wilford. Senza
dimenticarsi di Emily: per qualche motivo a lei ancora più ignoto, era
quasi convinta che la cheerleader della sua scuola
fosse lì, da qualche parte, e sperava quasi di trovarla durante la sua
corsa. Il suo ritardo era dovuto sicuramente a
qualcosa, a qualche imprevisto. Forse si era persa. O forse…
«Il tempo ce l’hai, credo», disse Ashley, interrompendo
l’orribile immagine che stava per formarsi all’interno del cervello
della modella, e lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, dove si
stava già addensando il crepuscolo. «Però
sarà meglio che tu faccia presto. Quando qui cala
il buio, infatti, è veramente
buio».
«Ci metterò poco, tranquilla. Qual è
il percorso migliore?».
«Uhm…farai
meglio a prendere il sentiero che scende giù dal bosco… Aspetta,
vieni con me in soggiorno, te lo mostro».
Le due tornarono nella
sala principale, dove Ashley le indicò dall’enorme finestra un
solco ombreggiato in mezzo agli alberi. «Lo vedi
quello? È un sentiero che conduce alla strada principale. Lì il
terreno e più solido, c’è meno fango rispetto al vialetto
d’accesso alla casa. Non dovrai fare altro che seguirlo finché non
arrivi all’asfalto, ma poi se fossi in te
svolterei a destra lungo la strada e tornerei su dal vialetto, perché
nel frattempo si sarà fatto troppo buio per tornare dietro in mezzo al
bosco, il sentiero non è recintato e potresti finire nella direzione
sbagliata. Aspetta», disse frugando in un
cassetto della cucina, da cui tirò fuori un aggeggio simile a un paio di
bretelle mal piegate. «Prendila: è una torcia frontale».
Anastasia la
ringraziò – nonostante trovasse quel coso orribile e completamente fuori moda – e salì in
fretta nella sua stanza per infilarsi la tuta e le scarpe da ginnastica. Diane,
sdraiata sul letto con lo sguardo rivolto al soffitto, stava
ascoltando una canzone degli Imagine Dragons dal suo iPhone.
«Cosa mi
racconti?», le domandò con aria di voler fare conversazione,
togliendosi gli auricolari.
«Che quella Ashley è matta da legare. O meglio, è
lunatica».
«Si tratta di un
termine medico, dottoressa Hamilton?».
«Sì, viene
dal latino, ed è collegato alla credenza pagana secondo la quale la
pazzia era dovuta al fatto di essere stati investiti
dalla luce della luna piena».
Diane scoppiò
a ridere, mentre la rossa si toglieva i pantaloncini di jeans firmati e si
infilava in fretta gli scaldamuscoli e la felpa.
«Sono una ragazza alquanto pittoresca, direi. Dove
sono le mie scarpe da ginnastica?».
«Le ho messe sotto il letto. Beh, in fondo le
persone si trasformano in lupi mannari, quando c’è la luna piena.
È la stessa cosa, probabilmente. A proposito di pazzia, hai per caso
intenzione di uscire?».
«Sì»,
la modella si chinò per guardare sotto il letto. Le scarpe erano
lì, ma irraggiungibili. Si inginocchiò
per recuperarle, cercandole a tentoni. La voce di Diane le risultò
un po’ ovattata date le coperte: «Ehm…e perché?».
«Vediamo un
po’», Anastasia uscì da sotto il letto e si mise a contare i
motivi sulla punta delle dita. «Perché non ho mai avuto intenzione
di venire qui, perché odio questa casa sperduta
nel nulla dove non prende il cellulare manco ad invocare gli dei, perché
Ashley è una possibile psicopatica, perché Tyler e la sua
famiglia perfetta mi danno la nausea, perché Felix mi sta sul
cazzo…oh, ho già detto che non ho mai avuto intenzione di venire
qui?».
«Ehi, sei stata tu
ad accettare la mia proposta, quindi adesso non prendertela con me», si
mise subito sulla difensiva la bruna. «E poi fuori sta un cazzo di buio pesto».
«Non è buio
pesto», guardò fuori dalla finestra mentre si allacciava
le scarpe. Era abbastanza scuro, ma non del tutto. Il sole era tramontato ma il
cielo era ancora limpido ed illuminato da un diffuso
chiarore perlaceo ad ovest, e una luna bianca e rotonda stava sorgendo dagli
alberi ad est. «Inoltre ci sarà la luna piena, perciò non
sarà del tutto scuro nemmeno dopo il crepuscolo».
