Di ferro, fuoco e speranze.
Capitolo 3: Cuciture.
Joly
aveva chiesto a tutti di uscire dalla stanza di Combeferre: l'aria era
diventata improvvisamente gelida, piena della paura di ciascuno per la sorte dell'amico
e a lui serviva lucidità. Così aveva chiesto a tutti di aspettare fuori e a
Jehan se avesse voluto provare a isolarli – sperava almeno che con quel compito
non si facesse spossare troppo dalla preoccupazione generale e comunque a lui
sarebbe servita tutta la calma del caso per aiutare Combeferre.
A
prima vista, la maggior parte dei tagli e dei graffi sembrava superficiale: gli
dava l'impressione che si fosse trascinato o fosse stato trascinato, che avesse
lottato. La spalla tuttavia fu la prima cosa a destare la preoccupazione del
giovane medico: sembrava lussata, in una posizione innaturale che però sistemò
con cura, prima di fasciarla. Sul resto del petto aveva il primo rossore dei
lividi che si sarebbero formati poi. Si chiese cosa fosse successo, chi lo
avesse colpito con quella forza.
Stava
disinfettando un taglio un po' più profondo, lungo la guancia, quando notò le
sue palpebre tremolare prima di sollevarsi con lentezza, sbattendo più volte,
fino ad aprirsi e lasciar vedere un paio di occhi confusi.
«Hey»,
lo saluto, con dolcezza e la voce appena un po' soffocata dall'emozione «Come
ti senti, 'Ferre?».
Il
ragazzo respirò lentamente, sussultando appena – forse il petto gli faceva male
per i colpi che doveva aver preso, ma Joly s'era assicurato che non ci fossero
costole rotte e che il suono dei polmoni fosse pulito.
«Immagino
che stavo meglio prima di uscire da qui, stamattina», tentò di sorridere, ma si
fermò non appena il taglio sul viso gli fece male. Joly si rabbuiò un po'.
«Non
è profondo, ma fai attenzione a non muoverti troppo per i primi giorni. Vale
anche per la spalla».
Combeferre
annuì appena, poi tentò di mettersi seduto contro la spalliera in ferro battuto
del letto e si perse con lo sguardo fisso sulla parete che aveva di fronte, senza
vederla davvero, lontano da lì con la testa, seguendo chissà quale
ragionamento. Joly avrebbe voluto chiedergli cosa ci fosse che non andava, ma
l'entrata in stanza degli altri distrasse entrambi – Jehan doveva aver sentito
che ora le cose andavano meglio.
«Hai
intenzione di farci morire dallo spavento con le tue entrate in scena
drammatiche?», lo rimproverò Courfeyrac, guardandolo fisso e con un'espressione
quasi seria sul volto – Ferre avrebbe riso se non avesse fatto troppo male.
«Per
una volta che ti rubo la scena, ti offendi?», scherzò sorridendo piano.
«Che
diavolo ti è successo comunque?», volle sapere Bahorel – oh, lui sembrava
davvero arrabbiato: Combeferre non poteva ricordarlo, ma quando era svenuto fra
le braccia di Courfeyrac e Jehan e gli altri erano accorsi spaventati, era
stato lui a portarlo dentro con fare pratico. Era stato agitato da allora –
neanche Prouvaire ci aveva potuto fare granché.
«Una
ragazza, una mutante. Aveva il mio stesso potere, ma non sembrava interessata a
fare amicizia», spiegò con, di nuovo, un cipiglio preoccupato e pensieroso:
essere attaccati da dei mutanti due volte nello stesso giorno lo faceva sentire
più male di tutti i colpi che aveva preso.
«Avete
combattuto?», si sorprese Bossuet.
«Più
che altro lei attaccava ed io cercavo di fermarla, ma sì, in sostanza abb-». Si
fermò. Si guardò intorno. Realizzò una cosa che lo fece rabbrividire «Dov'è
Enjolras?».
I
ragazzi accanto a lui tacquero, raggelati dalla sua domanda e da una
constatazione simile.
«Credevamo...
Era con te. Quando ci siamo allontanati era con te!», disse Joly, preoccupato –
sapeva bene che la ferita al suo braccio non era cosa da poco e che non aveva
potuto trattarla come si deve.
«Ci
siamo separati», Combeferre boccheggiava, la sua solita calma vacillava al
pensiero che Enjolras non fosse con loro «Credevo di fare una cosa buona,
quella ragazza ci stava attaccando e lui era ferito! La nebbia di Bahorel si
stava dissipando, quindi ho pensato di farlo andare mentre trattenevo lei.
Credevo sarebbe arrivato prima di me. Credevo fosse già qui!». Parlava il modo
concitato, mentre cercava di alzarsi da letto – dovevano andare a
cercarlo.
«Hey,
hey, hey, calmati». Le mani di Courfeyrac si posarono sulle sue spalle, facendo
attenzione a quella lussata e Combeferre non sapeva come ma gli stava
sorridendo, nonostante tutto «Lo andiamo subito a cercare, lo troveremo e lo
porteremo qui. Tu devi solo pensare a riprenderti, mi hai capito? Hai già fatto
abbastanza per oggi».
Jehan,
che si era mosso non appena quello aveva cominciato ad agitarsi, accennò a un
piccolo sorriso, inclinando la testa: poco prima lui e Courfeyrac avevano
parlato di sentimenti e di amore, ma si chiese se poi, in fondo, lo conoscesse
davvero l'amore, se si rese conto di quanto brillava quando era accanto a
Combeferre.
Jean
Valjean, che in quegli anni aveva preso il nome di Ultimo Fauchelevent,
osservava la sua Cosette mentre questa giaceva, riposando, un po' più pallida
del solito, nel letto della sua stanza. Ce l'aveva portata in fretta, stando
attento che nessuno li seguisse ma preoccupato di portarla quanto prima a
riparo. Le aveva fasciato la testa con una garza e da allora non le si era
mosso da vicino: seduto su una poltrona, la osservava, quasi volesse studiarne
i lineamenti, la dolcezza che traspariva da essi, la bellezza che li aveva da
poco riempiti.
Sospirò.
Non avrebbe dovuto lasciare che Cosette andasse a quella manifestazione, non
avrebbe dovuto nonostante le sue insistenze, nonostante fosse una cosa che li
riguardava da vicino. Non era mai stato un codardo, Jean Valjean, ma fino a
dove poteva spingersi la prudenza e l'apprensione di un padre? Quando ancora
avrebbe sofferto nella sua giovane vita, dopo la morte della madre e le
continue fughe per via della loro natura, del suo passato?
