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Autore: Blablia87    17/01/2016    8 recensioni
DAL TESTO:
"Venti minuti fa, cosa? Concentrati, per l’amor del cielo.
Come sono arrivato fin qui? A osservare uno sconosciuto con… cos’è questa? Paura? No. Invidia? No. Quali altre emozioni sono abituato a riconoscermi senza minare troppo la mia idea - piuttosto artefatta, ma d’altronde ci ho lavorato su per anni! - di me stesso?
Ah, già.
Ira."
E se Sherlock non fosse riuscito a dedurre davvero tutto di John Watson, il giorno in cui si sono incontrati? E se il passato del soldato tornasse a far loro visita?
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Avviso:
Il capitolo è davvero lungo (17 paginette A4).
Ma è quello conclusivo, non potevo né volevo spezzarlo.
Come sempre vi chiedo scusa.
Se fosse davvero di lettura impossibile, fatemelo presente nei commenti, e provvederò a spezzarlo. ^_^





Credere


L’ho aiutato ad alzarsi.
Piano, lentamente.
“Metti il braccio intorno al mio collo, va bene?”
Sono rimasto fermo, in attesa che annuisse.
Ho fatto attenzione che il polso non sfiorasse i miei abiti, mentre lo aiutavo a trovare una posizione che gli consentisse di reggersi stabilmente ma gli procurasse meno dolore possibile.
Non credo di aver mai guardato nei suoi occhi tanto da vicino come in quei momenti.
Riuscivo a specchiarmici, intravedendo una versione sconosciuta di me stesso. Un John Watson con il volto tirato, una scia scura di sangue rappreso lungo il viso. L’immagine di un uomo che aveva rischiato di perdere tutto, ancora una volta.
“Pronto?” Un cenno, l’abbozzo di un sì.
Ci siamo alzati insieme, un unico movimento fluido. Un ballo lento al suono del mio respiro bloccato dalla paura di ferirlo e dei suoi gemiti trattenuti.
Non ha staccato gli occhi da miei neanche un secondo. Ha continuato a guardarmi anche mentre lo aiutavo a sdraiarsi sulla barella.
Resta qui. Sembrava dirmi.
E come sempre ho fatto l’unica cosa che nella vita mi abbia mai reso davvero felice: l’ho seguito.
 
Salgo sull’ambulanza, controllando ogni movimento dei paramedici.
Non devono fargli male, in nessun modo. Mai nessuno su questa terra potrà farlo, mai più, finché avrò abbastanza fiato e sangue il corpo per impedirlo.
Neanche per errore.
Neanche per essere d’aiuto.
Osservo ogni sostanza preparata, ogni siringa riempita, ogni movimento intorno alle sue ferite.
E lui è semplicemente qui, incurante del dolore, labbra premute tra i denti, occhi sul mio viso.
 
 A cosa pensi? Vorrei chiedere. Perché eri lì?
 
Poggio distrattamente una mano sulla sua gamba, unico punto intatto del suo corpo, continuando a seguire i vari movimenti all’interno del vano.
 
Sei un’idiota. Cosa avrei fatto, se fossi morto?
 
Sherlock allunga la mano e mi stringe il ginocchio. Un attimo, piano. Quanto è reso possibile da un polso ferito e da una fasciatura ingombrante.
Sposto lo sguardo dall’infermiera intenta a preparare una benda e del disinfettante, e lo ancoro al suo.
 
Questa volta sarei morto con te, lo sai, vero?
Chiedo, in quel linguaggio di occhi e silenzio che adesso so essere sempre stato nostro.
 
Chiude gli occhi solo un attimo, il tempo di un respiro spezzato e un’altra iniezione.
“Anche lei è ferito, lasci che le dia un’occhiata.”
Non so chi l’abbia detto, ho ancora gli occhi sul suo viso.
“Non è niente, un colpo di striscio. Pensate a lui.” Rispondo, distratto.
Sherlock riapre gli occhi, ha lo sguardo severo.
“John.” Mi chiama, ma non è una richiesta di aiuto.
È un ordine, perentorio come la sua espressione.
“Devono pensare a te, Sherlock. Tu sei più importante.”
Ha lo sguardo ferito, adesso, ed io ho paura di avergli fatto male nell’accarezzargli piano la gamba, cosa che mi scopro a fare nel momento stesso in cui questo pensiero mi attraversa la mente.
“Non…” Prende fiato ed una fitta di dolore gli attraversa il viso quando allarga la gabbia toracica per poterlo fare a dovere.
 
