Libri > I Miserabili
Segui la storia  |       
Autore: Alchimista    22/01/2016    4 recensioni
[X-men!AU. Non è necessario conoscere quell'universo per comprendere la storia].
Anni '60. Nel pieno della guerra fredda, l'esistenza dei mutanti è ormai di dominio pubblico e in Francia il governo viene rovesciato per instaurarne uno che considera chiunque abbia una simile mutazione come pericoloso e da rinchiudere. Gli Amis sono uno dei gruppi di resistenza in quella che ben presto diventa una guerra civile in difesa dei diritti umani.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Combeferre, Enjolras, Grantaire, Les Amis de l'ABC, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Di ferro, fuoco e speranze.

 

 

Capitolo 3: Cuciture.

 

Joly aveva chiesto a tutti di uscire dalla stanza di Combeferre: l'aria era diventata improvvisamente gelida, piena della paura di ciascuno per la sorte dell'amico e a lui serviva lucidità. Così aveva chiesto a tutti di aspettare fuori e a Jehan se avesse voluto provare a isolarli – sperava almeno che con quel compito non si facesse spossare troppo dalla preoccupazione generale e comunque a lui sarebbe servita tutta la calma del caso per aiutare Combeferre.

A prima vista, la maggior parte dei tagli e dei graffi sembrava superficiale: gli dava l'impressione che si fosse trascinato o fosse stato trascinato, che avesse lottato. La spalla tuttavia fu la prima cosa a destare la preoccupazione del giovane medico: sembrava lussata, in una posizione innaturale che però sistemò con cura, prima di fasciarla. Sul resto del petto aveva il primo rossore dei lividi che si sarebbero formati poi. Si chiese cosa fosse successo, chi lo avesse colpito con quella forza.

Stava disinfettando un taglio un po' più profondo, lungo la guancia, quando notò le sue palpebre tremolare prima di sollevarsi con lentezza, sbattendo più volte, fino ad aprirsi e lasciar vedere un paio di occhi confusi.

«Hey», lo saluto, con dolcezza e la voce appena un po' soffocata dall'emozione «Come ti senti, 'Ferre?».

Il ragazzo respirò lentamente, sussultando appena – forse il petto gli faceva male per i colpi che doveva aver preso, ma Joly s'era assicurato che non ci fossero costole rotte e che il suono dei polmoni fosse pulito.

«Immagino che stavo meglio prima di uscire da qui, stamattina», tentò di sorridere, ma si fermò non appena il taglio sul viso gli fece male. Joly si rabbuiò un po'.

«Non è profondo, ma fai attenzione a non muoverti troppo per i primi giorni. Vale anche per la spalla».

Combeferre annuì appena, poi tentò di mettersi seduto contro la spalliera in ferro battuto del letto e si perse con lo sguardo fisso sulla parete che aveva di fronte, senza vederla davvero, lontano da lì con la testa, seguendo chissà quale ragionamento. Joly avrebbe voluto chiedergli cosa ci fosse che non andava, ma l'entrata in stanza degli altri distrasse entrambi – Jehan doveva aver sentito che ora le cose andavano meglio.

«Hai intenzione di farci morire dallo spavento con le tue entrate in scena drammatiche?», lo rimproverò Courfeyrac, guardandolo fisso e con un'espressione quasi seria sul volto – Ferre avrebbe riso se non avesse fatto troppo male.

«Per una volta che ti rubo la scena, ti offendi?», scherzò sorridendo piano.

«Che diavolo ti è successo comunque?», volle sapere Bahorel – oh, lui sembrava davvero arrabbiato: Combeferre non poteva ricordarlo, ma quando era svenuto fra le braccia di Courfeyrac e Jehan e gli altri erano accorsi spaventati, era stato lui a portarlo dentro con fare pratico. Era stato agitato da allora – neanche Prouvaire ci aveva potuto fare granché.

«Una ragazza, una mutante. Aveva il mio stesso potere, ma non sembrava interessata a fare amicizia», spiegò con, di nuovo, un cipiglio preoccupato e pensieroso: essere attaccati da dei mutanti due volte nello stesso giorno lo faceva sentire più male di tutti i colpi che aveva preso.

