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Autore: Rei_    17/01/2016    6 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Nicolò continuò a fissare quell'ultima riga. Le mani gli tremavano, il cuore gli batteva incessantemente.
Non poteva crederci.
In un attimo, rivide Michele dentro l’ascensore, accasciato a terra, sconvolto dalla paura, che chiedeva a qualcuno di non ben precisato di tirarlo fuori. Cercò di immaginarselo da piccolo mentre veniva buttato in uno sgabuzzino. L'immagine era ripugnante, fin troppo per poterci pensare un attimo di più. Rivide quello schiaffo che gli aveva dato sulle scalinate e il suo sguardo confuso e spaesato mentre non si difendeva, non si ribellava. Risentì quelle parole incerte quando a stento cercava di ribattere alle sue parole nel talk show.
Era quello il vero Michele.
E lui, ora, era il primo ad averlo scoperto, perché quella lettera non era mai stata conclusa né inviata, perché Michele non aveva avuto il coraggio necessario e per qualche motivo l'aveva conservata, forse pensando un giorno di spedirla.
Ripiegò i fogli dentro la busta e rimise a posto il portafoto, senza far rumore. Tornò ad infilarsi silenziosamente sotto le coperte, fissando l’altro come per trovare dipinto nel suo volto un qualche senso inesistente a tutte quelle cose che aveva letto.
Finché, forse per la troppa vicinanza del suo fiato, Michele aprì gli occhi.
 
 
*
 
 
«Ma… che ci fai qui?» chiese, con la voce impastata dal sonno e dall’alcool, rivolto ai due bagliori verdi che lo stavano inquietantemente fissando.
«Beh…» Andreani si girò nel letto, «è che sei crollato nel taxi, ti ho aiutato ad entrare in casa e vista l’ora sono rimasto. Scusa».
Michele si mise seduto, accedendo l’abat-jour, riacquisendo lentamente i vaghi ricordi della sera prima. Non ricordava neanche di essere arrivato a casa, e si rese conto con un brivido che, se l’altro lo aveva addirittura portato dentro, doveva essere stato in pessime condizioni.
«Figurati, non ti devi scusare» rispose, pensando di aver avuto un tono troppo maleducato, «non riesci a dormire?»
«No», ammise Andreani.
«Aspetta, vado a fare una camomilla».
Si alzò per andare in cucina, sentendo un mal di testa atroce. Non si aspettava di avere Andreani in casa, e si vergognò di se stesso notando tutto il macello che aveva lasciato in giro. Cercò di svuotare velocemente il lavello mentre i passi silenziosi dell’altro lo raggiungevano.
Il capogruppo del Fronte si sedette al tavolo, senza fare il minimo rumore.
«Scusa, c’è un po’ di casino».
«Scusami tu».
Michele si bloccò per un secondo, confuso.
«Per cosa?»
«Ho fatto una cosa che non dovevo fare» rispose lapidario l’altro.
«Bere birra sul tetto di Montecitorio?»
«No, darti quello schiaffo».
Michele si girò per guardarlo, ritrovandosi completamente spaesato dall’espressione dell’altro, completamente abbattuta.
«Non c’è bisogno che ti scusi di nuovo» rispose, imbarazzato. Andreani iniziò a guardarsi intorno, mentre si mordeva nervosamente l’unghia del pollice.
«Ascolta. Non ti arrabbiare, io…» si chiuse il viso fra le mani per diversi secondi, «non riuscivo a dormire, così ho curiosato per la tua stanza. E ho letto la lettera nel portafoto».
Michele cercò di ricordarsi a cosa si riferisse. Aveva quel portafoto da anni: dentro ci aveva accumulato diversi ricordi sparsi, però c'era solo una lettera che aveva scritto e mai inviato. E mai neanche buttato sperando, un giorno, di avere davvero il coraggio di consegnarla ad Antonio, il segretario del circolo di Cutro e l’uomo che lo aveva accolto.
Guardò Andreani, ferito da quella notizia. Lui non avrebbe mai dovuto leggerla né, a maggior ragione, guardare tra le sue cose. Iniziò a tremare, cosciente che qualcuno ora conosceva ciò che aveva nascosto per anni, e quel qualcuno era proprio davanti a lui.
«Stavo cazzeggiando» continuò lui, per una volta senza la minima traccia di spavalderia nella voce, «non potevo immaginare cosa ci fosse scritto».
«Beh, e ora sei contento?» replicò Michele, scocciato.
«No!» lo fissò, più rammaricato che mai, «ascolta, mi dispiace davvero, non avrei dovuto farlo. Ma ascoltami, non puoi continuare a chiuderti dentro una maschera, non ti serve a niente nascondere ciò che sei».
Michele non disse niente mentre versava la camomilla per entrambi e prendeva la sua tazza, portandosela in camera.
Lasciò fuori dalla porta tutte le cose di Andreani, ammucchiandole in malo modo, e si chiuse dentro a chiave.
 
