Uno.
Sono bloccata nel traffico, arriverò tra un po’. Due.
L’ambiente era irrespirabile, per lui. Tutta quella gente,
tutta quella musica forte, troppo, devastante, impossibile da fermare.
Chissà cosa stava succedendo fuori di lì:
chissà cosa stava vivendo Londra, cosa stavano pensando i
passanti di quella strada, sentendo quel suono.
Chissà dov’era lei.
Guardò le persone intorno a sé dimenarsi e
incominciò a non capire più nulla di quello che
stava accadendo: erano troppi colori che lo accecavano, vedeva il verde
della sua speranza di vederla lì brevemente, così
acceso, così brillante, luminoso come il giallo che saltava
intorno e il rosa sinuoso di quella scena, di quella musica.
Continuò ad aggrapparsi al divanetto, sentendosi
assolutamente inutile in quel locale: sterline buttate, andare
lì. Sterline buttate come quelle sul tavolo
all’entrata, luccicanti, come fossero l’unico punto
di luce della sala e lui l’unica ombra senza speranza. Chiuse
gli occhi per un secondo, cercando di dimenticarsi tutto quello che
stava vivendo, ma l’unica immagine che gli era rimasta in
testa era la luce di quei colori così sgargianti che gli
sfilavano davanti.
Qualche anno prima non avrebbe controllato i colori, ma le ragazze che
stavano all’interno di essi, enfatizzando i loro movimenti a
tempo di musica, enfatizzando il loro essere presenti, vive,
sgargianti, interessanti, affascinanti, sensuali, anche se troppo
giovani per essere tutto quello.
Si sarebbe prodigato, in una serata del genere, a trovare la prima
ragazza senza brutti ceffi intorno e muoversi un po’ a tempo
- non troppo, non era nella sua immagine di cattivo ragazzo - fino a
che lei non lo avrebbe respinto, ridendo, o avvicinato, ammiccando.
Gli venne un’improvvisa voglia di scappare, cercare un bagno
e vomitare fuori tutti i suoi sentimenti e il suo odio per
quell’istante, per quelle immagini surreali che stava
vivendo, guardando quelle ragazze, quei pezzi di stoffa, quella carne,
quei capelli.
Aprì gli occhi e non riuscì più a
distinguere le ragazze davanti a sé: erano un
tutt’uno, erano una massa di luminosi colori, come un ammasso
di stelle.
Non era stata sua idea quella di presentarsi in discoteca in una serata
come quella.
Non era nemmeno stata sua l’idea di essere vestito di nero,
avendo una ragazza oppressiva e completamente ossessionata con
l’aspetto.
Non era stata sua l’idea di nascere due decenni prima, in
quella città, in quelle condizioni, con quelle conoscenze.
Prese il cellulare dalla tasca, illuminò il suo volto quel
poco che bastò alle ragazze per rendersi conto che anche lui
era presente in quel locale e non trovò nessun altro
messaggio di lei e del suo viaggio faticoso.
Guardò i colori sgargianti avvicinarsi.
Merda, pensò. Tre.
La macchina guidata da suo padre era assolutamente silenziosa,
riuscivano a viaggiare per qualche centinaio di metri per poi bloccarsi.
«Ancora qualche metro e siamo arrivati allo svincolo, da
lì dovrebbe sbloccarsi tutto, tesoro, non ti preoccupare che
arriverai giusta in discoteca.»
Non si preoccupava. Amava fare le entrate spettacolari dei divi di
Hollywood: arrivava qualche minuto in ritardo, entrava con il suo
vestito dal colore deciso e abbagliava tutti gli altri.
Quello era il suo campo di battaglia, la cosa in cui si era
specializzata.
Poi, quella sera, con una trentina minuti di ritardo come minimo,
avrebbe potuto fare la snob che non stava alle regole, che arrivava
quando le pareva, che aveva il mondo ai suoi piedi.
Prese il cellulare aspettandosi di aver ricevuto un messaggio di
risposta dal suo amore, ma l’unica cosa che trovò
fu il suo schermo vuoto e l’orario che le indicava che ce
l’avrebbe fatta sicuramente a fare un’entrata come
si doveva.