Dio. Thompson deve pregare che le nostre strade non si incrocino mai più.
 
“Sta’ zitto Sherlock. Non parlare.”
Lui mi ignora, come sempre. L’uomo più testardo che abbia mai conosciuto.
Così cocciuto da rischiare la perforazione di un polmone, pur di terminare una frase.
Così ostinato da aver preso posto nella mia mente e nella mia anima senza aver chiesto permesso.
“Non… Per me.” Esala, in un solo colpo di fiato. Mi guarda, severo, fa saettare gli occhi dai miei alla ferita sulla mia fronte, ed io devo avere davvero un’espressione allucinata, in questo momento.
Non c’è un solo pensiero razionale nella mia testa, solo la sua immagine mentale che mi osserva con aria soddisfatta. Cammina in cerchio sul giardino della mia anima. Si appropria dell’ultima parte nel sua della mia mente.
Se solo sapesse quante cose, quante frasi non dette, parole, sogni, sono seppellite tutt’intorno a lei, così pavidamente poco a fondo da affiorare dall’erba, soprattutto nei giorni nei quali la tristezza la bagna e la rende debole e appassita.
Ci sono così tante cose, Sherlock…
 
Sospiro, e faccio cenno di sì con la testa.
La donna si avvicina, comincia a pulire la ferita.
È doloroso, ma cerco di dissimulare, assumendo un’espressione infastidita.
 
In fondo ho imparato dal migliore a fingere noia e tedio, non è forse vero Sherlock?
 
Lui abbozza un sorriso, e le mie labbra si tendono in risposta alle sue ancor prima che possa rendermene conto.
“Sei contento, ora?” Chiedo, mentre un altro giro di garza mi serra la testa.
Annuisce, un movimento quasi impercettibile.
“Molto bene. Possiamo riprendere a curare l’uomo con le fratture multiple, adesso?” Chiedo.
Lui alza gli occhi al cielo. Vorrebbe sbuffare, ma riesce solo ad emettere un suono monco e gutturale.
 
Ed io credo di non aver mai amato così tanto qualcuno in tutta la mia vita.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Te lo avevo detto… “
Comincio, ogni parola un respiro strozzato, corto.
Fastidiosamente pulsante al livello del petto.
“…che non era grave.”
 
John sospira.
Allarga le gambe, distribuisce meglio il peso.
Mi aiuta a salire un altro gradino.
Il suo braccio sinistro intorno alla mia vita.
Caldo.
Una stretta forte ma attenta.
Non vuole farmi male.
 
Mi dispiace di averne fatto a te, John.
 
“E io ti ho detto di non parlare, Sherlock. Conserva il fiato per il gradino numero dieci.”
 
Mi appoggio su di lui, lo uso come sostegno.
 
 
È bello sapere di potersi appoggiare a qualcuno, vero fratellino?
 
 
 
 
Sì… lo è.
 
 
 
 
Il gradino si lamenta sotto il peso di entrambi.
 
John sale su quello successivo.
È girato in parte verso di me.
I capelli sono appiccicati alla fronte.
Sudore.
La sua medicazione sarà totalmente inutile tra circa…
4 minuti.
 
“Pronto?” Chiede.
Il suo viso a pochi millimetri da mio.
Il suo respiro sa di caffè e medicine.
Antidolorifico.
In bustine.
 
“Certo.” Rispondo.
Per un attimo resta immobile.
Prende fiato.
 
Il mio.
 
Che pensiero romantico.
Sparisci.
 
Mi aiuta a sollevarmi.
Accompagna i movimenti con tutto il corpo.
Potrei prevedere ogni movimento muscolare.
Ogni passo.
Ma mi limito ad aspettare che salga ancora di un gradino, e poi mi accompagni.
 
Tutto è matematica, anche l’inclinazione che assume verso di me.
 