 
*
 
 
Era mattina inoltrata quando riaprì gli occhi.
Il divano di Martino era scomodo, in più senza coperte aveva continuato a svegliarsi per il freddo, ma nonostante questo era così stanco che ogni volta si era riaddormentato.
Il suo primo istinto, vedendo le sue cose fuori dalla stanza di Martino, era stato quello di insultarlo dietro la porta e andarsene. Subito dopo si era però ricordato di essere lui nel torto, quindi aveva incassato, ma con la prospettiva di non lasciare chiusa la questione. Guardò l’orologio sul telefono. Erano già le undici, era molto difficile che Martino dormisse ancora.
Si avvicinò alla sua stanza, porgendo discretamente l’orecchio alla porta. Non sentì alcun rumore.
Fece un respiro e bussò.
«Michele?»
Passarono diversi secondi prima che Nicolò sentì il rumore della chiave nella toppa.
«Che ci fai ancora qui?»
Il giovane aveva gli occhi cerchiati di rosso, e un viso tutt’altro che riposato. I capelli scuri erano più spettinati che mai, ma il suo sguardo tradiva lo stupore di averlo ancora in casa.
«Beh, non me ne sono mai andato…»
Si avvicinò di più a Martino e lo fissò negli occhi, serissimo.
«Senti, non sono abituato a queste situazioni» ammise, «mi dispiace davvero per quello che hai vissuto, e mi dispiace di aver letto le tue cose. Il fatto è che da quando ti ho dato quello schiaffo mi sono sentito in colpa verso di te, e tutto quello che ho fatto fino ad oggi è stato provare a rimediare al mio errore. Quindi, per favore, proviamo a trovare un punto di incontro».
Martino sembrò pensarci a lungo, ma fortunatamente non c’era più traccia del rancore di ieri sera.
«Vieni, facciamo colazione».
Lo seguì in silenzio in cucina, dove Martino non proferì parola mentre apparecchiava la tavola e preparava la moka.
Quando poi si sedettero, accadde l'inaspettato. Martino iniziò a raccontare.
I primi furono frammenti di ricordi confusi tra di loro. Frasi appena sussurrate che parlavano di un bambino che in quel momento sembrava essere un'altra persona rispetto a lui. Nicolò cercò di aiutarlo, restando in silenzio per la maggior parte del tempo ed esortandolo con un cenno a continuare quando Martino interrompeva quel flusso continuo di parole, via via sempre più sicure, più limpide.
«Quella volta ero in cortile, stavamo giocando. Sono stato un coglione, perché mi sono allontanato. Mi hanno raggiunto, volevano farmela pagare perché qualche giorno prima non avevo suggerito a uno di loro. Allora mi hanno preso un braccio e hanno cominciato a tirare…»
La voce era poco più di un sussurro, che a quel punto della storia si ruppe di colpo.
Nicolò vide spuntare una prima lacrima. Nicolò si morse forte il labbro per non avere la stessa reazione, distogliendo lo sguardo. La verità era che partecipare silenziosamente a quel dolore lo stava facendo diventare anche un suo dolore.
Istintivamente, gli posò una mano sulla spalla. Poi aggiunse anche l'altra e si avvicinò, stringendolo a sé, senza metterci troppa forza. Lasciò che la testa di Michele si appoggiasse sul suo petto, nascosta dalle sue braccia, come se in quel momento ci fosse stato il mondo intero spettatore pronto a vedere le sue lacrime e la sua debolezza, e lui fosse incaricato di proteggerlo per non mostrare a nessuno la verità dipinta sulla sua faccia.
Le lacrime di Martino formarono una macchia umida e tiepida sulla sua camicia. Lasciò che finisse da solo, che si spegnesse lentamente tutto quanto, che ogni motivo di quelle lacrime si esaurisse.
Quando si staccò, si creò un imbarazzante silenzio, interrotto solo da qualche singhiozzo e soffiata di naso.
«Forse è meglio se riposi ancora un po’, che dici?» mormorò dopo un po’ Nicolò, notando che l’altro aveva il viso stravolto dalla stanchezza.
«Sì, hai ragione. Scusami se ti ho sbattuto fuori così».
«Ma va, figurati» cercò di sorridere.
Martino lo accompagnò alla porta. In qualche modo, anche con gli occhi ancora gonfi dal pianto, appariva più sereno di prima.
Si strinsero la mano, e bastò uno sguardo veloce per dirsi quei “grazie” che nessuno dei due era in grado di esprimere a parole.
 