«Avete combattuto?», si sorprese Bossuet.

«Più che altro lei attaccava ed io cercavo di fermarla, ma sì, in sostanza abb-». Si fermò. Si guardò intorno. Realizzò una cosa che lo fece rabbrividire «Dov'è Enjolras?».

I ragazzi accanto a lui tacquero, raggelati dalla sua domanda e da una constatazione simile.

«Credevamo... Era con te. Quando ci siamo allontanati era con te!», disse Joly, preoccupato – sapeva bene che la ferita al suo braccio non era cosa da poco e che non aveva potuto trattarla come si deve.

«Ci siamo separati», Combeferre boccheggiava, la sua solita calma vacillava al pensiero che Enjolras non fosse con loro «Credevo di fare una cosa buona, quella ragazza ci stava attaccando e lui era ferito! La nebbia di Bahorel si stava dissipando, quindi ho pensato di farlo andare mentre trattenevo lei. Credevo sarebbe arrivato prima di me. Credevo fosse già qui!». Parlava il modo concitato, mentre cercava di alzarsi da letto – dovevano andare a cercarlo.

«Hey, hey, hey, calmati». Le mani di Courfeyrac si posarono sulle sue spalle, facendo attenzione a quella lussata e Combeferre non sapeva come ma gli stava sorridendo, nonostante tutto «Lo andiamo subito a cercare, lo troveremo e lo porteremo qui. Tu devi solo pensare a riprenderti, mi hai capito? Hai già fatto abbastanza per oggi».

Jehan, che si era mosso non appena quello aveva cominciato ad agitarsi, accennò a un piccolo sorriso, inclinando la testa: poco prima lui e Courfeyrac avevano parlato di sentimenti e di amore, ma si chiese se poi, in fondo, lo conoscesse davvero l'amore, se si rese conto di quanto brillava quando era accanto a Combeferre.

 

Jean Valjean, che in quegli anni aveva preso il nome di Ultimo Fauchelevent, osservava la sua Cosette mentre questa giaceva, riposando, un po' più pallida del solito, nel letto della sua stanza. Ce l'aveva portata in fretta, stando attento che nessuno li seguisse ma preoccupato di portarla quanto prima a riparo. Le aveva fasciato la testa con una garza e da allora non le si era mosso da vicino: seduto su una poltrona, la osservava, quasi volesse studiarne i lineamenti, la dolcezza che traspariva da essi, la bellezza che li aveva da poco riempiti.

Sospirò. Non avrebbe dovuto lasciare che Cosette andasse a quella manifestazione, non avrebbe dovuto nonostante le sue insistenze, nonostante fosse una cosa che li riguardava da vicino. Non era mai stato un codardo, Jean Valjean, ma fino a dove poteva spingersi la prudenza e l'apprensione di un padre? Quando ancora avrebbe sofferto nella sua giovane vita, dopo la morte della madre e le continue fughe per via della loro natura, del suo passato?

Era stato uno sciocco a pesare che una volta arrivati a Parigi sarebbero stati al sicuro, che la grande città avrebbe dato loro possibilità di ricominciare – lontano dalla morte che aveva portato via la madre, lontano dai fantasmi che ancora lo inseguivano...

Cosette si mosse; ancora dormiva ma sussultò nel sonno, forse sognava. Valjean le si sedette accanto, controllò che non le fosse salita la febbre – sebbene fosse lieve il taglio che aveva – e stette a scrutarla, sperando che si svegliasse. Rivedere i suoi occhi sarebbe stata la sola cosa che avrebbe avuto il potere di tranquillizzarlo.

«Papà...?», mormorò, ancora agitandosi «Papà?». Poi lentamente Cosette aprì gli occhi per scorgere la figura di Valjean china su di lei, gli occhi lucidi appena nascosti, senza un reale sforzo, e un sorriso leggero ad allargargli il viso.