Ma i calcoli restano sospesi tra i suoi occhi e la bocca socchiusa.
 
Potrei quantificare l’apporto esatto di ossigeno del quale ha bisogno per compensare la mancanza del mio.
Ma riesco a concentrarmi sulla carezza calda del suo respiro sulla mia guancia.
 
“Ancora un piccolo sforzo, ci siamo quasi.”
La sua fasciatura si sta macchiando.
I punti devono aver ceduto.
 
Gli do una spinta con tutta la forza (poca) possibile.
 
Lui si sbilancia.
Per un attimo rischia di cadere sul gradino superiore.
 
Sanguini, John.
Ce la posso fare da solo.
 
“Che diavolo…”
Mi guarda.
“Sherlock che accidenti ti prende?”
 
Fa per avvicinarsi, di nuovo.
Indietreggio.
Una fitta mi attraversa i polmoni.
 
“Sanguini.”
Sottolineo l’affermazione posando gli occhi sulla sua tempia.
“Cos-“ Si passa una mano sulla benda.
Si guarda le dita. Le sfrega tra di loro. Distribuisce la piccola goccia di sangue che vi si era depositata.
 
“Non è niente.” Sorride.
“È un graffio. Arriviamo a casa, così posso dare un’occhiata ad entrambi.”
Scende, mi blocca di nuovo nella sua stretta.
 
No.
 
“Saresti potuto morire.”
Lo accuso.
 
 
 
Cosa avrei fatto, senza di te?
 
 
 
Il suo sorriso si spenge.
Mi guarda, gli occhi scuri.
 
“Anche tu.” Risponde, lapidario.
Mi stringe e mi porta di peso sul gradino successivo.
 
“Anche tu saresti potuto morire, idiota.”
Soffia, ancora un gradino avanti a me.
 
Lo guardo.
Ho il viso rivolto verso la porta del salotto.
Ostinatamente lontano da me.
Siamo quasi arrivati.
 
La sua benda cede, si inclina, appoggiandosi morbida all’orecchio.
La ignora.
 
Ancora pochi passi, e saremo a casa.
 
 
 
 
Mi aiuta a sdraiarmi sul letto.
Movimenti lenti, calibrati.
Sta attento alla testa, alle costole, al polso, alla spalla.
 
Mi sistema in una posizione che giudica consona.
Non pericolosa.
Comincia a controllare le varie fasciature.
 
“Saresti dovuto rimanere in ospedale. Almeno stanotte. Per sicurezza.”
Mormora, a mezza voce, alzando la maglietta che Lestrade mi ha portato in ospedale.
“Non è…grave.” Rispondo.
A singhiozzi, come il mio respiro.
 
Vorrei poter fare di meglio.
Non posso.
 
Mi guarda.
In piedi di fianco al letto, chino sul mio corpo.
Si ferma.
 
“Come fai a dire che non è grave?”
Alterazione del tono di voce.
Rabbia.
 
Preoccupazione.
Preoccupazione.
 
“Se quel pazzo non avesse deciso di inviarmi quel messaggio non avrei mai saputo che eri in pericolo! Cosa sarebbe successo se non ti avessi trovato? Se non fossi arrivato in tempo? PERCHÉ DIAVOLO SEI ANDATO LÌ?!”
 
Grida.
La benda cede definitivamente.
Gli copre gli occhi.
 
Se la sfila con rabbia.
Una piccola goccia di sangue si fa largo attraverso i punti aperti.
 
“John…”
 
Stai sanguinando.
Non voglio vederti sanguinare.
Mai più.
 
“No, NO! ADESSO MI ASCOLTI, VA BENE?! PENSI MAI A ME QUANDO TI BUTTI A CAPOFITTO NELLE TUE IDEE SUICIDE?!”
 
I suoi occhi bruciano.
Le pupille hanno inghiottito il blu delle iridi.
 
Ira.
 
John…
 
“PENSI MAI AL FATTO CHE QUALCUNO POSSO TENERE A TE?!”
 
No.
Nessuno ha mai tenuto a me.
 
Bugia.
 
 
Fino ad ora.
 
 
“Maledizione, Sherlock!” Si passa una mano sul viso.
Nasconde gli occhi.
 