 
*
 
 
Adorava i suoi ciuffi biondi disordinati, quelli che quando andava in bici gli ondeggiavano davanti agli occhi. Anche le ragazze ne andavano matte, e forse era anche grazie al suo fascino che la giovanile universitaria che lui dirigeva poteva vantarsi di essere la più grande di tutta Roma.
Quel giorno di fine ottobre, Thomas parcheggiò la bicicletta nel suo solito posto. Era famoso in università per quella bicicletta variopinta, l’esatto opposto del concetto di “maschile”. Ma sua sorella l’aveva decorata personalmente, quindi non se ne sarebbe mai separato, nonostante il giudizio altrui.
Subito la sua espressione si fece perplessità quando vide un altro ragazzo davanti allo Spazio dello Studente.
«E tu che ci fai qui? Oggi abbiamo riunione noi! Ancora non li hai imparati i turni?» sbottò di colpo.
L’altro ragazzo si girò, alzando un sopracciglio. Era solito reagire con modi da signore, da vero democristiano, come commentava sempre Thomas, che apprezzava decisamente poco quello studente vestito fin troppo bene, con i capelli sempre freschi di parrucchiere e un taxi che lo prendeva e portava in università ogni santo giorno.
«Veramente no. La segreteria mi ha informato che per questa settimana vi siete fatti spostare» rispose placidamente, perché uno come lui non alzava mai la voce. Non ne aveva mai avuto bisogno uno come Riccardo Marchesi.
«La segreteria avrà capito male, e infatti come vedi il calendario è rimasto uguale» ribatté Thomas.
L’altro guardò il foglio appeso alla porta, con scarso interesse. Alzò le spalle.
«Ormai ho avvertito i miei. Vorrà dire che voi andrete domani al posto nostro».
«E perché mai dovresti averla vinta tu, damerino?» Thomas gli si piazzò faccia a faccia, squadrandolo dall’alto in basso. Era abituato a trattare con Riccardo ormai. L’importante era non lasciarsi mettere in soggezione dal suo ego smisurato.
«Perché noi discutiamo di cose importanti, come aprire veri progetti per gli studenti. Non perdiamo tempo a organizzare grigliate e feste idiote dove la gente va a drogarsi».
Gli occhi di Riccardo scintillarono in segno di sfida. Thomas non arretrò.
«Certo! Ecco arrivato Riccardo Marchesi, il paladino degli studenti! Mi raccomando, attenzione a non sporcarvi troppo le mani con quei progetti, credo che la tua giacca costi quanto il reddito di uno studente medio!»
Continuarono a discutere animatamente per qualche minuto, menando colpi su colpi. Tra di loro finiva sempre così, perché nessuno dei due poteva darla vinta all’altro, era una questione di principio. Ad un certo punto, però, dei passi nei corridoi li costrinsero a smettere.
Un insolito gruppo di giovani aveva fatto la sua comparsa, ciascuno dotato di testa rasata, felpa nera, catenina al collo e anfibi.
Non era poi difficile riconoscerli. Anche uno stupido avrebbe saputo chi fossero: tutti avevano visto persone vestite in modo simile nei telegiornali solo qualche giorno prima, mentre assaltavano un circolo di partito a Bologna. Ma nessuno dei due aveva mai considerato l’idea di avere a che fare con un gruppo del genere lì, dentro l’università.
Thomas e Riccardo si fissarono per un minuto buono, incerti su chi dovesse parlare, ma fu Marchesi il primo a non aspettare di ottenere un permesso.
«E voi che volete?» chiese, senza nascondere l’ostilità.
«Smammate. Quest’aula adesso è nostra» annunciò uno della banda. Si avvicinò a loro, ma nessuno dei due si mosse di un millimetro.
«No, questa è un’aula ad uso delle organizzazioni studentesche. Se volete utilizzarla dovete chiedere il permesso alla segreteria.
Ciascuno ha il suo turno qui» rispose Thomas, evitando il più possibile il contatto visivo.
«Ah davvero?» tutti risero, «invece adesso è nostra, peccato!» Marchesi fece uno scatto in avanti. Tutti lo fissarono, evidentemente desiderosi di vedere le scintille.
«Chiamo la polizia se non ve ne andate. È un nostro diritto stare qui». Il gruppo intero scoppiò di nuovo a ridere, sbeffeggiandolo apertamente.
«Chiama pure, dai! Vedrai se arriveranno!»
Thomas osservò Riccardo agitarsi come un’anima in pena mentre diceva diverse parole concitate al telefono, evidentemente sprovvisto di un interlocutore che lo prendesse sul serio. Neanche quello era un fatto nuovo. La polizia faceva finta di non capire, o prometteva di venire e non arrivava, anche quelle erano tutte scene già viste e sentite. Chiuse la chiamata, furioso. Uno come lui non era per niente abituato a non far valere i suoi diritti.
«E adesso smammate, pischelli» rilanciò una delle teste rasate. Thomas e Riccardo si guardarono di nuovo, incerti se obbedire o meno. Nessuno dei due era mai stato abituato ad abbassare la testa, specialmente davanti a dei prepotenti, ma quelli erano in tanti, e loro erano solo due.
«Noi da qui non ce ne andiamo» annunciò Thomas.
Uno del gruppo di teste rasate si fece avanti, estraendo un tirapugni dalla tasca e infilandoselo tra le dita. I due ragazzi indietreggiarono istintivamente.
«Smammate con le buone o con le cattive?»