Era
stato uno sciocco a pesare che una volta arrivati a Parigi sarebbero stati al
sicuro, che la grande città avrebbe dato loro possibilità di ricominciare –
lontano dalla morte che aveva portato via la madre, lontano dai fantasmi che
ancora lo inseguivano...
Cosette
si mosse; ancora dormiva ma sussultò nel sonno, forse sognava. Valjean le si
sedette accanto, controllò che non le fosse salita la febbre – sebbene fosse
lieve il taglio che aveva – e stette a scrutarla, sperando che si svegliasse.
Rivedere i suoi occhi sarebbe stata la sola cosa che avrebbe avuto il potere di
tranquillizzarlo.
«Papà...?»,
mormorò, ancora agitandosi «Papà?». Poi lentamente Cosette aprì gli occhi per
scorgere la figura di Valjean china su di lei, gli occhi lucidi appena
nascosti, senza un reale sforzo, e un sorriso leggero ad allargargli il viso.
«Sei
sveglia», constatò con un sorriso leggero – ma ringraziava il cielo nei suoi
pensieri, perché quel semplice gesto gli aveva mostrato come respirare ancora:
il mondo era tornato a girare.
Gli
allungò un bicchiere d'acqua mentre la ragazza si guardava intorno,
rassicurandosi perché era nella sua stanza, con suo padre e l'adrenalina che
pareva ancora scuoterla non aveva motivo d'esistere.
«Cos'è
successo? La manifestazione...», chiese poi.
«È
stata più violenta di quello che credevo. Ricordi qualcosa?».
Cosette
annuì e i suoi occhi si persero nel vuoto, mentre con una mano toccava con
incertezza le garze ruvide che le circondavano la testa. Le faceva male dove
probabilmente aveva un taglio e sentiva la testa pesante come se avesse preso
un brutto colpo – cosa effettivamente accaduta.
«Ricordo
la piazza piena di gente, gli spari, il panico...», scosse la testa: non era
spaventata, piuttosto confusa da una situazione che non credeva sarebbe andata
in quel modo, che forse aveva sottovalutato in uno slancio di ingenuità o
ottimismo.
«Cosa
pensi che succederà adesso?», si trovò a chiedere con una serietà che, si
accorse Valjean, non le era mai appartenuta: sembrava improvvisamente grande ai
suoi occhi, matura – solo in quel momento si accorgeva che stava diventando una
donna, che era forte.
Sospirò:
non sapeva dare una risposta alla sua domanda, in ogni caso. Il fantasma della
guerra civile, per qualcuno come lui che l'aveva vista davvero vent'anni prima,
era qualcosa di oscuramente concreto dopo i fatti di quella mattina e un cupo
terrore s’impossessava di lui al solo pensiero che le strade sarebbero di nuovo
diventate tanto fredde e piene di sangue. Si forzò di sorridere, nascondendo
quei tristi pensieri – non c'era motivo di turbare anche Cosette, in fondo
erano solo previsioni e timori: non poteva permettersi di spegnere anche in lei
la speranza di qualcosa di diverso, questa volta.
«Vedremo
Cosette», le disse semplicemente, baciandole il capo e facendo in modo che si
rimettesse per bene a letto «Ora riposa. Io sarò qui».
No,
non importava quanto grande Cosette stesse diventando, quanta serietà il suo
viso potesse già reggere: agli occhi di Valjean sarebbe rimasta sempre la sua
bambina da proteggere e amare.
Far
rimanere davvero Combeferre a letto alla fine s'era rivelata un'impresa più
complicata del previsto e nonostante le parole rassicuranti di Courfeyrac, era
servito un piccolo aiuto da parte di Jehan perché si calmasse – il sonno non
era prettamente un sentimento come l'affetto o l'odio, ma con un po' di sforzo
era riuscito ad far emergere nell'amico una stanchezza tale da convincerlo a
restare, spegnendo la preoccupazione e infondendogli allo stesso tempo la
consapevolezza che sarebbe andato tutto bene. A Jehan non piaceva giocare così
tanto con i sentimenti altri, creare qualcosa che davanti ai suoi occhi
appariva sbagliato, un brutto accostamento di colori, ma si persuase che fosse
necessario per il suo bene e che lì fuori, mentre ormai era buio, avrebbe corso
più rischi di quanto avrebbe potuto essere d'aiuto.
Courfeyrac
invece era consapevole che uscire per cercare Enjolras fosse la cosa peggiore
da fare – che senso aveva andare a cercare qualcuno quando l'accordo delle
ventiquattro ore serviva per tenere al sicuro chi era riuscito a tornare al
Musain sano e salvo? Eppure restare fermi sapendo che Enjolras poteva essere in
pericolo chissà dove era davvero qualcosa fuori discussione. Si era detto che
in fondo della regola era davvero stupida: nessuno sarebbe semplicemente
scappato invece di provare ad aiutare chi non era tornato.
S'erano
divisi. Courfeyrac aveva preso la via del cielo: ormai era buio abbastanza da
poter passare inosservato e sperava che dall'alto potesse vederlo più
velocemente, se era ancora per strada; gli altri s'erano sparpagliati a
raggiera, seguendo le diverse strade che portavano al cinema e facendo in modo
di restare in un raggio tale che Jehan potesse percepirli tutti: se avesse mandato
un improvviso sollievo, tutti avrebbero saputo che qualcuno lo aveva trovato.
Paradossalmente,
fu quello fermo a trovarlo. Jehan, poco distante dal Musain, concentrato sugli
altri e allo stesso tempo a sondare tutto ciò che si muoveva ne raggio d'azione
che poteva coprire, avvertì chiaramente qualcuno venire nella sua direzione. I
suoi sentimenti erano chiari e su di tutti troneggiava la preoccupazione,
particolare perché non era per se stesso, ma era rivolta a qualcun altro.
Prouvaire non riusciva a mettere per bene a fuoco la situazione, ma dal modo in
cui quella sensazione aumentava, chi la provava doveva star correndo – e con
molta probabilità nella sua direzione.