Si strinse nelle spalle e guardò suo padre nello specchietto
della macchina che guidava con attenzione e senza perdere la calma,
anche se in quell’istante avrebbe preferito essere a casa,
sdraiato, a guardare un documentario qualsiasi e imparare qualcosa da
raccontare in ufficio il lunedì per strabiliare i colleghi.
Forse sarebbe stato meglio chiedere al suo amore se le avrebbe fatto il
favore di andarla a prendere prima della serata, ma non sarebbe stata
la sua solita teatrale entrata in scena. Avrebbero passato comunque del
tempo insieme ballando e poi in macchina, aspettando il momento giusto
per tirare il freno a mano, spegnere il motore e amarsi.
Hai ricevuto il mio messaggio?
Inviò e guardò la città fuori dal
finestrino. Lei si vide riflessa nelle finestre oscurate degli uffici,
nelle pareti a specchio che le mostravano quanto fosse buio il mondo e
quanto il suo riflesso assomigliasse ad uno spettro di una principessa
indiana, di quelle misto-sangue che erano nate da rapporti non
desiderati di principesse residenti nella terra esotica con gli
invasori inglesi.
Appoggiò una mano delicatamente sul sedile di pelle della
macchina e guardò il cellulare con insistenza, aspettando
che qualcosa cambiasse, che lui si accorgesse di lei; come poteva non
notarla, vestita di quell’azzurro, con quei suoi particolari
viola, quelle sue sfumature rosa?
Quell’abito rappresentava certamente lei stessa: azzurra e
limpida, serena e felice, con qualche velo di mistero da ottima attrice
americana e qualche piccola possibilità di sfumatura nei
suoi sentimenti, nel suo modo di vedere la vita.
Lui non poteva essere così cieco da non notare la sua
bellezza e la sua particolarità. Quattro.
Le ragazze si erano avvicinate pericolosamente a lui e, una dopo
l’altra, si erano esibite come in uno di quei talent-show che
guardava sbracato, la sera, mentre la sua ragazza era lontana, a casa,
a pettinarsi i capelli credendosi la principessa nel castello.
Se la immaginava ogni sera nella stessa posizione, davanti alla
toeletta, con quella spazzola che diceva le portasse così
tanta fortuna, a passarla dall’alto al basso, lentamente,
come una vergine piena di timore per il suo corpo, per la sua innocenza.
Poi se la immaginava andare a letto nella sua vestaglia perla e, con
gli occhi carichi di sonno, addormentarsi con i capelli perfettamente
disposti sul cuscino, le mani sul petto giovane e le gote arrossate, in
attesa della nuova alba.
Il verde inizio a farsi più vicino, notò
l’espressione degli altri due colori e capì che
sarebbe stato meglio stare fermo e non fare niente, così
nessuna gli si sarebbe gettata addosso obbligandolo a scappare.
Guardò il messaggio della sua amata tornanre ad illuminare
il suo volto e sentendosi imbecille: i colori sarebbero tornati
all’attacco guardandolo.
Eppure non riusciva a dire cosa avesse di speciale in se stesso,
rispetto a tutte le altre persone nella sala: era vestito di nero
quando tutti erano vestiti di stoffe stampate di bianco, azzurro, di
rosa shocking, di colori che sarebbero rimasti impressi nella sua mente
per tutta la serata e oltre.
Lui era vestito di nero per una sola ragione: la voglia di lei di
apparire. E ne era stanco, ma almeno non correva il rischio di attirare
verso di sé il peggio dell’umanità
femminile, come capitava solitamente.
Eppure quella sera sembrava così interessante, carino, pieno
di possibilità e, in un momento di distrazione delle tre
ragazze davanti a lui, si girò per controllare che cosa ci
fosse negli altri che non andava.
Si immaginò di guardare tutta la scena al cinema, e
l’unica cosa che capì fu che quel punto nero in
mezzo alla massa di carne sgargiante faceva di lui la cosa
più interessante verso cui puntare.
Continuò ad osservare le ragazze e si sentì meno
interessato di quanto era stato in passato. In fondo, dopo essere
rimasto per mesi con la sua ragazza, l’unica cosa che voleva
era un periodo di disintossicazione da quello che ovviamente non era il
suo mondo, non era la cosa che voleva vedere ogni mattina aprendo gli
occhi né l’ultima andando a dormire.