Thomas si morse il labbro inferiore, fissando prima lo sconosciuto e poi Riccardo. Indietreggiare sarebbe stato più che istintivo, scappare anche, ma qualcosa nella sua testa gli diceva che non doveva farlo. Non se lo sarebbe mai perdonato. Che razza di vile sarebbe stato?
Che esempio poteva essere per i suoi compagni? Si lasciò raggiungere, tremando leggermente.
Non doveva indietreggiare, non doveva indietreggiare…
Si accorse solo l’istante dopo che nemmeno Marchesi aveva indietreggiato. Se ne accorse proprio quando il pugno metallico colpì il viso candido del suo giovane avversario politico, mandandolo a terra tra schizzi di sangue. Thomas restò immobile, paralizzato
dall’orrore.
«E adesso smammate. Se vi fate vedere qui di nuovo ve la faremo pagare. L’aula ora è nostra».
Entrarono dentro senza chiedere il permesso. Erano circa una decina, ma dalle urla e dal vociare allegro sembravano un centinaio. Tutti i quadri e le foto vennero buttati a terra tra l’euforia generale. Lo statuto dell’aula, appeso al muro, venne stracciato e gettato via.
Thomas girò immediatamente lo sguardo, come se la sola visione gli bruciasse gli occhi. Si chinò su Marchesi, il quale non aveva ancora emesso un suono, anche se era ancora vigile e cosciente. La vista del sangue addosso al suo principale avversario gli provocò subito una repulsione istintiva.
«Andiamo. Ti porto in infermeria».
«Ho il mio medico privato» protestò Riccardo, mentre sputava il sangue che ancora aveva in bocca.
«Sì, ma ti devi almeno disinfettare».
Lo trascinò via a fatica da quella che un tempo era stata la loro aula. Non erano mai stati insieme lì dentro nello stesso momento, ma era la loro casa, anche se in fondo si trattava di due case diverse che coesistevano. E ora un gruppo di fascisti gliel’aveva rubata, con un’ingiusta prepotenza.
Thomas non smise di tremare di rabbia nemmeno quando lui e Riccardo furono arrivati all’infermeria, dove spiegarono l’accaduto. L’infermiera li incoraggiò a chiamare di nuovo la polizia, ma era inutile, e loro erano abbastanza svegli da saperlo. Tutti gli organi di ordine pubblico erano stati infiltrati da quei gruppi, per quello potevano permettersi di fare ciò che volevano. I telegiornali non facevano che dare notizie di intere squadre di forze dell’ordine che si rifiutavano di intervenire in quelle situazioni, e i gruppi di comando, per qualche motivo, non avevano ancora preso provvedimenti.
Tutti tacevano, perché conveniva tacere.
«Dobbiamo fare qualcosa» esordì Riccardo, che per tutto il tempo della medicazione non aveva pronunciato una parola.
«Sì…» rispose Thomas, con scarsa convinzione. Non avrebbero potuto fare niente, e lo sapevano benissimo, anche se nei fatti erano in tanti, perché loro due insieme rappresentavano il collettivo e
l'associazione più grande dell’Università La Sapienza. Ma entrambi sapevano che un’organizzazione può vivere solo insieme agli studenti, e tutti si sarebbero presto tirati indietro una volta visto il rischio. Forse qualche coraggioso sarebbe rimasto, ma non sarebbe servito a molto.
Marchesi capì al volo le intenzioni del suo nemico storico.
«Non dirmi che vuoi tirarti indietro. Proprio tu, che parli sempre di coraggio!» gli gridò contro.
«Guarda il tuo livido! Ecco cosa ce ne facciamo del coraggio! Non è un gioco questo, io e te siamo solo in due e non arriviamo a cinquant'anni insieme, cazzo!» rispose Thomas, gridando più forte. Odiava essere punto sul coraggio. Non lui, che durante le assemblee parlava di rivoluzione e che aveva fatto mettere un quadro di Mao Tse Tung in quell’aula che ora non gli apparteneva più.
«Sai quanti anni avevano i partigiani quando combatterono il fascismo?» chiese Riccardo.
«Non tirare in mezzo i partigiani!» sbuffò Thomas.
«Beh, sai cosa? Non mi importa. Fa’ quello che vuoi, scappa pure, come farebbe un vero comunista. Io domani chiamerò a raccolta tutte le associazioni e i sindacati universitari, e vedremo di riprenderci la nostra aula. Voi deciderete se presentarvi o fare i codardi».
Thomas sentì risalire il suo odio per quel ragazzo. Strinse i pugni per placarlo, uscendo dall'infermeria.
Quella notte la trascorse a pensare. Da una parte c’era la sua carriera universitaria quasi perfetta, dall’altra la politica, la democrazia, la giustizia, tutti quei valori che gli insegnavano nei corsi universitari e che ora non erano più concetti astratti dentro fogli di appunti, ma valori concreti per i quali toccava darsi da fare per difenderli.
Il giorno dopo, all’assemblea convocata da Marchesi con tutte le associazioni e i sindacati studenteschi, non fu molto difficile contare in quanti sarebbero stati. Due.
Due persone che a malapena si erano mai parlate e che ora si ritrovavano dalla stessa parte della barricata, perché erano rimasti da soli.
«Ci toccherà lavorare insieme».
Marchesi gli allungò la mano, offrendo per prima la tregua. Thomas fissò prima lui poi la sua mano, notando l’enorme sforzo che stava compiendo nel dargliela, e le loro mani si strinsero, per la prima volta senza rancore.
 