Si
concesse di aprire gli occhi, nonostante tenerli chiusi lo aiutasse a
concentrarsi, e lo vide alla sua destra. Inizialmente era qualcosa di grosso e
informe, i cui contorni appena si distinguevano nel buio della notte; quando
riuscì a mettere precisamente a fuoco l'immagine, la cosa lo paralizzò: un
ragazzo dai capelli scuri correva nella sua direzione portandone un altro sulle
spalle, la testa china che oscillava per la mancanza di coscienza, le braccia
buttate sul petto del primo, anch'esse abbandonate a se stesse e per di più
insanguinate.
Enjolras.
«Aiutami!
Mi serve aiuto!», gridò verso Jehan, avvicinandosi.
Il
ragazzo non riusciva a sentire che la preoccupazione di quello sconosciuto: se
avesse avuto delle cattive intenzioni, non avrebbe saputo dirlo, ma
istintivamente la semplicità di quello che percepiva bastò perché si fidasse.
Ed Enjolras sembrava messo così male che davvero non avrebbe avuto altro tempo
per stabilire chi erano gli amici e chi i nemici.
«Enjolras!»,
lo chiamò, quando lo sconosciuto l'ebbe posato a terra «Che cosa è successo?».
«La
ferita forse è infetta, forse ha perso troppo sangue, non lo so!», il ragazzo
pareva sconvolto, Jehan lo guardò, sorpreso dal modo in cui si stesse facendo
prendere dalla preoccupazione e dallo spavento.
«Dobbiamo
portarlo dentro», stava continuando quel ragazzo «Dobbiamo fare in modo che-»,
si trattenne, sgranò gli occhi, esitò «che... che qualcuno tratti quella ferita
come si deve e che riposi».
Jehan
aveva infuso in tutti l'urgente bisogno di tornare da lui, mentre con lo
sconosciuto tentava di sollevare Enjolras stando attento a non fare leva sulla
spalla malandata. Erano entrati nel Musain quando gli altri li raggiunsero. Un
semplice sguardo al ragazzo e il sollievo che avevano provato nel sentire il
richiamo di Jehan sparì – trattennero il fiato, qualcuno pensò al peggio.
«Bisogna
togliere quel proiettile dal braccio prima che continui a fare danni», disse
con serietà Joly, mentre Courfeyrac aiutava i due a sostenere quel corpo
abbandonato a se stesso.
«Chi
sei tu?», chiese invece Bahorel, squadrando lo sconosciuto; questi esitò, osservandolo
per qualche istante prima di rispondere.
«L'ho
trovato praticamente mezzo morto e ho cercato di portarlo al sicuro», disse
«Io- io sono Grantaire. Mi ha detto di venire qui, che vi avrei trovato».
In
quel preciso istante, mentre scendevano nel seminterrato dove Combeferre –
ovviamente – li stava aspettando appena dietro la porta, nonostante la
persuasione dell'empatia del poeta, proprio Jehan sentì qualcosa di particolare
e pungente, uno scoppio di verde misto a nero, una miscela di paura, rimorso, ansia
ed esitazione. Lo sconosciuto stava mentendo. Prouvaire si estraniò per qualche
istante, mantenendo appena accesa la coscienza delle sensazioni che provava e
di quelle intorno a lui per concentrarsi su Grantaire. Aveva mentito? Era una
spia, stava cercando di infiltrarsi per scoprire dove si nascondessero i vari
gruppi di mutanti? Aveva intenzione di far loro del male? Jehan cercava di
analizzare tutto con calma analitica: il rimorso, forse per quello che stava
facendo, era chiaro, così come però era chiara la paura che provava. Paura di
cosa? E perché era comunque tanto preoccupato per Enjolras? Non riusciva a
capire le sue motivazioni, che cosa ci facesse lì con loro, perché si sentisse
tanto coinvolto.
Poi
accadde qualcosa che gli tolse il fiato. Qualcosa di sorprendente che non aveva
mai provato prima. Rivolse a Grantaire uno sguardo sorpreso e un sorriso enorme
mentre gli occhi gli luccicavano – davanti a lui il ragazzo invece pareva
sempre più terrorizzato e scosse appena la testa, guardandolo in modo
eloquente, quasi supplichevole. Jehan tacque e si voltò verso Joly.
Erano
entrati tutti nella stanza di Enjolras – era sempre strano per Prouvaire
camminare con così poca coscienza di sé – e lo studente di medicina aveva
recuperato i suoi strumenti sterili. Combeferre, uno sguardo sconvolto sul viso
pallido, era corso come poteva a recuperare anestetico e disinfettante, per poi
aspirare il Pentothal in una siringa e passarla a Joly.
«Andrà
tutto bene, Enjolras. Tu devi solo tenere duro ancora per un po'», gli sussurrò
quello, sfiorandogli appena il viso – prima aveva provato a fargli riprendere
conoscenza, ma il ragazzo non aveva reagito. Combeferre accanto a lui, aveva
preso a disinfettare la ferita – sembrava muoversi come un automa, senza essere
veramente lui e Courfeyrac gli stava accanto, passando lo sguardo da lui ad
Enjolras. Non sapeva che cosa pensare, non sapeva che cosa provare: era
sospeso, in attesa che qualcosa cambiasse.
Dopo
averlo anestetizzato, Joly aveva cominciato a muoversi con mano ferma, ma
sapeva di avere paura e sapeva che non
c'era bisogno di Jehan perché gli altri lo sentissero. Domande su domande
continuavano a fargli girare la testa – se il proiettile aveva lacerato il
muscolo? Se aveva fatto già infezione? Se non fosse stato in grado di aiutarlo,
di salvarlo? A che diavolo serviva il suo potere di guarigione se era il solo a
beneficiarne, se non poteva aiutare nessuno?
Prese
un respiro profondo e incise, allargando di poco la ferita, quel che bastava
perché con le pinze cercasse il proiettile. C'era molto sangue e Joly sperava
davvero che il muscolo non fosse stato troppo danneggiato – d'improvviso si
rasserenò: era concentrato, sentiva che poteva farcela, che Enjolras sarebbe stato
bene e presto, che niente gli sarebbe sfuggito di mano. Non s'era accorto che
Jehan aveva fatto lentamente uscire tutti dalla stanza, lasciando solo Bossuet
con lui e facendo in modo che sentisse il suo ottimismo, il modo in cui lui più
di chiunque credeva in quello che Joly era in grado di fare.