«Sei sveglia», constatò con un sorriso leggero – ma ringraziava il cielo nei suoi pensieri, perché quel semplice gesto gli aveva mostrato come respirare ancora: il mondo era tornato a girare.

Gli allungò un bicchiere d'acqua mentre la ragazza si guardava intorno, rassicurandosi perché era nella sua stanza, con suo padre e l'adrenalina che pareva ancora scuoterla non aveva motivo d'esistere.

«Cos'è successo? La manifestazione...», chiese poi.

«È stata più violenta di quello che credevo. Ricordi qualcosa?».

Cosette annuì e i suoi occhi si persero nel vuoto, mentre con una mano toccava con incertezza le garze ruvide che le circondavano la testa. Le faceva male dove probabilmente aveva un taglio e sentiva la testa pesante come se avesse preso un brutto colpo – cosa effettivamente accaduta.

«Ricordo la piazza piena di gente, gli spari, il panico...», scosse la testa: non era spaventata, piuttosto confusa da una situazione che non credeva sarebbe andata in quel modo, che forse aveva sottovalutato in uno slancio di ingenuità o ottimismo.

«Cosa pensi che succederà adesso?», si trovò a chiedere con una serietà che, si accorse Valjean, non le era mai appartenuta: sembrava improvvisamente grande ai suoi occhi, matura – solo in quel momento si accorgeva che stava diventando una donna, che era forte.

Sospirò: non sapeva dare una risposta alla sua domanda, in ogni caso. Il fantasma della guerra civile, per qualcuno come lui che l'aveva vista davvero vent'anni prima, era qualcosa di oscuramente concreto dopo i fatti di quella mattina e un cupo terrore s’impossessava di lui al solo pensiero che le strade sarebbero di nuovo diventate tanto fredde e piene di sangue. Si forzò di sorridere, nascondendo quei tristi pensieri – non c'era motivo di turbare anche Cosette, in fondo erano solo previsioni e timori: non poteva permettersi di spegnere anche in lei la speranza di qualcosa di diverso, questa volta.

«Vedremo Cosette», le disse semplicemente, baciandole il capo e facendo in modo che si rimettesse per bene a letto «Ora riposa. Io sarò qui».

No, non importava quanto grande Cosette stesse diventando, quanta serietà il suo viso potesse già reggere: agli occhi di Valjean sarebbe rimasta sempre la sua bambina da proteggere e amare.

 

Far rimanere davvero Combeferre a letto alla fine s'era rivelata un'impresa più complicata del previsto e nonostante le parole rassicuranti di Courfeyrac, era servito un piccolo aiuto da parte di Jehan perché si calmasse – il sonno non era prettamente un sentimento come l'affetto o l'odio, ma con un po' di sforzo era riuscito ad far emergere nell'amico una stanchezza tale da convincerlo a restare, spegnendo la preoccupazione e infondendogli allo stesso tempo la consapevolezza che sarebbe andato tutto bene. A Jehan non piaceva giocare così tanto con i sentimenti altri, creare qualcosa che davanti ai suoi occhi appariva sbagliato, un brutto accostamento di colori, ma si persuase che fosse necessario per il suo bene e che lì fuori, mentre ormai era buio, avrebbe corso più rischi di quanto avrebbe potuto essere d'aiuto.

Courfeyrac invece era consapevole che uscire per cercare Enjolras fosse la cosa peggiore da fare – che senso aveva andare a cercare qualcuno quando l'accordo delle ventiquattro ore serviva per tenere al sicuro chi era riuscito a tornare al Musain sano e salvo? Eppure restare fermi sapendo che Enjolras poteva essere in pericolo chissà dove era davvero qualcosa fuori discussione. Si era detto che in fondo della regola era davvero stupida: nessuno sarebbe semplicemente scappato invece di provare ad aiutare chi non era tornato.

S'erano divisi. Courfeyrac aveva preso la via del cielo: ormai era buio abbastanza da poter passare inosservato e sperava che dall'alto potesse vederlo più velocemente, se era ancora per strada; gli altri s'erano sparpagliati a raggiera, seguendo le diverse strade che portavano al cinema e facendo in modo di restare in un raggio tale che Jehan potesse percepirli tutti: se avesse mandato un improvviso sollievo, tutti avrebbero saputo che qualcuno lo aveva trovato.