 
*
 
«Non so se ti sei reso conto di ciò che hai fatto».
Michele osservò la moquette e i mobili di legno scuro. Non era mai stato dentro quell’ufficio, molto più spartano rispetto a quello di Marchesi. Non c’erano mobili pregiati, né quadri astratti, né onorificenze. Vi era solo uno schedario grande tutta la parete e poche foto sparse.
«Sì. Sono stato assente due giorni, e non ho partecipato alla votazione finale sulla prima legge della Carta Antifascista» rispose Michele, come un bravo scolaretto. Almeno avrebbe avuto la soddisfazione di prenderlo in giro.
Quando era tornato a Montecitorio, dopo quell’insolita giornata in cui aveva, per la prima volta, parlato della sua vita con qualcuno, la sua paura di affrontare il capogruppo si era attenuata di molto, sostituita dalla rassegnazione per l’inevitabilità degli eventi. Fin da quando aveva deciso di stare su quel tetto, sapeva benissimo che prima o poi avrebbe dovuto affrontarne le conseguenze. In qualche modo,
l’insolita vicinanza con il capogruppo del Fronte gli aveva fornito anche un po’ del suo coraggio e della sua faccia tosta.
Pasqui si alzò in piedi. Era parecchio più alto di lui, tanto da costringerlo a tendere il collo per non interrompere il contatto visivo. Quando vide l’uomo muoversi, Michele indietreggiò istintivamente, ma lui lo oltrepassò, arrivando fino allo schedario in fondo alla sala per armeggiare con degli enormi raccoglitori. Michele si tenne le mani in mano, incerto su cosa sarebbe successo, in qualche modo intimorito dal silenzio dell’altro.
Alla fine, il capogruppo tornò verso di lui con un foglio A4 dentro una busta di plastica, che gli sbatté in faccia senza alcuna gentilezza.
«Lo riconosci?»
Lesse qualche riga. Lo riconosceva bene, era il patto di fedeltà che ogni deputato di Sinistra Democratica aveva firmato prima di essere eletto: quel patto che impegnava tutti a rispettare la Carta Antifascista, facendo di quei valori un impegno attivo
nell’approvazione di tutte le sue leggi.
La sua firma in calce gli dondolò davanti agli occhi. L’istante dopo Pasqui estrasse il foglio dalla busta e Michele sussultò, ritrovandoselo in mano.
«Hai trasgredito alla tua stessa firma. Adesso straccia quel documento» sorrise sprezzante.
Il giovane deputato strinse il foglio tra le mani. Non poteva parlare sul serio. Lo stava solo provocando.
«No. Io credo ancora in quello che ho firmato» gridò, stupendosi di quanto forte riusciva a gridare e di quanto poco era abituato a sentire il suono della sua voce alta.
Pasqui continuò a fissarlo con superiorità.
«No, non ci credi. Ieri è stata approvata una di queste leggi. Tu dov’eri?»
«Stavo male» rispose piano, conscio che per quanto fosse vero non sarebbe stato creduto.
Pasqui scoppiò a ridere, senza la minima traccia di gioia.
«Hai la minima idea delle condizioni in cui abbiamo fatto politica noi, alla tua età? Hai idea del significato delle parole scritte su quel foglio? Non sono disposto a tollerare la tua insolenza un minuto di più. Straccialo subito o lo straccerò io!»
Era fin troppo serio nella sua freddezza. Michele strinse il foglio più forte.
Non lo avrebbe fatto. Non gliel’avrebbe data vinta.
Era salito su quel tetto in un momento di amarezza e di debolezza. Non poteva essere quella stupidaggine a rovinare per sempre la sua carriera politica.
«No» gridò di nuovo.
Trattenne quel foglio con tutte le sue forze, ma il suo capogruppo riuscì a prenderglielo, aprendogli le mani con la forza. Quando si rese conto che stava davvero per strapparlo non ci vide più. Spinse Marcello Pasqui con tutta l’energia che aveva in corpo, facendolo appena barcollare indietro.
Il foglio cadde a terra. Quel fragile e prezioso documento dove c’era scritto tutto il suo impegno da parlamentare si era un po’ stropicciato, ma era ancora intero. Si chinò per raccoglierlo, sentendo il suo cuore minacciare di esplodere di lì a poco per quello che era appena successo.
Alzò lo sguardo verso Pasqui, incerto. Lui, di nuovo, lo fissò con sufficienza, come si guarda un insetto. Non sembrava avere più voglia di discutere. A quanto pareva, il suo scopo era solo provocarlo, e lo aveva raggiunto benissimo.
«Rimettilo nello schedario e sparisci. Chiudi la porta». Pasqui tornò a sedersi alla sua scrivania mentre il giovane, lentamente, ubbidiva.
La porta si chiuse con un tonfo sordo, riportando il silenzio in quell’angolo di palazzo.
 