Quando
l'aspirante medico uscì dalla stanza, quasi un'ora dopo, cercò di nascondere le
mani che tremavano per l'adrenalina, ma che era stanco e spossato lo si poteva
perfettamente leggere dal volto un po' pallido e sudato, così come si poteva
vedere benissimo, dal sorriso che gli addolciva il viso, che era fiero di sé e
che soprattutto Enjolras stava bene.
«Il
proiettile non ha fatto molto danno, mentre per la perdita di sangue... ci
vorrà un po' di tempo perché si riprenda, ma starà bene». Cercò Grantaire con
lo sguardo e lo trovò seduto, con gli occhi un po' vacui. «Grazie», gli disse
«Se non lo avessi portato qui, o se comunque non lo avessi aiutato, non sarebbe
finita bene».
Il
ragazzo sorrise appena, annuendo, ma pareva distratto da qualcosa che gli altri
non vedevano. Joly si sedette poco lontano da lui con un sospiro liberatorio e
una pacca sulla spalla da parte di Bossuet, mentre Combeferre e Courfeyrac
entrarono nella stanza dell'amico. Jehan si beò della loro sensazione di
sollievo per rinfrancarsi e poi cercò di mandare una minima sensazione di
tranquillità anche a Grantaire – non era ancora del tutto sicuro del perché stesse
in quelle condizioni e non poteva chiederglielo senza che gli altri facessero
domande, quindi si arrese ad aspettare che fosse lui a fare la prima mossa.
«Sai,
l'ultima volta che ho avuto così paura per qualcuno è stato quando hai avuto
quella febbre altissima e per farla scendere ti abbiamo fatto fare almeno tre
bagni d'acqua gelata. Avevamo... quindici anni?», stava sussurrando Courfeyrac,
accanto al letto in cui Enjolras dormiva profondamente.
Sembrava
riposare, ma era troppo calmo, tropo fermo perché convincesse che fosse un
sonno naturale: non lasciava né lui, né Combeferre tranquilli. Come potevano?
Era ancora troppo pallido e l'odore del disinfettante nella stanza quasi li
soffocava, ricordando ad entrambi che qualcosa non andava, che Enjolras non
stava bene.
«Sai»,
la voce di Combeferre era un po' roca «Sono abbastanza sicuro che quella volta
fossi io quello in fiamme».
A
quelle parole, Courfeyrac riuscì ad alzare lo sguardo per rivolgerlo, sorpreso,
all'amico.
«Davvero?
Ne sei sicuro? Ero convinto che fosse successo quando Enjolras ha scoperto i
suoi poteri», disse con una certa sicurezza.
«No,
è stato pochi giorni dopo che io ho scoperto i miei. Ho ancora il
terrore dell'acqua tanto fredda», sostenne con altrettanta sicurezza
Combeferre, per vedere poi l'amico scoppiare a ridere. Non aveva idea del
perché, di cosa avere poi detto di tanto esilarante, ma sorrise di rimando
perché quando Courfeyrac rideva in quel modo bisognava davvero essere di pietra
per non ricambiare il gesto.
«Miseria,
se invidio la tua memoria!», gli disse quello mentre ancora rideva e così
facendo perse il momento preciso in cui invece Combeferre si rabbuiò – quando
tornò a guardarlo il suo volto era completamente cambiato, scuro e serio, teso
come se stesse trattenendo il fiato.
«'Ferre...?»,
lo chiamò, alzandosi e avvicinandosi a lui: da quella distanza poteva
chiaramente vedere i lineamenti un po' tirati del viso e qualche piccola
escoriazione che lo arrossava fino al taglio più evidente sulla guancia –
quello forse avrebbe lasciato una cicatrice.
«Non
avrei dovuto lasciarlo da solo», sussurrò «Se fosse rimasto con me, una volta
liberatici di quella ragazza saremmo tornati insieme. Invece guarda quanto
tempo è passato, quanto sangue ha perso...». Non era da Combeferre buttarsi già
in quel modo: guardava sempre avanti lui, con una certa placida speranza che il
futuro sarebbe stato migliore, ma quello era Enjolras, quello era il suo
migliore amico, la persona che lo conosceva meglio, i suoi primi ricordi
cominciavano con lui e se anche Joly li aveva rassicurati sul fatto che sarebbe
stato bene, vederlo in quel modo era come sentirsi soffocare.
«Starà
bene. Lo conosciamo, serve ben altro per metterlo al tappeto!», cercò di
confortarlo Courfeyrac – anche lui era spaventato, anche a lui faceva paura la
fragilità con cui il corpo del ragazzo era abbandonato a se stesso sul letto.
Si spostò accanto a Combeferre e poggiò la testa e le braccia sul letto –
quella notte non lo avrebbero lasciato solo.
Eponine
faticava a prendere sonno: gli eventi di quella giornata riuscivano a scuoterla
ancora a distanza di ore e sentiva una certa adrenalina mista a paura correrle
sotto la pelle – con sensazioni del genere, tanto forti, faticava a tenere a
bada il suo potere e di tanto in tanto le punte delle dita diventavano
traslucide senza che se ne accorgesse.
Con
un sospiro si alzò dalla vecchia poltrona su cui era accucciata – ormai si
sentiva molto legata al piccolo appartamento in cui aveva preso a vivere e
nonostante fossero poche le cose che lo riempivano ed ancor di meno quelle che
il logorio del tempo aveva risparmiato, la calma che si respirava la rendeva
tranquilla. Di tanto in tanto Gavroche vi portava un po' di allegra confusione,
quando si fermava da lei per dormire o fare colazione, per poi tornare in giro
per strada col suo gruppo di ragazzini mutanti – ad Eponine non dispiaceva,
anzi avrebbe voluto che restasse più spesso, sempre, ma Gavroche le sorrideva
con fare malandrino e correva via ogni volta: era libero e sapeva di
un'innocenza che forse lei aveva già perso.
Il
pensiero si spostò con una certa rassegnata malinconia su Azelma. La ragazza si
chiese dove fosse, cosa stesse facendo – una parte di lei non poteva che
pensare al peggio, dal momento che alcuni mesi prima era semplicemente
scomparsa nel nulla, nel disinteresse più totale, anche dei loro genitori; eppure
l'affetto che ancora sentiva per lei le impediva di arrendersi al quel
pensiero. Era andata via anche per questo: continuare a stare nella stessa casa
dei suoi genitori era diventato impossibile.