«Ahhhh»,
fece all’improvviso Diane, assumendo un’espressione divertita e
spaparanzandosi sul letto. «Hai bisogno di riflettere sui tuoi sentimenti
contrastanti per un certo Felix?».
«Cosa? No, no, no!»,
Anastasia scosse la testa, mentre Diane scoppiò a ridere.
«L’ho appena conosciuto, quel coglione, e se vuoi un’opinione penso che sia…».
«…dannatamente
attraente?», completò la frase l’amica.
«No! Non stavo per dire questo!».
«Ma
lo pensi».
La rossa sospirò.
«Va bene, è un fico da paura, e leggermente interessante», confessò portandosi le mani
ai fianchi e alzando gli occhi al cielo. «Ma non
ha niente a che fare con la mia voglia di uscire».
«Ne è davvero
certa, cara Miss Anastasia “mi farei aprire come una scatoletta di tonno
da un certo fotografo sexy dai capelli tinti di blu” Hamilton?».
«Sicurissima»,
fece un doppio nodo ai lacci e si rialzò in piedi. «Non
continuare a rompere il cazzo, Diane. Ho veramente bisogno di uscire,
altrimenti impazzisco, luna o non luna, fotografo o
non fotografo».
«Ah. Te la stai cavando davvero così brutta?».
«No», ma in un
certo senso era così, anche se non riusciva a spiegarsene il motivo. Non
poteva dirle che cosa aveva provato all’idea che degli sconosciuti si
fossero messi a frugare nel suo passato: era un po’ la stessa sensazione
di quando le veniva stuzzicata una ferita che non era
ancora guarita del tutto. Era stato uno sbaglio accettare quell’invito,
adesso se ne rendeva conto. Però ormai era
bloccata lì finché Diane non avesse deciso di andarsene.
«No, va tutto bene, ho solo voglia di uscire un
po’. Adesso. Ci vediamo tra un’oretta».
Anastasia si diresse verso
le scale, con la risata beffarda della bruna che la seguiva dietro la porta
chiusa e le sue ultime parole le riecheggiarono nelle orecchie.
«Puoi correre quanto vuoi…tanto non
riuscirai a fuggire!».
Una volta nel bosco la
modella respirò una boccata d’aria pulita e frizzante e
cominciò gli esercizi di riscaldamento. Si stirò
le membra con la schiena rivolta nel garage, lo sguardo verso gli alberi. Il
senso di minaccia quasi claustrofobico che aveva provato prima era sparito. Che
fosse per via di tutto quel vetro…la sensazione che là fuori
potesse esserci qualche malintenzionato intento a guardare dentro senza che loro
lo sapessero? Oppure era strana l’atmosfera anonima delle stanze che le
ricordava esperimenti da laboratorio, sale d’attesa
ospedaliere?
Fuori, si rese conto, la
sensazione di sentirsi osservata era sparita.
Cominciò a correre.
Era facile. Sì,
facile. Niente domande, niente Emily, nessuno che punzecchiava o ficcanasava, solo l’aria pungente e profumata e
l’elastico tonfo dei piedi sul tappeto di aghi di pino. Benché
avesse piovuto parecchio, l’acqua non riusciva a ristagnare in questo
terreno cedevole e drenante come invece faceva sul vialetto compatto e pieno di
solchi, e c’erano poche pozzanghere, e men che
meno lunghi tratti melmosi: solo chilometri di sentiero pulito e reso morbido
da strati su strati di aghi caduti dalle migliaia di pini, sotto le suole di un
paio di scarpe.
Per qualche motivo a lei incomprensibile,
in quel momento le ritornò in mente sua nonna materna: quando Anastasia
aveva appena sei anni le raccontò che, quando
da bambina si arrabbiava con un’amica, scriveva con il gessetto il suo
nome sotto le suole e continuava a scarpinare finché non si era
cancellato del tutto. Intanto che il gesso si consumava, anche il suo
risentimento sbiadiva sempre di più.
Quanto al lei, invece,
aveva l’abitudine di ripetere mentalmente un mantra, e continuava a
correre finché non riusciva più a sentirlo al
di sopra del battito del suo cuore e dei suoi piedi.
Quella sera, pur non
essendo arrabbiata con lui – o perlomeno, pur non essendolo più
– sentiva il proprio cuore che scandiva il ritmo del suo nome: Malcolm, Malcolm, Malcolm.