Il sangue gli macchia le dita e i capelli.
 
Sospira.
Allontana la mano e inspira di nuovo, a occhi chiusi.
 
“Capisco che per te…” Muove gli occhi per la stanza. Cerca le parole.
“Capisco che possa essere…frustrante, l’idea che qualcuno dipenda emotivamente da te, Sherlock. Le emozioni sono il peggio che un uomo possa dare di sé, a tuo avviso, e lo capisco, ma…”
 
Si ferma.
Scuote la testa.
 
Abbassa gli occhi.
Resa.
Vergogna.
 
“Senti… Mi dispiace. Non importa, adesso.” Si passa una mano sulla ferita, sposta il sangue.
“Dammi un attimo. Fermo il sangue e torno a darti un’occhiata, va bene?”
 
Si volta ancor prima che possa dire qualcosa.
Esce.
 
Vorrei dirti così tante cose…
Ma non so farlo.
Non lo so fare, John.
Capisci?
 
 
 
 
Quando torna ha il viso disteso.
Una maschera di normalità che non lo rappresenta.
 
Si è sciacquato il volto.
Sulla fronte un enorme quadrato di garza e nastro adesivo tiene fermo un ritaglio di ovatta.
Non durerà a lungo.
 
“Allora, dove eravamo rimasti?”
Sorride, teso.
Mi poggia una mano sul petto.
 
Blocco il suo polso tra le dita, stringo piano.
Basta, John.
 
Mi guarda.
Non sembra capire.
 
Vorrei parlarti.
 
Lascio la presa. È difficile.
 
Stendo il braccio nella parte libera di letto, accanto a me.
 
Sdraiati qui, John.
Per favore.
 
Guarda il braccio, poi me.
Ha l’aria confusa.
 
“Sdraiati qui.”
Sottolineo l’ovvio.
Non mi pesa.
 
Non mi è mai pesato, con lui.
 
“Vuoi?”
 Per favore.
 
“Ti farò male. Il movimento del materasso mentre…”
 
Muovo ancora la mano.
Resta.
Vuoi?
 
“Sherlock, io…”
Muove gli occhi sulla parte di letto libera.
Riflette.
 
“Vuoi davvero che mi sdrai accanto a te?”
Domanda.
Sembra spaventato.
 
“Sì.”
Più di ogni altra cosa al mondo.
Ti prego.
 
Mi guarda un’ultima volta.
 
Con passo lento gira attorno al letto.
 
 “Sicuro?” domanda ancora.
 
Annuisco.
 
Si siede, stando attento a muovere il meno possibile il materasso.
Poi, lentamente, solleva le gambe sul letto.
Si assicura che nessun movimento brusco sia arrivato fino a me.
Va indietro con la schiena.
 
Resta così, faccia in su, qualche secondo.
 
Infine si mette sul fianco destro.
 
Io, testa sul cuscino rivolta verso di lui, aspetto che finisca di sistemarsi.
 
Un piccolo movimento verso l’alto.
Le nostre teste sono allineate, adesso.
 
Ciao, John.
 
Sorrido.
Al comando risponde solo un angolo della bocca.
L’altra metà è tenuta ferma dalla crosta di sangue che si è riformata.
 
“Ciao, John.”
 
“Ciao, Sherlock.” Risponde.
Mi guarda.
La preoccupazione è sparita.
Ora c’è solo…
Dolcezza.
 
Sono molto fiero di te, fratellino. Praticamente non hai più bisogno di me, l’hai notato?
 
“Perché eri lì, Sherlock?” domanda.
La voce come una coperta.
 
Raddrizzo la testa.
Fisso il soffitto.
 
“Io…”
Non so se dirglielo sia la cosa giusta.
È complicato.
 
Sospiro.
Niente più bugie.
Non voglio più bugie tra noi.
 
“Mycroft…ha lasciato qui…il video del tuo ferimento.”
Cerco di non spezzare troppo le parole.
Non è facile.
 
John non risponde. Ho paura di girarmi.
Di guardarlo.
 
“E tu hai capito che c’entrava lui?”
La voce è ferma. Non è arrabbiato.
 
Annuisco.
“Come?” domanda.
 