Uscì
sul pianerottolo avvolta in un vecchio scialle azzurro e a piedi nudi.
Camminare nel buio non le aveva mai fatto paura, lei aveva vissuto nel buio da
che aveva memoria ed aveva imparato ad apprezzare la poca luce che regalava la
Luna nelle notti serene. Mormorava appena un motivetto inventato, forse una vecchia
nenia, quando s'accorse che la porta dell'appartamento di Marius era socchiusa.
Vi si fermò davanti, cercando di guardare se ci fosse qualcuno senza essere
vista e scorse il profilo del ragazzo, di spalle, che fissava qualcosa oltre la
finestra.
Marius
era stato la cosa migliore che potesse capitarle da quando aveva lasciato la
sua famiglia. La prima volta che gli aveva parlato era stato come conoscerlo da
sempre e la seconda ridevano come vecchi amici: era gentile e dolce e allo
stesso tempo le dava sicurezza averlo accanto. Innamorarsi di lui era davvero
stato troppo facile: le aveva preso il cuore con grazia e la teneva lì,
stringendolo di tanto in tanto ma senza farle troppo male. Perché lui non la
vedeva – o meglio, l'aveva vista, era entrata nella sua vita, ma era anche
andato oltre a cercare altro, qualcosa che lei non era.
Il
ragazzo non la sentì perso com'era nei suoi pensieri, che quella finestra e il
cielo scuro al di là di essa non facevano che ingrandire ed allargare,
alimentare rendendoli sempre più lunghi, portandoli sempre più avanti. Pensava
di nuovo a lei, a quella ragazza di cui conosceva solo il viso pallido e i
lineamenti gentili; anzi, ad onor del vero, aveva smesso di farlo quand'era
tornato a casa con Eponine, ma al momento di chiudere gli occhi e provare a
dormire la sua immagine, appena un po' sfocata dal fumo dell'esplosione, gli
era tornata vivida alla mente e non era stato più capace di mandarla via.
Nel
paesaggio fatto di strade e palazzi, Marius si chiedeva chi fosse e se stesse
bene. Gli pareva di tenere a lei come si tiene a una persona cara e la
preoccupazione che sentiva era sincera, veniva dal cuore. Gli era bastato
vederla ed una cosa tanto piccola ora minacciava di condizionare i suoi
sentimenti a tal punto da togliergli il sonno.
Sospirò,
sorridendo appena al nulla che aveva davanti e si spostò dalla finestra –
facendo sussultare dietro di lui Eponine, che ancora lo osservava. Quando si
voltò verso di lei, la vide all'ingresso, un'espressione un po' sorpresa che le
colorava viso.
«Ancora
scossa per oggi?», le chiese – che ad Eponine piacesse muoversi di notte era
una cosa che sapeva, che lei stessa gli aveva detto quando s'erano conosciuti.
E in notti tranquille come quelle poteva vedere il perché: il buio aveva
coperto le ferite, la rabbia e lo sconcerto – Parigi pareva di nuovo tranquilla
e magica.
«Io?
No, non troppo», sorrise la ragazza, prendendo quelle parole come un invito ad
entrare.
Marius
si sedette sul divano a pochi passi da lui e lei fece altrettanto – lo scialle
la copriva abbastanza da non sentirsi a disagio nonostante la sottile camicia
da notte che indossava.
«Credo
sia solo l'inizio, sai?», parlò il ragazzo – pensava ad alta voce, ma ad
Eponine anche quello non era mai dispiaciuto.
«Ci
saranno nuovi scontri?».
Marius
annuì serio – era davvero troppo giovane per aver visto la guerra o il disastro
che ne era conseguito, ma anche uno sciocco avrebbe percepito il clima di
pungente attesa che si respirava in quei giorni, come fossero sospesi, aperti a
ogni possibilità e per questo indefiniti – la Storia, qualunque cosa fosse poi
successa, non li avrebbe ricordati perché vuoti di eventi, ma per chi li viveva
essi restavano pregni d’idee e presentimenti.
«Domattina
vorrei tornare alla panetteria dove c'è stata l'esplosione. Vorrei vedere se si
può fare qualcosa, aiutare qualcuno...», sussurrò Eponine.
A
quelle parole Marius si destò di colpo. Sì, era la cosa migliore che potessero
fare, forse anche per dimostrare che non erano diversi dal resto della gente,
che erano anche loro parigini e francese, che qualunque colpo alla città e al
popolo era un colpo a tutti. E poi pensò di nuovo a lei. La ragazza senza nome
e dai lineamenti dolci ci sarebbe stata? Magari sarebbe tornata con la stessa
intenzione oppure, una volta sparsa la voce sarebbe accorsa comunque per dare
una mano... l'avrebbe rivista magari, e poi…?
«Sarà
meglio andare a dormire allora – non è stata una giornata tranquilla e un po'
di riposo non potrà che farci bene», suggerì alzandosi – si sentiva
improvvisamente smanioso e stare fermo era qualcosa che non poteva concedersi.
Eponine
comprese che volesse rimanere solo e vide nei suoi occhi una luce diversa: era
lontano col pensiero, lontano da quella stanza e più lontano da lei di quanto
non fosse mai stato. Si chiese che cosa fosse cambiato in una sola giornata,
che cosa lo avesse portato tanto più avanti da lei – mentre usciva e Marius la
salutava con un affettuoso bacio sulla fronte, la ragazza ebbe una sensazione di
freddo che non aveva nulla a che fare con i suoi piedi nudi. Tornò nel suo
appartamento stringendosi nello scialle come se potesse proteggerla dalla vita.
La
prima sensazione che Enjolras provò nel riprendere i sensi fu la gola
terribilmente secca. Provò a deglutire e umettarsi le labbra ma non fece che
peggiorare la cosa; aveva gli occhi chiusi e la sensazione che sarebbe stato
male se li avesse provati ad aprire. Era stupido, ma si sentiva tremendamente
insicuro. E non era da lui.
Cercò
di fare mente locale, di capire dove fosse e che cosa gli fosse successo. Era
ferito! Ricordò che la spalla gli faceva malissimo, mentre in quel momento...
non la sentiva nemmeno. Sudò freddo, l'improvvisa brutta sensazione che gli
fosse successo qualcosa lo paralizzò – ancora senza aprire gli occhi provò a
muovere il braccio che sapeva essere sano verso l’alto e il sollievo lo pervase
quando toccò qualcosa. Il suo braccio era ancora lì, solo insensibile.