Quando entrava in quel locale, anni prima, l’unica cosa che
riusciva a fare era guardare le ragazze, scegliere quale era la
migliore a cui puntare e provarci. Se andava male ripetere il tutto, se
no fingersi interessato fino alle due di notte e sparire dalla sua vita
per sempre.
Cosa ci trovava in quel gioco fisico? Cosa ci trovava nel guardare le
ragazze come loro guardavano i vestiti al centro commerciale?
Solo che loro il vestito poi lo compravano e se era bello lo usavano
fino a quando diveniva liso, lui invece se ne stancava dopo poco e lo
riportava in negozio, facendosi ridare i soldi e cambiando il capo con
un altro di una taglia e forma differente.
Non riuscì a capire il passaggio per cui il giallo e il
verde si fecero da parte in quella battaglia di donne e il rosa gli si
avvicinò con ovvie intenzioni e con movenze al quanto
sensuali, ma viste e riviste per potergli interessare ancora.
Preso dallo sconforto incrociò le gambe e rimase a guardare. Cinque.
Non era l’orario d’arrivo che sperava. Suo padre ci
aveva messo troppo poco e l’unica cosa che voleva fare era
un’entrata, una di quelle memorabili.
In fondo, a che serviva andare ancora in discoteca? Non era
più una ragazzina che doveva cercare qualcuno con cui
passare la serata ballando e limonando fuori dal locale, cercando di
non farsi beccare dal proprio padre, sereno e cordiale come al solito,
che andava a prenderla a qualsiasi orario della notte.
Andava in discoteca per mostrarsi, per mostrare il suo trofeo, il suo
amore, la cosa che aveva finalmente conquistato e di cui non si sarebbe
liberata facilmente.
Quindi tanto valeva fare un’entrata come si doveva, quindi
tanto valeva aspettare qualche minuto fuori, fare un giro guardando le
vetrine spente intorno al locale, guardando la sua immagine, i colori
del suo vestito, i suoi orecchini, il viso così particolare,
ma anche così bello.
Era inutile andare in discoteca a ballare. Era così inutile
che non permetteva al suo ragazzo di oscurarla. Lo obbligava a vestirsi
di nero: sarebbe stato il pannello su cui il suo corpo si sarebbe
strusciato, come fosse stato il punto oscuro da cui partiva la luce
più grande, più immensa, che tutti avrebbero
dovuto guardare e ammirare, cercare di imitare, idolatrare.
Erano passati anni da quando aveva conosciuto lui sul piazzale della
scuola. Era stato un incontro insolito, un incontro che non si sarebbe
mai aspettata. Lui che cercava la sua sorellina, lei che cercava suo
padre e trovava quel volto.
Aveva visto come tutte le ragazze della sua scuola lo fissavano e aveva
deciso che sarebbe stato meglio conquistarlo, prima che
qualcun’altra ci potesse mettere sopra le mani e andare in
giro vantandosene.
Erano passati così tanti anni che sentiva lui non si sarebbe
scoraggiato nell’aspettarla, era così abituato ai
suoi ritardi e alle sue entrate.
Lui la amava per quello che era, per quello che mostrava e nulla
avrebbe turbato la loro relazione: lei sapeva quanto lui era pazzo di
lei.
Controllò l’orologio e si avvicinò al
locale, alla cassa vuota all’entrata, attendendo qualcuno che
la facesse entrare e esibire. Sei.
Attese un altro messaggio di lei, qualcosa del tipo “sono
ancora a... attendimi” o “non ti preoccupare arrivo
in... minuti”, ma il suo cellulare rimase fermo nella sua
tasca, senza emettere minimo suono.
Le ragazze davanti a lui continuavano a muoversi, peggio di prima,
continuando a dargli un senso di nausea che non aveva mai provato con
nessun altro.
Si aggrappò più forte al divanetto, incastrando
quel poco di unghie che aveva nella pelle del rivestimento e
incominciò ad osservare più nitidamente i corpi
davanti a sé.