Paradossalmente, fu quello fermo a trovarlo. Jehan, poco distante dal Musain, concentrato sugli altri e allo stesso tempo a sondare tutto ciò che si muoveva ne raggio d'azione che poteva coprire, avvertì chiaramente qualcuno venire nella sua direzione. I suoi sentimenti erano chiari e su di tutti troneggiava la preoccupazione, particolare perché non era per se stesso, ma era rivolta a qualcun altro. Prouvaire non riusciva a mettere per bene a fuoco la situazione, ma dal modo in cui quella sensazione aumentava, chi la provava doveva star correndo – e con molta probabilità nella sua direzione.

Si concesse di aprire gli occhi, nonostante tenerli chiusi lo aiutasse a concentrarsi, e lo vide alla sua destra. Inizialmente era qualcosa di grosso e informe, i cui contorni appena si distinguevano nel buio della notte; quando riuscì a mettere precisamente a fuoco l'immagine, la cosa lo paralizzò: un ragazzo dai capelli scuri correva nella sua direzione portandone un altro sulle spalle, la testa china che oscillava per la mancanza di coscienza, le braccia buttate sul petto del primo, anch'esse abbandonate a se stesse e per di più insanguinate.

Enjolras.

«Aiutami! Mi serve aiuto!», gridò verso Jehan, avvicinandosi.

Il ragazzo non riusciva a sentire che la preoccupazione di quello sconosciuto: se avesse avuto delle cattive intenzioni, non avrebbe saputo dirlo, ma istintivamente la semplicità di quello che percepiva bastò perché si fidasse. Ed Enjolras sembrava messo così male che davvero non avrebbe avuto altro tempo per stabilire chi erano gli amici e chi i nemici.

«Enjolras!», lo chiamò, quando lo sconosciuto l'ebbe posato a terra «Che cosa è successo?».

«La ferita forse è infetta, forse ha perso troppo sangue, non lo so!», il ragazzo pareva sconvolto, Jehan lo guardò, sorpreso dal modo in cui si stesse facendo prendere dalla preoccupazione e dallo spavento.

«Dobbiamo portarlo dentro», stava continuando quel ragazzo «Dobbiamo fare in modo che-», si trattenne, sgranò gli occhi, esitò «che... che qualcuno tratti quella ferita come si deve e che riposi».

Jehan aveva infuso in tutti l'urgente bisogno di tornare da lui, mentre con lo sconosciuto tentava di sollevare Enjolras stando attento a non fare leva sulla spalla malandata. Erano entrati nel Musain quando gli altri li raggiunsero. Un semplice sguardo al ragazzo e il sollievo che avevano provato nel sentire il richiamo di Jehan sparì – trattennero il fiato, qualcuno pensò al peggio.

«Bisogna togliere quel proiettile dal braccio prima che continui a fare danni», disse con serietà Joly, mentre Courfeyrac aiutava i due a sostenere quel corpo abbandonato a se stesso.

«Chi sei tu?», chiese invece Bahorel, squadrando lo sconosciuto; questi esitò, osservandolo per qualche istante prima di rispondere.

«L'ho trovato praticamente mezzo morto e ho cercato di portarlo al sicuro», disse «Io- io sono Grantaire. Mi ha detto di venire qui, che vi avrei trovato».

In quel preciso istante, mentre scendevano nel seminterrato dove Combeferre – ovviamente – li stava aspettando appena dietro la porta, nonostante la persuasione dell'empatia del poeta, proprio Jehan sentì qualcosa di particolare e pungente, uno scoppio di verde misto a nero, una miscela di paura, rimorso, ansia ed esitazione. Lo sconosciuto stava mentendo. Prouvaire si estraniò per qualche istante, mantenendo appena accesa la coscienza delle sensazioni che provava e di quelle intorno a lui per concentrarsi su Grantaire. Aveva mentito? Era una spia, stava cercando di infiltrarsi per scoprire dove si nascondessero i vari gruppi di mutanti? Aveva intenzione di far loro del male? Jehan cercava di analizzare tutto con calma analitica: il rimorso, forse per quello che stava facendo, era chiaro, così come però era chiara la paura che provava. Paura di cosa? E perché era comunque tanto preoccupato per Enjolras? Non riusciva a capire le sue motivazioni, che cosa ci facesse lì con loro, perché si sentisse tanto coinvolto.