Giù, sempre
più giù in mezzo al bosco, continuò a correre tra le
tenebre che si infittivano ed i suoni sommessi della
notte. Vide pipistrelli scendere in picchiata nell’oscurità, e
udì animali balzare fuori dalle tane. Una volpe attraversò in un lampo
il sentiero davanti alla giovane e poi si fermò, superba ed arrogante, fiutando con il muso affusolato la scia del
suo odore mentre la oltrepassava di corsa nella quiete dell’imbrunire.
Facile, sì, quella
velocissima discesa simile ad un volo nel crepuscolo.
E non aveva paura, nonostante l’oscurità. Lì fuori gli
alberi non erano simili a spettatori silenziosi al di
là del vetro, bensì amichevoli presenze che la
accoglievano nel bosco, facendosi da parte rispettosi dinanzi ad Anastasia che
correva, rapida e un po’ ansimante lungo il sentiero.
La sfida sarebbe stata il
tratto in salita, quando sarebbe tornata indietro sul vialetto pieno di solchi
e di fango, e sapeva di doverci arrivare prima che il buio diventasse
così fitto da impedirle di vedere le buche. Perciò si mise a
correre più in fretta, al limite delle proprie
forze. Niente tempi da rispettare né obbiettivi
da raggiungere, non conosceva nemmeno le distanze. Superò con un salto
un tronco caduto e chiuse gli occhi per un istante – un folle istante nella luce sempre più fievole –
fingendo di essere in volo, senza dover mai toccare terra.
Finalmente scorse la
strada, un pallido serpente grigio nell’oscurità. All’uscita
dal bosco udì il chiurlo sommesso di un gufo e seguì il consiglio
di Ashley, svoltando a destra sull’asfalto. Poco dopo udì il
rumore di un’automobile dietro di lei e si fermò, facendosi da
parte sul ciglio della strada. Non voleva rischiare di essere investita, del
resto chi era alla guida non poteva certo aspettarsi
di imbattersi in un runner a quest’ora ed in un
posto del genere.
L’auto si
avvicinò rumorosa nel silenzio della sera, ed
Anastasia se la ritrovò quasi addosso, rombante come una motosega. L’abbagliò con la luce accecante dei suoi fari,
dopodiché sparì nel buio, la sua presenza segnalata solo dal
rosso delle luci posteriori simili a due occhi iniettati di sangue, sempre
più piccoli via via che si allontanavano.
Poiché il suo
passaggio l’aveva lasciata lì, a sbattere le palpebre, semiaccecata, attese un po’ nella speranza che i suoi
occhi si riabituassero all’oscurità, ma
ora la notte sembrava infinitamente più nera di qualche minuto fa, e di
colpo la modella ebbe paura di finire in un fosso sul ciglio della strada o di
inciampare in un ramo. Si frugò in tasca alla ricerca della torcia di
Ashley e se la agganciò in testa con una certa fatica. Se la sentiva
strana addosso, troppo stretta e al tempo stesso abbastanza allentata da farle
temere che potesse cadere a terra non appena avesse ripreso a correre. Ma almeno adesso riusciva a vedere il tratto d’asfalto
davanti a sé, con le sue righe bianche sui lati che scintillavano sotto
il fascio di luce.
Un’interruzione
sulla destra le mostrò che era arrivata in prossimità della
svolta, al che rallentò e girò l’angolo. Adesso Anastasia
era davvero contenta della frontale e, anziché correre, avanzava
più lentamente, girando cauta attorno alle pozze di fango ed evitando i
solchi nei quali avrebbe potuto rompersi una caviglia. Ciò nonostante
aveva le scarpe parecchio infangate e ad ogni passo le sembrava si trascinarsi
dietro un mattone: pulirle sarebbe stata una bella impresa, al suo ritorno. Un
vero schifo.
Cercò di ricordarsi
la distanza da casa… sei o settecento metri, magari? Desiderò
quasi di essere tornata indietro in mezzo al bosco, buio o non buio. Tuttavia,
parecchio più in su, la rossa vide la casa
simile al fato di un promontorio, con le sue pareti di vetro nudo che
risplendevano dorate nella notte.
Il fango le risucchiava i
piedi come se volesse trattenerla lì, al buio, perciò
digrignò i denti e costrinse le proprie gambe stanche ad accelerare
l’andatura. Era arrivata a metà percorso
quando udì un rumore giù in basso, sulla strada principale.