Non erano troppo magre come la sua ragazza, ma non erano nemmeno
grasse. Erano certamente formose, avevano magliette scollate, immagini
provocanti, brillantini, escamotage per farsi notare, ma
l’unica cosa che riusciva a imprimersi nella sua mente erano
quei colori allucinanti, quelle masse informi che continuavano a
scontrarsi e alternarsi.
Controllò di nuovo il cellulare e trovò poche
parole sullo schermo: preparati, sto arrivando.
Annoiato guardò le ragazze che continuavano a mostrare la
loro sensualità, continuando una gara assolutamente inutile
che lo aveva portato alla nausea e allo sfinimento cerebrale.
Riguardò lo schermo del cellulare e decise di fare
ciò che aveva dovuto fare tempo prima.
Ne era cosciente: non aveva mai provato così tanta
adrenalina, ma era il momento giusto in cui tutte le idee gli si
palesavano in testa e si mostravano per quello che erano.
Ora i colori stavano ballando in fila, quasi ad aspettare il verdetto
finale.
Appoggiò il cellulare sul divanetto, si alzò in
piedi (attirando di nuovo l’attenzione dei tre colori che
fecero un passo avanti) e se ne andò verso
l’uscita, completamente fiero di sé.
Quando posò il primo piede fuori dal locale sentì
una strana sensazione nello stomaco, fatta di libertà e di
altre sostanze che non riusciva a decifrare. Sentì delle
monete battere contro il bancone della cassa, ma non si curò
di controllare chi fosse la persona che stava per entrare.
Continuò a camminare lentamente, fino alla macchina. Sette.
Entrò dopo aver guardato abbastanza contrariata il cassiere
del locale e cercò il suo ragazzo nella folla. Magari aveva
trovato qualche amico e stava già ballando, visto che al
solito divanetto non c’era altro che qualcosa di nero
appoggiato sopra e tre ragazze ferme, con un’espressione
facciale talmente arrabbiata da far paura.
Nessuno la stava guardando propriamente: aveva bisogno del suo pannello
nero per risplendere, ma su quel divanetto non c’era.
Iniziò a far squillare il suo cellulare: doveva vedere che
era entrata, lui non poteva vivere senza di lei. L’aggeggio
scuro appoggiato sul divanetto prese vita.
Non poteva essere un caso. Doveva, per la sua sanità
mentale, ma non poteva esserlo.
Camminò affrettatamente verso il cellulare di lui e,
constatato fosse quello del suo ragazzo, iniziò a pensare a
quali cause avevano portato quell’oggetto lì:
magari gli era uscito dai pantaloni oppure...
Si girò verso le ragazze che ora la stavano fissando
stupite. Cercò di giustificare il perché aveva in
mano il cellulare di lui e le tre cercarono di spiegarle che era appena
uscito dal locale, lasciando in quel punto quel telefono.
Camminò velocemente verso l’uscita e, non appena
fuori, vide la sua macchina rossa passarle davanti, accelerare,
svoltare l’angolo e sparire nel buio.
Si preoccupò e sperò seriamente fosse solo uno
scherzo. Otto.
Ti rendi conto di quello che hai fatto?
Sua sorella gli aveva portato il cellulare contrariata. Era il suo,
quello personale della ragazzina che stava dormendo da ore quando le
era arrivato il messaggio della ragazza di suo fratello. Sembrava
urgente, doveva mostrarglielo, ma le aveva interrotto il sonno
lasciandola con un umore abbastanza nero.
Lui la accarezzò sui capelli, sorridendole e dicendole che
non era nulla, era solo un momento così, che aveva solo
perso il cellulare.
Sua sorella era scomparsa nella camera prima ancora di fare altre
domande a cui lui avrebbe risposto con la semplice verità:
lei non arrivava, lui pensava non si sarebbe presentata, lei
è arrivata troppo tardi, lui se n’era
già andato.
Guardò ancora un secondo sua sorella, prima che scomparisse
nel buio, e provò un sentimento di calma nel cuore, mentre
quel grigio del pigiama si muoveva come uno zombie per casa, cercando
di tornare a dormire.
Spense la luce della camera, rimanendo al buio, rimanendo solo e
smettendola di pensare a lei, una delle tante stelle cadenti della sua
gioventù.