Poi accadde qualcosa che gli tolse il fiato. Qualcosa di sorprendente che non aveva mai provato prima. Rivolse a Grantaire uno sguardo sorpreso e un sorriso enorme mentre gli occhi gli luccicavano – davanti a lui il ragazzo invece pareva sempre più terrorizzato e scosse appena la testa, guardandolo in modo eloquente, quasi supplichevole. Jehan tacque e si voltò verso Joly.

Erano entrati tutti nella stanza di Enjolras – era sempre strano per Prouvaire camminare con così poca coscienza di sé – e lo studente di medicina aveva recuperato i suoi strumenti sterili. Combeferre, uno sguardo sconvolto sul viso pallido, era corso come poteva a recuperare anestetico e disinfettante, per poi aspirare il Pentothal in una siringa e passarla a Joly.

«Andrà tutto bene, Enjolras. Tu devi solo tenere duro ancora per un po'», gli sussurrò quello, sfiorandogli appena il viso – prima aveva provato a fargli riprendere conoscenza, ma il ragazzo non aveva reagito. Combeferre accanto a lui, aveva preso a disinfettare la ferita – sembrava muoversi come un automa, senza essere veramente lui e Courfeyrac gli stava accanto, passando lo sguardo da lui ad Enjolras. Non sapeva che cosa pensare, non sapeva che cosa provare: era sospeso, in attesa che qualcosa cambiasse.

Dopo averlo anestetizzato, Joly aveva cominciato a muoversi con mano ferma, ma sapeva di avere  paura e sapeva che non c'era bisogno di Jehan perché gli altri lo sentissero. Domande su domande continuavano a fargli girare la testa – se il proiettile aveva lacerato il muscolo? Se aveva fatto già infezione? Se non fosse stato in grado di aiutarlo, di salvarlo? A che diavolo serviva il suo potere di guarigione se era il solo a beneficiarne, se non poteva aiutare nessuno?

Prese un respiro profondo e incise, allargando di poco la ferita, quel che bastava perché con le pinze cercasse il proiettile. C'era molto sangue e Joly sperava davvero che il muscolo non fosse stato troppo danneggiato – d'improvviso si rasserenò: era concentrato, sentiva che poteva farcela, che Enjolras sarebbe stato bene e presto, che niente gli sarebbe sfuggito di mano. Non s'era accorto che Jehan aveva fatto lentamente uscire tutti dalla stanza, lasciando solo Bossuet con lui e facendo in modo che sentisse il suo ottimismo, il modo in cui lui più di chiunque credeva in quello che Joly era in grado di fare.

Quando l'aspirante medico uscì dalla stanza, quasi un'ora dopo, cercò di nascondere le mani che tremavano per l'adrenalina, ma che era stanco e spossato lo si poteva perfettamente leggere dal volto un po' pallido e sudato, così come si poteva vedere benissimo, dal sorriso che gli addolciva il viso, che era fiero di sé e che soprattutto Enjolras stava bene.

«Il proiettile non ha fatto molto danno, mentre per la perdita di sangue... ci vorrà un po' di tempo perché si riprenda, ma starà bene». Cercò Grantaire con lo sguardo e lo trovò seduto, con gli occhi un po' vacui. «Grazie», gli disse «Se non lo avessi portato qui, o se comunque non lo avessi aiutato, non sarebbe finita bene».