 
*
 
 
Da quando era arrivato a palazzo Montecitorio stava fumando più del solito. Chissà come stava apparendo, in quel momento, agli occhi dei suoi colleghi. Era sempre stato abituato a prendere la vita con leggerezza, e ora non faceva a meno di chiedersi se il peso di ciò che aveva provato il giorno prima era abbastanza forte da cambiargli l’espressione del viso.
Il capogruppo del Fronte sistemò i fascicoli, rispose alle mail, studiò la prossima legge che avrebbero votato e chiamò la sede di Milano per informarsi sul loro operato. Il lavoro di solito riusciva a rilassarlo, ma ogni volta che alzava lo sguardo oltre lo schermo e vedeva Chiarelli seduto al PC di fronte a lui, sentiva il sangue ribollirgli nelle vene. Non aveva certo dimenticato che lo aveva deriso.
Quell’articolo di giornale era stato di pessimo gusto. Certo, erano solo stupidaggini di gossip. Ma perché qualcuno aveva deciso di scriverci addirittura un articolo così lungo, equivocando volontariamente ciò che effettivamente ritraeva la foto rubata?
Chiuse il PC con uno scatto secco. Chiarelli sussultò per il rumore improvviso.
«Io vado» annunciò.
«Dove pensi di andare?» gridò il suo vice.
«Dove cazzo mi pare» ribadì lui.
«Io e te faremo i conti, stronzo!»
Quell’ultimo urlo gli arrivò soffuso, perché aveva già chiuso la porta. Tornò in cortile e si accese l’ennesima sigaretta. Era già sera, e lui non se n’era accorto. Quell’assurda giornata era passata, in qualche modo.
Sentiva il bisogno di stare da solo a pensare, e in quel momento stava pensando a Michele. Alla sua storia, alle sue lacrime, all’abbraccio che gli aveva dato.
Aveva provato a immaginare cosa poteva essere realmente alzarsi tutte le mattine e avere paura di essere picchiati dal padre o dai compagni di scuola. Era una cosa così lontana dalla sua vita che faceva veramente fatica a figurarsi in quella condizione, e questo lo riempiva di sconforto. Nonostante tutte le scuse che gli aveva fatto, non riusciva ancora a dimenticare quello schiaffo e come si era rivolto a lui quando erano stati in trasmissione insieme.
Buttò la cicca a terra. Non era da lui restare a rimuginare e subire gli eventi. Era il momento di riappropriarsi del suo spirito combattivo. Se il senso di colpa lo tormentava, allora avrebbe agito. Avrebbe aiutato Michele, come aveva fatto il giorno prima.
 
 
*
 
 
La mattina dopo, trovò Thomas curvo sul giornale, con il ciuffo biondo che gli nascondeva il viso e la colazione davanti a sé, ancora intatta.
Michele alzò un sopracciglio. Era facile capire come lo stesse ignorando di proposito. In quei primi mesi in Parlamento non aveva mai visto Thomas leggere un giornale. Gli arrivò molto vicino, restando comunque alle sue spalle. Lui si irrigidì, ma non si voltò.
«Thomas?»
Il deputato di Roma fece finta di niente e girò una pagina. Michele stava iniziando a innervosirsi per quell’atteggiamento, ma doveva assolutamente risolvere quella situazione. Erano colleghi, non potevano ignorarsi per il resto della loro vita solo perché lui aveva saltato un voto, per quanto fosse pesata la sua assenza.
«Se mai te lo stessi chiedendo, sono stato convocato nell’ufficio di Pasqui. Stava per strappare il mio Patto di Elezione davanti a me». Tacque, cercando di scorgere l’effetto di quella notizia, anche se non riusciva a vedere il suo collega in faccia.