Un’auto che rallentava.
Non aveva un orologio e
aveva lasciato il cellulare in casa, ma di certo non potevano essere già
le sei, vero? Impossibile che avesse corso per
un’ora, le era sembrato molto meno tempo.
E invece eccolo lì,
il rumore del motore mentre l’auto svoltava nel vialetto e poi ancora il
rombo quando la persona alla guida inserì una marcia più bassa
per arrancare su per la salita, rimbalzando da una buca all’altra.
Anastasia si
appiattì contro la siepe per lasciarla passare, schermandosi gli occhi
contro il bagliore dei fari e sperando di non beccarsi schizzi di fango al suo
passaggio, ma con sua grande sorpresa l’auto si fermò, con
un’esalazione di gas di scarico simile ad una
nube bianca contro la luna, dopodiché udì il ronzio di un
finestrino elettrico e venne investita da una canzone degli Arctic
Monkeys al massimo volume, subito abbassato.
La ragazza avanzò
di un passo con il cuore che aveva ripreso a battere forte, come se avesse
corso molto più in fretta del normale.
La torcia era regolata in
modo da puntare a terra per illuminare il cammino, più che per
chiacchierare con qualcuno al buio, e non riuscendo a tirarla su, se la
sfilò dalla testa e puntò il suo fascio contro il viso del
ragazzo dentro l’auto.
Non che ne avesse bisogno,
però.
Sapeva già chi
fosse.
Malcolm Wilford.
«Hamilton?», domandò, quasi incredulo. Con la luce dritta negli
occhi, sbatté le ciglia e se li riparò con la mano. «Wow. Sei veramente tu? Non sapevo che… Cosa ci fai
qui?».
Silenzio.
Per qualche istante
Anastasia non capì cosa stesse succedendo. Che si fosse verificato un
orribile errore? Era possibile che lui non l’avesse affatto invitata, che fosse stata
solo una stupida idea di quella Ashley?
«Io…beh,
insomma, il tuo compleanno», borbottò la rossa. «Per caso tu
non…».
«Questo lo so, che
cogliona che sei!», scoppiò a ridere, con una folata nervosa di
fiato bianco nell’aria fredda. «Volevo
dire: cosa ci fai qua fuori? Ti stai forse allenando per una spedizione polare
o qualcosa del genere?».
«Stavo facendo una
corsetta», rispose quella, cercando di farla sembrare la cosa più
normale del mondo. «E poi non fa t-tanto freddo.
Freschino, piuttosto»,
e invece era parecchio infreddolita, ora che stava ferma, e smentì le
sue ultime parole rabbrividendo convulsamente.
«Forza, sali, ti do
un passaggio su fino a casa», si sporse avanti e aprì lo sportello
dalla parte del passeggero.
«Ho addosso…le
scarpe che ho addosso, sono tutte infangate…».
«Non preoccuparti, è una macchina a noleggio.
Adesso salta su, prima che ci congeliamo entrambi».
Anastasia girò
attorno alla macchina e, una volta dentro, il calore prodotto
dall’impianto di riscaldamento si diffuse di colpo nella
felpa e negli scaldamuscoli freddi e impregnati di sudore. Siccome il
fango le si era infilato addirittura nelle scarpe,
adesso aveva le dita dei piedi immerse in quella sostanza viscida. La ragazza
storse le labbra, aveva voglia di gridare per il disgusto.
Malcolm inserì di
nuovo la marcia e mise a tacere Do I Wanna Know?
con un colpetto del dito.
Il silenzio diventò
tutto ad un tratto assordante.
«Dunque…»,
disse il ragazzo guardandola di sbieco nello specchietto retrovisore.
«Dunque…»,
gli fece eco prontamente lei. Per quanto ci provasse, nemmeno in quel momento
riusciva ad apprezzare la compagnia di Malcolm. Perché doveva essere
schiava del passato fino a tal punto? Perché non poteva guardare avanti
e basta?
«È da tipo
agosto che non ci si vede», scosse i capelli neri, tamburellando le dita
sul volante. «Però caspita, cioè…mi fa piacere rivederti, Hamilton».
La ragazza non rispose.
Aveva solo voglia di
chiedergli come mai si trovasse lì. Perché lei? Perché dopo tutto quello che
era successo?
Perché? Perché? Perché?
Però non lo fece. Anastasia non aprì la bocca di
un millimetro, limitandosi a starsene seduta con lo sguardo fisso alla casa via
via che si avvicinavano.