Il ragazzo sorrise appena, annuendo, ma pareva distratto da qualcosa che gli altri non vedevano. Joly si sedette poco lontano da lui con un sospiro liberatorio e una pacca sulla spalla da parte di Bossuet, mentre Combeferre e Courfeyrac entrarono nella stanza dell'amico. Jehan si beò della loro sensazione di sollievo per rinfrancarsi e poi cercò di mandare una minima sensazione di tranquillità anche a Grantaire – non era ancora del tutto sicuro del perché stesse in quelle condizioni e non poteva chiederglielo senza che gli altri facessero domande, quindi si arrese ad aspettare che fosse lui a fare la prima mossa.

 

«Sai, l'ultima volta che ho avuto così paura per qualcuno è stato quando hai avuto quella febbre altissima e per farla scendere ti abbiamo fatto fare almeno tre bagni d'acqua gelata. Avevamo... quindici anni?», stava sussurrando Courfeyrac, accanto al letto in cui Enjolras dormiva profondamente.

Sembrava riposare, ma era troppo calmo, tropo fermo perché convincesse che fosse un sonno naturale: non lasciava né lui, né Combeferre tranquilli. Come potevano? Era ancora troppo pallido e l'odore del disinfettante nella stanza quasi li soffocava, ricordando ad entrambi che qualcosa non andava, che Enjolras non stava bene.

«Sai», la voce di Combeferre era un po' roca «Sono abbastanza sicuro che quella volta fossi io quello in fiamme».

A quelle parole, Courfeyrac riuscì ad alzare lo sguardo per rivolgerlo, sorpreso, all'amico.

«Davvero? Ne sei sicuro? Ero convinto che fosse successo quando Enjolras ha scoperto i suoi poteri», disse con una certa sicurezza.

«No, è stato pochi giorni dopo che io ho scoperto i miei. Ho ancora il terrore dell'acqua tanto fredda», sostenne con altrettanta sicurezza Combeferre, per vedere poi l'amico scoppiare a ridere. Non aveva idea del perché, di cosa avere poi detto di tanto esilarante, ma sorrise di rimando perché quando Courfeyrac rideva in quel modo bisognava davvero essere di pietra per non ricambiare il gesto.

«Miseria, se invidio la tua memoria!», gli disse quello mentre ancora rideva e così facendo perse il momento preciso in cui invece Combeferre si rabbuiò – quando tornò a guardarlo il suo volto era completamente cambiato, scuro e serio, teso come se stesse trattenendo il fiato.

«'Ferre...?», lo chiamò, alzandosi e avvicinandosi a lui: da quella distanza poteva chiaramente vedere i lineamenti un po' tirati del viso e qualche piccola escoriazione che lo arrossava fino al taglio più evidente sulla guancia – quello forse avrebbe lasciato una cicatrice.

«Non avrei dovuto lasciarlo da solo», sussurrò «Se fosse rimasto con me, una volta liberatici di quella ragazza saremmo tornati insieme. Invece guarda quanto tempo è passato, quanto sangue ha perso...». Non era da Combeferre buttarsi già in quel modo: guardava sempre avanti lui, con una certa placida speranza che il futuro sarebbe stato migliore, ma quello era Enjolras, quello era il suo migliore amico, la persona che lo conosceva meglio, i suoi primi ricordi cominciavano con lui e se anche Joly li aveva rassicurati sul fatto che sarebbe stato bene, vederlo in quel modo era come sentirsi soffocare.

«Starà bene. Lo conosciamo, serve ben altro per metterlo al tappeto!», cercò di confortarlo Courfeyrac – anche lui era spaventato, anche a lui faceva paura la fragilità con cui il corpo del ragazzo era abbandonato a se stesso sul letto. Si spostò accanto a Combeferre e poggiò la testa e le braccia sul letto – quella notte non lo avrebbero lasciato solo.

 

Eponine faticava a prendere sonno: gli eventi di quella giornata riuscivano a scuoterla ancora a distanza di ore e sentiva una certa adrenalina mista a paura correrle sotto la pelle – con sensazioni del genere, tanto forti, faticava a tenere a bada il suo potere e di tanto in tanto le punte delle dita diventavano traslucide senza che se ne accorgesse.