«Credo
che non lo sentirai ancora per un po’», gli disse una voce, che riconobbe
essere quella di Bahorel «Joly ha voluto tenerlo anestetizzato per controllare
quanto dolore sentissi».
Enjolras
sospirò, di nuovo rilassato, e provò ad aprire gli occhi. Era nella sua stanza
– pur avendo i ricordi completamente in subbuglio, in qualche modo doveva
essere riuscito a tornare al Musain e la voce di Bahorel non era mai stata
tanto bella da sentire. La testa gli girò appena mentre gli occhi si abituavano
alla luce elettrica: ora capiva bene il fastidio che Combeferre di solito lamentava
– la luce del sole, per quanto probabilmente più forte, non lo avrebbe
disturbato tanto e la debolezza che si sentiva addosso di certo non lo aiutava:
si sentiva stordito e restare sveglio gli pareva una grossa impresa. Ma sapeva
che non era quello il momento giusto per addormentarsi di nuovo: voleva sapere
che cosa fosse successo alla manifestazione, se erano tutti sani e salvi-
«Combeferre!»,
esclamò con un'improvvisa urgenza, scattando in avanti e perdendo l'equilibrio
per via dell'arto ancora addormentato e, si accorse, allacciato al petto con
una fascia bianca. Aveva ricordato in un lampo la sconosciuta, i campi di forza
che li avevano colpiti, lo scontro: ‘Ferre aveva fatto in modo che potesse
scappare, guadagnando tempo… Non era certo che la nausea che sentiva allo
stomaco fosse dovuta al braccio, che aveva preso a farsi sentire per il
movimento improvviso.
Intanto
Bahorel, accanto a lui, s’era mosso in modo tempestivo, prendendolo perché non
si facesse troppo male, sbilanciandosi.
«Non
agitarti, è tutto a posto. ‘Ferre sta riposando: Joly poco prima dell’alba è
riuscito a convincere sia lui sia Courfeyrac a riposare, non senza un certo
aiuto da parte di Jehan».
Enjolras
sospirò lentamente, lasciando che l’improvvisa ansia che lo aveva assalito gli
scivolasse addosso come un lenzuolo sottile e gli permettesse di pensare
nuovamente in modo lucido.
«Cos’è successo?», tornò a
chiedere in modo serio – Bahorel non lo lasciò andare, ma si sistemò meglio sul
letto. Al ragazzo parve che tremasse appena, ma doveva sbagliarsi, forse era
lui che tremava, ancora poco stabile nel suo stesso corpo.
«Ci sono stati quattro morti –
un soldato fra questi – e decine di ferite. Ci hanno sparato addosso e poi ci
hanno cacciato come si fa con i cervi nei boschi, o le volpi…». Enjolras
s’irrigidì appena sotto le mani salde di Bahorel e quest’ultimo si rese conto
che forse aveva esagerato. Cercò di calmarsi «Joly è uscito: voleva controllare se
ci fosse bisogno di aiuto in ospedale, rendersi utile in qualche modo, mentre
Gavroche e les irrégulers hanno
cominciato il loro solito giro», sorrise – quei ragazzini erano piombati di
prima mattina al Musain come se nulla fosse successo, offrendosi di andare in
giro a controllare la situazione in tutta la città. Alla fine, il monello
biondo era sgattaiolato via, ghiacciando appena la strada che aveva davanti con
un gesto della mano per poi scivolarci sopra con esperienza.
«Le cose ora precipiteranno velocemente», sussurrò Enjolras, ancora serio in volto «Dobbiamo essere pronti e coinvolgere quanti più
possiamo – la guerra civile è qualcosa di pericolosamente vicino e se vogliamo
stroncarla sul nascere o avere comunque la meglio dovremo essere in
maggioranza, senza lasciare che i soldati ci blocchino, ci isolino».
Bahorel
aveva annuito con un sospiro – se n’era accorto Enjolras del suo tremore, lo
sapeva bene, ma nonostante la notte, lo shock e la rabbia non si erano placati
e quella finiva per essere la sua reazione quando non era impegnato a prendere
a pugni qualcosa. La nebbia con cui aveva coperto Parigi il giorno prima era
qualcosa che gli apparteneva e toccarla era come toccare la sua pelle – per
questo avvertiva tutto quello che succedeva in essa: aveva sentito i corpi
delle tre vittime diventare lentamente freddi ed aveva sentito i feriti
accasciarsi o muoversi più freneticamente, gli spari attraversarla veloci e i
colpi farsi strada con pericolo. La battaglia era avvenuta sulla sua pelle e a
pensarci non importava quanto fosse forte, il tremore era qualcosa che non
poteva evitare.
Enjolras
era stato irremovibile. Con l’aiuto dell’amico s’era voluto mettere in piedi
nonostante la testa gli girasse ancora e il braccio lentamente avesse preso a
fargli male. Quando uscì nel corridoio, verso lo spazio in cui avevano messo un
tavolo e qualche sedia, Courfeyrac fu il primo a vederlo. Jehan, poco lontano
da lui fu invaso da un sollievo e una gioia così grandi che rischiarono di
commuoverlo. Il ragazzo s’era alzato e con un paio di veloci falcate gli era
andato incontro, per poi stringerlo in un abbraccio – pericolosamente dimentico
della sua ferita. Non che Enjolras avesse intenzione di lamentarsi in qualche
modo; no, quell’abbraccio gli andava bene – stranamente bene – perché quand’era
rimasto solo il pensiero dei suoi amici, di quello che era potuto succedere
loro, lo aveva tormentato come nessuna ferita avrebbe mai potuto fare.
«Sei sveglio…».
Il sussurro non era stato di
Courfeyrac, che stringendolo s’era rassicurato del fatto che stesse bene, lì
con loro. Era stato Combeferre a parlare, fermo a pochi passi alle loro spalle,
il corpo rigido e lo sguardo fisso, senza battere ciglio, con la puerile
paura che lo scenario sarebbe potuto cambiare in quella frazione di secondo.
Enjolras, tra le braccia dell’amico era sussultato – Courfeyrac stava bene
quando l’aveva lasciato, era stato preoccupato per lui come per tutti gli
altri. Ma aveva lasciato ‘Ferre nel bel mezzo di uno scontro, senza sapere come
fosse finito, se fosse riuscito a tornare.