L’altro, in risposta, si avvicinò la tazzina di caffè e vi mescolò nervosamente lo zucchero.
«So che qualunque cosa ti dirò non giustificherà la mia assenza. Però volevo almeno chiederti scusa, perché so quanto sono importanti per te quelle leggi. Sono stato su quel tetto per un eccesso di emotività, non per scarso interesse verso il lavoro del nostro partito».
Si ritrovò fulminato dagli occhi di Thomas, che facevano capolino dai ricci biondi. Abbassò lo sguardo, non aspettandosi una reazione tanto diretta. Deglutì forzatamente, sentendo la gola improvvisamente secca. Non era per niente abituato a fare certi discorsi. Il giorno precedente aveva pensato a lungo al modo migliore per affrontare la situazione, imparando a memoria quelle due frasi che sarebbero state più adatte a mantenere una certa dignità, ma l’effetto non corrispondeva a quello che si era immaginato.
«Sai, Francesco Venturi un tempo era il migliore amico di Pasqui. Quando perdi un caro amico, anche a distanza di anni, ti dimentichi il galateo istituzionale, soprattutto quando ci sono in ballo delle leggi che, in qualche modo, stiamo votando in suo onore».
Non sembrava per niente arrabbiato con lui, nonostante il suo sguardo non fosse per niente il suo solito scanzonato.
«Posso capire» mormorò il giovane.
«Non puoi» ribatté Thomas, smettendo finalmente di far finta di leggere il giornale e buttandolo in un angolo, «non hai mai vissuto tutto questo. Noi eravamo qua mentre tutto accadeva davanti ai nostri occhi, mentre il partito nasceva in un mare di litigi, mentre i fascisti vandalizzavano le nostre sedi e mentre Francesco veniva ucciso. Non sai cosa vuol dire fare politica e rischiare la vita».
Michele fissò il pavimento. Erano rare le occasioni in cui Thomas era serio, e quando succedeva sapeva bene di non poter rispondere a dovere.
Il deputato biondo fece un lungo respiro per calmarsi. Poi si alzò e gli appoggiò una mano sulla spalla.
«Però, non è colpa tua se non hai vissuto i nostri tempi bui. E ha poco senso, adesso, rivangare il passato. Siediti e mangia qualcosa».
Il giovane accettò volentieri l’invito di pace. Si fece portare una brioche alla crema e un caffè lungo. Gli ritornò un po’ il sorriso. In fondo, gli era mancato stare con Thomas dentro l’aula e ascoltare le battute che si inventava quando si annoiava.
«Michele?»
Si voltò subito a quella voce familiare, notando subito il suo amico più anziano in piedi, con un giornale che pendeva dalla mano e uno sguardo cupo e penetrante dipinto in faccia.
«Ciao», Michele tentò subito un sorriso incerto mentre indicava Thomas con lo sguardo, come per fargli capire che ora era tutto a posto, «mi dispiace davvero per essermi perso il voto».
Arturo sospirò e si sedette nel posto libero, meditabondo.
«Qualcosa non va?»
L’anziano non rispose. Posò un giornale sul tavolo, sfogliandolo fino alla pagina dieci. Michele sentì un tuffo al cuore, mentre sentiva il caffè iniziare a fare il percorso inverso dentro il suo stomaco. Davanti ai suoi occhi c’era di nuovo quella foto, affiancata da quella più vecchia del loro bacio.