Cerco di prendere fiato per rispondere.
 
“Non importa. Me lo racconterai in un altro momento. Non sforzarti.”
Mi giro verso di lui.
Ha gli occhi attenti.
 
“Tu…” inizio. “Come…?”
“Come ti ho trovato?” Termina per me.
 
Annuisco ancora.
Mi conosce.
 
“Quando ho ricevuto quel messaggio…” Per un attimo il suo volto si fa cupo.
“Non potevi essere tu. Mai.” Alza gli occhi su di me. Un sorriso accennato gli assottiglia gli angoli delle labbra. “Non saresti mai potuto essere tu.”
 
Non aggiunge altro.
Non ce n’è bisogno.
 
Lo sa.
Lo so.
 
“Cosa pensavi di fare Sherlock? Perché sei andato a cercarlo? Perché non sei venuto da me?”
Non è più arrabbiato.
Preoccupato.
Ancora speventato, forse.
 
“Ha provato… ad ucciderti.”
Non capisci, John?
 
Lui mi guarda.
Immagazzina l’informazione.
Non domanda altro.
 
Un attimo di silenzio.
 
Sono io ad interromperlo.
“Come?” Chiedo. Di nuovo.
“Anthea.” Risponde, sicuro.
 
Aggrotto la fronte.
Anthea?
 
“È incredibile come due delle menti più grandi della Gran Bretagna azzerino completamente la loro attenzione, quando giocano a “Chi è il fratello più intelligente”.”
Ride.
“Ho preso il suo numero dai contatti del telefono di Mycroft. Circa…”
Muove gli occhi.
Conteggia.
 
Da quando si è sdraiato non ha mosso un solo muscolo se non quelli del viso.
 
Premuroso.
 
“Circa quattro anni fa, direi.”
Mi scappa una risata, che il dolore alla costole trasforma in uno sbuffo doloroso.
 
“Le ho fatto rintracciare la posizione del tuo cellulare. È in gamba quella donna. Ogni tanto mi da una mano a tenerti d’occhio, senza che tuo fratello lo sappia.”
 
Mi guarda. Cerca di capire se questa rivelazione possa infastidirmi.
Un’altra bugia. Un’altra cosa che mi ha tenuto nascosto.
 
Non mi interessa, John.
Non importa.
 
“Ho pensato che se ti avessi trovato ancora vivo non avresti apprezzato una ramanzina di un’ora su come i fratelli minori dovrebbero evitare le operazioni potenzialmente mortali.”
 
Rido, adesso.
Le costole dolgono, il fiato si spezza.
 
Sempre io e te contro il resto del mondo, vero John?
 
Rimaniamo in silenzio qualche minuto.
Ascolto il suo respiro.
Lento.
Regolare.
 
 
Rimarresti qui?
 
 
Allungo il braccio verso di lui.
Segue con gli occhi la mia mano che si avvicina al suo viso, ma non si muove.
Trattiene appena il respiro, quando la poso sulla sua tempia.
Piano.
Tela contro il polpastrello.
 
“Mi dispiace.” Sei quasi morto per colpa mia.
Non me lo perdonò mai.
 
“Ti fa male?” Chiedo.
Spero di no.
 
“No. È solo un graffio.”
Sorride.
 
“Ti ha quasi… ucciso.”
Quasi non riesco a pensarlo.
Dirlo mi procura un conato.
 
“Ha quasi ucciso te.”
Risponde, serio, la voce ridotta ad un sussurro.
 
Non mi importa cosa succede al mio corpo, John.
È del tuo che devo prendermi cura.
 
“Schivi…ancora…i proiettili.”
Cerco di allentare la tensione.
Infantile.
 
Lascio cadere la mano sulla coperta, poco sotto il suo mento.
 
Sorride.
“Non come una volta, a quanto pare.”
 
“Come?”
Come hai fatto a sopravvivere John?
Ho pensato di averti perso.
 
“Come ho fatto?”
Annuisco.
 
“Non…l’avevi…distrutta?”
 Lui sospira.
Annuisce.
 
Mi guarda, sembra indeciso.
 
Un’altra bugia.
 