Si
voltò verso di lui e il graffio che aveva sul viso fu la prima cosa a colpirlo.
«Ci hai fatto prendere un colpo. Ma dico, hai
intenzione di morire prima che risolviamo questa situazione?», stava intanto dicendo quello, la paura passata che
tornava a pungere all’altezza dello stomaco.
Enjorlas sorrise appena, perché
capiva che cosa stava succedendo e sentì ridere anche Courf accanto a lui.
«Tu invece sembri aver litigato
con un gatto», sminuì – erano pronti a morire, non era mai stato in dubbio. Ma
in quel preciso istante si stavano tutti rendendo conto che essere feriti era
peggio, che vedere i primi amici doloranti e sofferenti era qualcosa di
peggiore della morte stessa – erano pronti, ma non potevano smettere di avere
paura gli uni per gli altri.
«Quel gatto aveva dei coltelli
davvero affilati», stette al gioco Combeferre, avvicinandosi, ora più calmo, ed
abbracciandolo anche lui. «Vorrei davvero capire, però, perché usarli contro di
noi». C’era risentimento nelle sue parole e del
dispiacere. ‘Ferre avrebbe voluto davvero sapere che cosa aveva spinto quella
mutante ad attaccarli, a scegliere – se proprio doveva – la parte avversa alla
loro.
In
un angolo della stanza, su una sedia in bilico tra il muro e il tavolo,
Grantaire osservava la scena con sguardo perso. Davanti a lui stava un
bicchiere vuoto per metà di vino rosso, ma in realtà era abbastanza sobrio da
comprendere quello che gli succedeva intorno. Jehan lo scrutava ancora con
interesse e una sottile preoccupazione, come se sapesse che doveva accadere
qualcosa da un momento all’altro. Lui invece non aveva altra intenzione, in
quel momento, che farsi trasportare dalla situazione e prendere le cose così
come venivano. Si sentiva stanco come non accadeva da tanto tempo e anche la
paura e la preoccupazione che inizialmente aveva sentito ora erano scemate.
Si
riscosse appena quando lo sguardo di Enjolras si posò su di lui e scorse nei
suoi occhi chiari una certa, improvvisa consapevolezza.
«Tu! Tu sei quello dell’osteria!», disse il ragazzo, sorpreso e in qualche modo
sospettoso.
«Dovresti smetterla di svenire
ogni volta che mi vedi», rispose lui con un mezzo sorriso, mettendosi dritto
sulla sedia «La gente potrebbe fraintendere».
«Come sei arrivato qui?», continuò Enjolras, come se non avesse affatto
sentito la provocazione di Grantaire.
Quello alzò le spalle con fare
disinteressato, che però non inganno Jehan, ormai fisso sulle sue emozioni –
stava provando di nuovo lo stesso miscuglio di sensazioni di quando lo aveva
conosciuto e se possibile in maniera ancora più forte.
«Mi hai detto dove andare, dove
avrei trovato loro», rispose indicando il resto dei ragazzi «E che dovevo
muovermi. Hai biascicato dei nomi e poi sei svenuto – stava diventando
un’abitudine, con quel braccio messo tanto male».
Enjolras sembrava innervosito:
sapeva che quel ragazzo lo aveva aiutato, che gli aveva disinfettato e medicato
il braccio come meglio poteva e che a quanto pareva lo aveva portato in salvo,
ma qualcosa in lui lo metteva in allarme – poteva star delirando per il dolore
e il sangue perso, ma non era da lui parlare del Musain a un perfetto
sconosciuto e, soprattutto, non ricordava di averlo fatto.
«Per la miseria, possibile che
quando dico di stare a letto nessuno mi sente?».
L’improvvisa voce di Joly che
apparve mentre scendeva gli ultimi gradini della rozza scala che portava al
seminterrato interruppe quello scambio di battute, distogliendo l’attenzione di
tutti dal nuovo arrivato. Grantaire finse ancora indifferenza, ma dentro era
sempre più insicuro e combattuto.
«Dovresti aver imparato a
conoscerci», lo assecondò Bahorel, che intanto s’era seduto su una brandina
«Non sappiamo stare fermi».
Joly sospirò, versandosi
dell’acqua da bere, mentre dietro di lui Bossuet, appena comparso, non sembrava
avere una bella cera. Jehan fu attirato da lui e lasciò momentaneamente andare
Grantaire – che ne fu silenziosamente grato.
«Che cosa è successo?», chiese
Enjolras facendosi avanti.
Joly tremò, guardando l’altro
con la coda dell’occhio. Jehan percepì un’improvvisa onda di dolore da
entrambi, se ne sentì quasi sopraffatto e non poté impedirsi di rifletterne
almeno una parte, sicché tutti i ragazzi capirono che la cosa era più grave di
quello che sembrava.
«Bossuet?», lo chiamò con voce
cauta Courfeyrac, mentre questo si sedeva, guardandosi le mani come sotto
shock. Joly gli si spostò accanto: odiava quella situazione, non era la prima
volta eppure non aveva ancora imparato come comportarsi, che cosa dire – tutto
sembrava essere stupido o ipocrita. La verità era che non aveva idea di come si
sentisse l’altro, non sapeva che cosa volesse dire avere il suo potere. Non
sapeva come aiutarlo – per quanto fingesse bene di aver imparato come muoversi
intorno a lui, la verità era tutt’altra.
«C’era un uomo in ospedale».
L’inflessione della voce era praticamente nulla, sembrava che il ragazzo stesse
parlando nel sonno «Era ridotto male, aveva bruciature ovunque e fratture…
stava morendo: i medici non gli avevano dato più di qualche giorno di vita. Ma
soffriva. La morfina che gli avevano dato era troppo poca perché serviva ad
altri pazienti, pazienti che potevano ancora salvarsi…». Prese fiato – ora
pareva che le emozioni fossero nuovamente tornate, la voce aveva ceduto sulle
ultime parole e stentava a riprendersi «…ci ha riconosciuto subito. Sapeva che
eravamo mutanti. E ci ha pregato di
aiutarlo».