«Mi fa davvero piacere rivederti»,
ripeté. «Allora, so che hai posato per Dior,
ultimamente…giusto?».
«Sì»,
rispose. Le parole successive suonarono false e stonate, come se stesse
mentendo, o raccontando storie a proposito di qualcun altro, un lontano
parente, magari. «Sì, ho posato per Dior all’inizio di questo
settembre».
«L’ho sentito dire, ho letto una tua
intervista su una rivista di moda. Io sono…davvero contento per te.
È straordinario, sai? Dovresti esserne orgogliosa».
«Ho posato insieme ad altre ragazze, quindi alla fine non è niente di
così speciale», la frase le uscì di bocca con una bizzarra
eco di amarezza, senza che ne avesse intenzione. Sapeva di essere bella, di
essere sicura di sé e fortunata. E lavorava sodo pur di apparire ancora
più bella agli occhi degli altri. Doveva essere orgogliosa di sé stessa, e infatti lo era. Lo era sempre stata.
«E tu
invece?», riuscì a dire.
«Sono da poco
diventato barista in una discoteca nel centro di Denver».
Discoteca, alcol e musica.
Il lavoro perfetto per lui. Anastasia sorrise: un sorriso quasi autentico, non
del tutto falso stavolta.
«Sono…molto
felice», soggiunse lui piano. «E poi senti, anche se frequentiamo
comitive diverse, possiamo dire che entrambi all’Old Denver’s Tales
ne abbiamo viste e fatte di tutti i colori, non ti pare?», le
lanciò un’occhiata nella spettrale luce verdognola proveniente dal
cruscotto. «E chi se le scorda più tutte quelle
ubriacature…le canne…quella volta in cui ero così strafatto
che mi sono spogliato e ho ballato nudo sul bancone…».
«Quella volta in cui
venisti buttato fuori a calci in culo dalla
proprietaria…», ribatté Anastasia, e poi desiderò di
non aver fatto un commento così sprezzante. Perché? Perché
era così sulla difensiva?
Ma Malcolm si limitò a ridere.
«Che figura di merda! Sono sicuro che qualche
stronzo ha ancora il video di me che ballo
nudo».
«Chi lo sa?»,
sorrise vagamente la rossa alzando le spalle.
I due restarono in
silenzio nell’ultimo tratto del vialetto, durante il quale Malcolm
dovette guidare con ancora più cautela a causa dei solchi sempre
più frequenti, e finalmente arrivarono sullo spazio ghiaioso davanti
alla casa, dove il giovane parcheggiò con una manovra fluida tra
l’auto a noleggio della rossa e la Land Rover
di Ashley.
Malcolm spense il motore e
per qualche istante rimasero seduti nella macchina buia a contemplare la casa,
e le persone che se ne stavano in bella mostra al suo interno come attori su un
palcoscenico, come aveva detto Felix. C’era
Ashley tutta affaccendata in cucina, china sul forno, mentre Tyler era chino
sul telefono nel salone. Felix invece guardava delle foto all’interno
della propria macchina fotografica, sprofondato nel divano giusto di fronte
alla grande vetrata. Diane non si vedeva da nessuna
parte: molto probabilmente – con grande invidia da parte della rossa
– era sul balcone a fumarsi una paglia.
Perché mi trovo qui? pensò di nuovo,
stavolta in preda ad una sorta di agonia. Perché
sono venuta?
A quel punto Malcolm si
voltò verso di lei, il viso illuminato dalla luce dorata che usciva a
fiotti dalla casa.
«Hamilton…»,
cominciò lui, proprio mentre la modella diceva:
«Ascolta…».
«Che
c’è?», domandò Malcolm. Lei scosse la testa.
«No, vai prima
tu».
«Parla tu prima, davvero. Non era importante».
Tutto ad
un tratto il cuore di Anastasia prese a battere velocemente e pensò
all’unica domanda alla quale desiderasse una risposta in quel momento.
Ora o mai più.
«Perché, Wilford?», gli chiese di punto in bianco, e lui
alzò gli occhi grigi, il viso pallido nell’oscurità.
«Perché
cosa?».
«Perché mi
trovo qui?».
«Oh, merda»,
abbassò lo sguardo sulle mani. «Sapevo
che me lo avresti chiesto. Forse non mi crederesti, se ti dicessi per dimenticare il passato e diventare amici
e tutto il resto».