“Io…” Tossisce, si schiarisce la voce.
“Io… non l’ho mai distrutta, in realtà.”
Si ferma.
Mi guarda.
 
Accenno un sorriso.
Va bene, John.
Va’ avanti.
 
“Quando mi sono trovato lì…pronto a raderla al suolo…mi sono accorto che non avrei potuto.”
Inspira profondamente.
“Sarei dovuto essere fuori e dentro allo stesso momento…Non…non era possibile, semplicemente. Non si può distruggere qualcosa che al suo interno ha la stessa materia che poco più in là devi salvaguardare.”
 
Dentro e fuori dal Mind Palace, pensare a cosa tenere in una stanza da distruggere e intanto dimenticarlo mentre succede.
No.
Non potrei farlo neanche io.
 
“Così mi sono limitato a stipare ogni cosa da dimenticare al suo interno, e a filtrare ogni successivo avvenimento della mia vita attraverso le sue finestre polverose.”
 
Capisco.
Hai appannato la pellicola.
Geniale, da un certo punto di vista.
 
“Mi dispiace avertelo tenuto nascosto.”
Senso di colpa.
Il suo sguardo si fa triste.
 
“No.”
Non devi scusarti.
 
“Quando… quando ho capito che Thompson avrebbe sparato…”
Si ferma, e insieme a lui si blocca il mio respiro.
 
Non voglio pensarci.
Mai più.
Nessuno ti punterà più un’arma addosso in mia presenza.
Te lo giuro.
 
“Semplicemente ho aperto la porta e sono entrato. Avevo bisogno di quelle nozioni. Io…”
La voce si incrina.
 
“Deve… essere stato…doloroso.”
Mi dispiace, John.
 
Ride. Una risata tesa.
Scuote la testa.
 
“Mai quanto l’idea di non rivederti.”
Non ha nessuna inflessione nella voce.
Lui…Semplicemente esterna una realtà.
 
John…
 
“Lo so che odi queste cose, ma… Ti dirò solo questo, solo oggi, e poi fingeremo che non sia mai successo e daremo la colpa alla mia povera mente menomata, ok?”
 
Àncora gli occhi ai miei.
Trema appena.
 
Mi accorgo di farlo anche io.
Vibriamo assieme come le corde del mio violino.
 
Che musica stai componendo tra i miei respiri, John?
 
“Se io ti avessi perso, oggi…” Cerca di prendere fiato.
“Se io ti avessi perso ancora una volta… Non mi sarebbe importato di morire lì. Non…non avrei scansato quel proiettile. Forse ne avrei comunque calcolato la traiettoria, ma…per essere sicuro che mi uccidesse.”
 
Le parole si adagiano tra di noi.
Ci coprono come una pioggia.
 
Aveva ragione, dunque.
Sorprendentemente, meravigliosamente, ragione.
 
Jim.
 
Ho un cuore, e adesso batte tanto forte da azzerare tutto il resto.
 
Chiama il suo, come i miei pensieri.
 
“Quando… Sei caduto a terra…”
Non so se sono in grado di dirlo.
Il dolore delle costole è dimenticato, cancellato dalla forza del battere incessante della mia paura nello sterno.
“Ho pregato… che fosse rimasto un colpo… per me.”
 
Silenzio.
Osservo le mie parole depositarsi in fondo agli occhi di John.
Li rende grandi, all’inizio.
Poi liquidi.
Chiari, come un’epifania.
 
Ci ho messo davvero tanto.
Non ho mai amato nessuno prima di te, John.
 
 
 
Mai nessuno prima di te.
Mai nessuno dopo di te.
 
 
 
Scusami.
Non credo di sapere come si fa.
 
Ma posso regalarti ferite da curare.
Serate in silenzio su un divano.
Inseguimenti.
Esperimenti.
 
E il mio primo ed ultimo giuramento.
 
I will never let you down and i have a lifetime ahead to prove that.
 
 
John si muove appena.
Non parla.
 
Sospiro, chiudo gli occhi.
 
Forse ho interpretato male qualche dato.
È possibile.
 
Solo…non andartene, John.
 
Qualcosa si stringe intorno alla mia mano, rimasta abbandonata vicino al suo viso.
 