 

IL FUOCO DELLA PASSIONE ACCENDE LA CAMERA!

Un fotografo anonimo ha immortalato Michele Martino (SD) e Nicolò Andreani (FPI), mano nella mano all’uscita da Montecitorio all’una di notte. I due erano già stati protagonisti della campagna #WeLoveRights, creando non poco scompiglio nel dibat-
 
Prese la pagina del giornale e la appallottolò in una mano, senza finire di leggerla. Impresse nel pugno tutta la forza che aveva, per poi mollare la presa e lasciare la pagina accartocciata sul tavolo.
Arturo e Thomas si avvicinarono a lui, evidentemente preoccupati dalla sua reazione. Il più anziano lo prese per entrambe le spalle con dolcezza, spalancando gli occhi cristallini.
«Michele, questo non è un giornale di gossip, ma il Corriere della Sera. Questa attenzione mediatica non è normale, qualcuno sta cercando di ridicolizzare te o Andreani. Devi mantenere il sangue freddo, capito?»
Il giovane abbassò lo sguardo, cercando di non mostrare la sua frustrazione ai compagni. Sentiva l’infantile bisogno di piangere o mettersi a urlare, solo quello poteva fare davanti alle cose da cui non poteva difendersi.
Dentro il bar, diverse paia di occhi erano voltati verso di loro. Michele dovette fare molti respiri per riuscire a controllarsi. Non poteva mostrarsi debole, soprattutto non lì dentro.
«Beh? Che succede qui?»
Nicolò Andreani si palesò con un caffè in mano, facendo passare lo sguardo da Michele al giornale appallottolato.
Il giovane parlamentare sussultò quando lo vide dispiegare la pagina per leggerla, ricordando bene la reazione che aveva avuto solo pochi giorni prima. Nicolò Andreani, tuttavia, restò impassibile mentre leggeva, scorrendo con calma gli occhi chiari fino alla fine della pagina.
Appallottolò di nuovo il foglio di giornale e fece canestro nel cestino lì vicino, scoppiando subito in una sonora risata. Tutti si voltarono a fissarlo.
«Niente male, eh?» commentò, «abbiamo di nuovo bucato la stampa!»
I tre deputati di Sinistra Democratica lo fissavano come se fosse impazzito. Lui, in tutta risposta, si avvicinò a Michele, gli diede una pacca sulla spalla e con un braccio lo condusse discretamente tre passi lontano dagli altri.
«Non ti devi preoccupare di queste cazzate. Chiunque ha deciso di romperci i coglioni la pagherà. Stai tranquillo».
Si allontanò, con quel suo passo deciso e risoluto, come se fosse il padrone del palazzo e gli altri solo parte di uno sfondo anonimo.
   
 
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