La ragazza scosse la
testa.
«Non è per quello, vero? Hai avuto un anno
per rimediare, se proprio lo avessi voluto. Perché proprio ora?».
«Perché…»,
tirò un gran respiro, e quando Anastasia realizzò
che fosse molto nervoso si stupì più che mai. Le sembrava quasi
impossibile: non era mai accaduto che lui non avesse il pieno controllo di
sé; era sempre stato bravo con le parole, forse persino più di
lei. E Anastasia era già discretamente brava nel manipolare le persone.
«Perché…»,
ripeté, sfregiandosi le mani sudate una all’altra, osservandosele,
come se la risposta fosse lì, da qualche parte tra la pellicina che si
stava scorticando. Iniziò a torcersi le dita. «Perché
ho pensato che meritavi di saperlo. Meritavi che te lo dicessi io, faccia a faccia. Ho promesso…ho promesso a me stesso che te lo avrei detto in
faccia».
«Che cosa?»,
la modella si sporse in avanti.
Non era spaventata, solo
perplessa. Aveva dimenticato le sue scarpe bagnate e luride, e il puzzo di
sudore emanato dai propri indumenti. Ora non esisteva più niente, a
parte il viso preoccupato di Malcolm, pieno di una nervosa vulnerabilità
che la giovane non gli aveva mai visto prima d’ora.
«Giorno dopo giorno non posso fare a meno di sentirmi in colpa,
perché sento come se sia iniziato tutto da me», proseguì.
Si guardò le mani mentre Anastasia si limitava
a fissarlo confusa. «Sai, neanche quando ero un bambino
mi sono comportato bene. Ero cattivo, mi piaceva prendere in giro gli altri,
quelli diversi da me e dai miei
coetanei. Davo loro soprannomi crudeli, rubavo le loro merendine, sputavo
addosso ai loro faccini innocenti e qualche volta li picchiavo. Così,
per noia, Hamilton. Solo per noia».
«Dove vuoi arrivare,
Wilford?», gli chiese, non riuscendo più
a sopportare quella tensione. Non capiva cosa avesse a che fare tutto quello
con lei. Cosa c’entrava con il suo passato da bulletto?
«Vedi, quando facevo la quarta elementare, mi
accanii contro uno del primo anno. Era diventata la mia vittima preferita.
Adoravo farlo star male e vederlo piangere. Sono stato crudele, gli ho rovinato
la vita. È tutta colpa mia. Ero solo un bambino. Io…non potevo
immaginare», si passò le mani sulla
faccia. Aveva gli occhi lucidi e sembrava che stesse per piangere. Malcolm Wilford che si mostrava debole e vulnerabile. Diane non le avrebbe mai creduto.
«E chi
sarebbe?», domandò, mentre sentiva il cuore accelerare nuovamente.
Stette per qualche secondo in silenzio, per poi azzardare:
«È…è per caso una persona che…conosco?».
Malcolm non rispose e per
cercare di spezzare l’ansia Anastasia rise nervosamente.
«Sì, è
una persona che conosci», confermò, guardandola finalmente negli
occhi, nei quali la modella non scorse nemmeno un briciolo di allegria o
spensieratezza, solo una sorta di ferrea determinazione, come se stesse per
fare una cosa sgradevole ma assolutamente necessaria. «E quel bambino era
Toby Erin Rogers».
Note dell’autrice: Buongiorno/Buonasera a tutti. Eccomi qui con il settimo – wow, non ci credo
– capitolo di questa Long-Fic. Non so neanche
da dove cominciare, sinceramente. Anche questo capitolo si svolge ancora nel
passato, ma dal prossimo – o da quello ancora dopo – si ritorna nel
presente. Di Emily ancora nessuna traccia, Anastasia sembra iniziare a provare
una leggera infatuazione per Felix e finalmente abbiamo scoperto perché
Malcolm ha voluto “invitare” la nostra protagonista al suo compleanno.
E, a quanto pare, Anastasia conosceva Toby già
prima del rapimento.
Lasciatemi una recensione
e fatemi sapere cosa ne pensate, i vostri pareri sono fondamentali! E,
nonostante non risponda qualche volta, sappiate che leggo sempre con infinito piacere tutte le meravigliose recensioni.
Credo che io qui abbia
finito. Non so mai che cosa dire nelle “note dell’autrice”.
Au revoir,
S h y. (Quando la smetterò di cambiare nickname? Probabilmente mai.)