Apro gli occhi.
La mano di John è intorno alla mia.
 
Si tira su, giusto un po’.
Si puntella sul gomito destro.
 
Avvicina il viso al mio polso.
 
Ci appoggia le labbra.
 
Tutto è silenzio dentro me, adesso.
Nessun dolore.
Nessun pensiero.
 
Mi prende il braccio, lo avvicina gentilmente al mio corpo.
Si avvicina a sua volta.
 
“John…”
Lo chiamo.
Mi guarda, il viso più vicino al mio.
Sorride, e dentro quel sorriso trovo spazio.
 
“Ehi…” sussurra, dolce.
Mi appoggia le labbra sul sopracciglio, sopra i punti di sutura.
 
Mi guarda.
 
“Posso?” domanda.
 
Ha uno sguardo che non gli ho mai visto prima.
C’è dentro tutta la mia paura di essere sbagliato.
Un battito di ciglia, e ci sono solo io.
Non credo di essere mai stato così…
Bello.
 
Annuisco, incantato.
 
Appoggia le labbra all’angolo delle mie, sulla ferita.
 
Da un angolo nascosto del mio Mind Palace emergono delle parole.
 
 
“Un giuramento fatto un poco più da presso,
un più preciso patto,
una confessione che sigillar si vuole…”
 
Quando si sono depositate lì?
 
Cos’era…
 
“Un segreto detto sulla bocca,
un istante d’infinito che ha il fruscio di un’ape tra le piante,
una comunione che ha gusto di fiore,
un mezzo di potersi respirare un po’ il cuore
e assaporarsi l’anima…”
 
John si posa ancora sulle mie labbra. Sa di se stesso, e in parte di me. Ha la mia anima stretta tra le ciglia abbassate.
 
Era…
 
Cyrano.
Edmond Rostand.
 
Lo lessi a dieci anni.
E lo capisco solo ora, mentre riaffiora tra le pieghe della sua bocca contro la mia.
 
Si stacca, ed io penso di non riuscire più a respirare se non vicino alle sue labbra.
 
Appoggia il viso sul mio cuscino, nell’incavo del mio collo.
Mi posa una mano sul petto, piano.
Sincronizza i suoi battiti ai miei.
Stabilizza i nostri respiri.
 
John si appoggia con le labbra alla mia spalla.
Sistema il corpo in modo che sia corrispondente al mio, ma sufficientemente lontano per non farmi male.
 
Ed io, semplicemente, inizio a credere.
 
Al suo respiro.
Alle sue mani.
Al suo silenzio.
Alla lacrima che scende, coraggiosa, verso il mio cuscino.
A quella che sento abbandonare i suoi, di occhi, per cercare ristoro su di me.
 
Credo in lui.
Come ho sempre fatto.
Come farò per sempre.
 
In lui.
E in noi.
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
Ci siamo, quindi.
È finita.
Scrivere questo ultimo capitolo è stata un’impresa.
Avrei voluto dire così tante cose…! Spero di essere riuscita a darvi il finale che meritavate e desideravate.
Spero anche di essere riuscita a trasmettere l’immagine di uno Sherlock che capisce che può essere sincero sui suoi sentimenti (tanto da non aver più bisogno di un MindMycroft), e di un John che non desiderava altro che un cenno da parte del detective per potergli dimostrare quanto tenga a lui.
 
La frase del giuramento di Sherlock (adeguatamente modificata) è l’ultima del suo discorso al matrimonio di John. (Ma come sappiamo, in questa versione della storia Mary non esiste, e di conseguenza neanche un matrimonio.)
Però se è riuscito a pensare a quelle parole in quell’occasione, perché non farglielo fare anche qui? ^_^
 
Che altro dire?
 
Siete stati meravigliosi.
Questo viaggio non avrebbe avuto senso senza voi dall’altra parte, quindi grazie per avermi accompagnata in questa avventura.
 
Non avrei mai sperato tanto, quando l’ho intrapresa.
 
Ora tornerò alla mia abituale veste di lettrice, e vi seguirò da dietro le quinte.
 
 
Un abbraccio fortissimo a tutti/e.
Grazie di tutto.
 
Blablia
 
   
 
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