Joly accanto a lui aveva
serrato gli occhi. Gli succedeva sempre. Era un ottimo medico, pronto e freddo
all’occorrenza, compassionevole invece quando poteva essere d’aiuto. Ma questo
non cambiava le cose, non cambiava il fatto che era invulnerabile – niente
poteva ferirlo per poco più di qualche secondo e cominciava a chiedersi se
sarebbe mai potuto morire. Vedere gli altri ferirsi, morire anche, era qualcosa
che non riusciva a sopportare. Si chiedeva perché non potessero guarire anche
loro, perché fosse l’unico ad avere un simile privilegio. Cercava di non darlo
a vedere, ma alle volte era davvero difficile. E questa era stata una di quelle
volte.
«Non c’era nulla che potessimo
fare», aveva preso parola, con le spalle al muro, la testa reclinata e lo
sguardo verso il soffitto. «Era troppo debole, aveva troppe ferite. Ci ha
chiesto di farlo morire».
Jehan spalancò gli occhi. Aveva
improvvisamente capito dove quel racconto sarebbe andato a finire. Grantaire,
più lontano rispetto agli altri, aveva invece chiuso i propri. Si stava dando
dello stupido in quel momento; stava pensando che c’era nuovamente cascato, che
non avrebbe dovuto esporsi tanto perché sapeva che fine avrebbe fatto. Aveva la
netta sensazione che da un momento all’altro avrebbe dato di stomaco.
«Ci ha pregato», continuò Bossuet – non piangeva, anche se la voce era
incrinata: non piangeva perché non era quello il tipo di dolore che sentiva.
Era completamente svuotato. «Gli ho stretto la mano e l’ho guardato morire. È
bastato qualche istante – era così debole…».
Nella stanza era tornato il
silenzio. Nessuno sapeva bene che cosa dire, ma i pensieri e le emozioni
correvano a briglia sciolta e per Jehan l’aria cominciava a diventare pesante
nella stanza. Sentiva un misto di dolore e compassione, senso di colpa e
generale tristezza; lo stesso sconforto e la stessa rabbia che aveva provato
non appena s’era risvegliato ora stavano riempiendo i petti di tutti. Anche
Enjolras vacillava e l’azzurrino della sua sicurezza si sbiadiva – il rosso della
convinzione, però, era più brillante che mai, perché il ragazzo riusciva a
convertire tutto quel male in nuovi propositi, in nuovi stimoli: doveva
fermarli, dovevano fermare quell’orrore.
Fu quando si staccò da quelle
sensazioni – senza essere poi tanto sicuro del perché – che l’avvertì.
Un’emozione estranea, un misto di timore e determinazione che però non
apparteneva a nessuno in quella stanza ed era comunque pericolosamente vicina a
loro.
Fu quando sentirono un primo
colpo alla porta, violento, che Prouvaire capì effettivamente che cosa fosse.
Qualcuno era entrato nel vecchio cinema. Qualcuno stava cercando di abbattere
la porta per entrare nel seminterrato.
«Soldati», fu il sussurro
allarmato di Combeferre e tutti si pietrificarono sul posto.
«Quanti sono?», volle subito
sapere Enjolras, guardando Jehan.
Il ragazzo si concentrò.
Cominciò ad escludere quelli nella stanza. Al di fuori dei suoi compagni,
c’erano svariate persone intorno al cinema. Cercò di contarle, evitando il panico
e la paura che aveva cominciato a solleticare la sua coscienza. Quando finì, si
rese conto che la situazione era grave.
«Quattordici. Un’intera
pattuglia», disse con voce secca «Sono troppi».
«Ci hanno seguito?», si agitò
Joly – doveva essere andata così, forse avevano attirato cattive attenzioni in
ospedale, forse qualche soldato li aveva notati e s’era insospettito: erano
troppi perché fosse una semplice ricognizione. Stavano entrando con la
consapevolezza che avrebbero trovato qualcosa.
Enjolras sospirò lento, mentre
Bahorel si metteva dritto e Courfeyrac si allontanava per prendere delle armi –
non tutti avevano poteri attivi con cui difendersi e quello sarebbe stato
davvero un brutto scontro.
Un nuovo colpo cercò di
scardinare la porta chiusa a chiave – quando Joly era entrato, avevano anche
dimenticato di sbarrarla. Bossuet si mosse per rimediare, ma il poeta si alzò
per fermarlo, scuotendo la testa e facendo segno di stare in silenzio. Sapeva
che cosa fare – o almeno sapeva chi avrebbe potuto aiutarlo. Convincere tutti
ad andare via era qualcosa che superava le sue forze: imprimere il bisogno
impellente di essere da qualche altra parte a quattordici persone, tutte
diverse tra loro, era qualcosa di complicato. Ma non era solo.
Si voltò verso Grantaire che
era ancora seduto davanti al bicchiere di vino al tavolo, lo sguardo attento e
puntato sul poeta. Dio, no, non stava per farlo, non stava per chiedergli di
farlo. Eppure che cosa poteva aspettarsi? Per quanto ancora tutto quello
sarebbe potuto andare tranquillamente avanti?
«Ti prego aiutaci. Non
permettere loro di arrivare a uno scontro», gli chiese Jehan – e non avrebbe
saputo dire se in quel momento si stesse riferendo solo ai soldati o anche al
resto dei ragazzi. «So che puoi farlo. So cosa
puoi fare. Se non agisci ora, allora a che cosa sarà servito tutto questo? A
cosa salvare Enjolras? Io lo so».
Il resto dei ragazzi era
sospeso fra i due partecipanti a quella criptica conversazione. Non capivano e
trattenevano il fiato in attesa di una svolta che speravano potesse essere
risolutiva.
Enjolras stava per muoversi,
parlare, dare l’ordine di tenersi pronti a sparare, quando Grantaire si alzò in
piedi, la sedia che strideva il pavimento di cemento e un nuovo violento colpo
contro la porta pronta a cadere.
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Here
I am again!
Perdonate
il ritardo, l’Ispirazione fa i capricci, il resto è opera dei miei sbalzi
d’umore ^^’’
Anyway,
altro capitolo, altro cliffhanger! Grantaire è entrato ufficialmente in gioco,
così come Cosette e Valjean – prometto che con i prossimi capitoli le cose si
velocizzeranno un po’! Tenere le fila di tutto si sta rivelando difficile, ma
spero che il risultato sia comunque soddisfacente.
Un
grazie a tutti quelli che stanno dedicando attenzione alla storia, soprattutto
a chi mi ha fatto sapere che ne pensa ♥
A
presto~
Alch.