Con un sospiro si alzò dalla vecchia poltrona su cui era accucciata – ormai si sentiva molto legata al piccolo appartamento in cui aveva preso a vivere e nonostante fossero poche le cose che lo riempivano ed ancor di meno quelle che il logorio del tempo aveva risparmiato, la calma che si respirava la rendeva tranquilla. Di tanto in tanto Gavroche vi portava un po' di allegra confusione, quando si fermava da lei per dormire o fare colazione, per poi tornare in giro per strada col suo gruppo di ragazzini mutanti – ad Eponine non dispiaceva, anzi avrebbe voluto che restasse più spesso, sempre, ma Gavroche le sorrideva con fare malandrino e correva via ogni volta: era libero e sapeva di un'innocenza che forse lei aveva già perso.

Il pensiero si spostò con una certa rassegnata malinconia su Azelma. La ragazza si chiese dove fosse, cosa stesse facendo – una parte di lei non poteva che pensare al peggio, dal momento che alcuni mesi prima era semplicemente scomparsa nel nulla, nel disinteresse più totale, anche dei loro genitori; eppure l'affetto che ancora sentiva per lei le impediva di arrendersi al quel pensiero. Era andata via anche per questo: continuare a stare nella stessa casa dei suoi genitori era diventato impossibile.

Uscì sul pianerottolo avvolta in un vecchio scialle azzurro e a piedi nudi. Camminare nel buio non le aveva mai fatto paura, lei aveva vissuto nel buio da che aveva memoria ed aveva imparato ad apprezzare la poca luce che regalava la Luna nelle notti serene. Mormorava appena un motivetto inventato, forse una vecchia nenia, quando s'accorse che la porta dell'appartamento di Marius era socchiusa. Vi si fermò davanti, cercando di guardare se ci fosse qualcuno senza essere vista e scorse il profilo del ragazzo, di spalle, che fissava qualcosa oltre la finestra.

Marius era stato la cosa migliore che potesse capitarle da quando aveva lasciato la sua famiglia. La prima volta che gli aveva parlato era stato come conoscerlo da sempre e la seconda ridevano come vecchi amici: era gentile e dolce e allo stesso tempo le dava sicurezza averlo accanto. Innamorarsi di lui era davvero stato troppo facile: le aveva preso il cuore con grazia e la teneva lì, stringendolo di tanto in tanto ma senza farle troppo male. Perché lui non la vedeva – o meglio, l'aveva vista, era entrata nella sua vita, ma era anche andato oltre a cercare altro, qualcosa che lei non era.

Il ragazzo non la sentì perso com'era nei suoi pensieri, che quella finestra e il cielo scuro al di là di essa non facevano che ingrandire ed allargare, alimentare rendendoli sempre più lunghi, portandoli sempre più avanti. Pensava di nuovo a lei, a quella ragazza di cui conosceva solo il viso pallido e i lineamenti gentili; anzi, ad onor del vero, aveva smesso di farlo quand'era tornato a casa con Eponine, ma al momento di chiudere gli occhi e provare a dormire la sua immagine, appena un po' sfocata dal fumo dell'esplosione, gli era tornata vivida alla mente e non era stato più capace di mandarla via.

Nel paesaggio fatto di strade e palazzi, Marius si chiedeva chi fosse e se stesse bene. Gli pareva di tenere a lei come si tiene a una persona cara e la preoccupazione che sentiva era sincera, veniva dal cuore. Gli era bastato vederla ed una cosa tanto piccola ora minacciava di condizionare i suoi sentimenti a tal punto da togliergli il sonno.

Sospirò, sorridendo appena al nulla che aveva davanti e si spostò dalla finestra – facendo sussultare dietro di lui Eponine, che ancora lo osservava. Quando si voltò verso di lei, la vide all'ingresso, un'espressione un po' sorpresa che le colorava viso.

«Ancora scossa per oggi?», le chiese – che ad Eponine piacesse muoversi di notte era una cosa che sapeva, che lei stessa gli aveva detto quando s'erano conosciuti. E in notti tranquille come quelle poteva vedere il perché: il buio aveva coperto le ferite, la rabbia e lo sconcerto – Parigi pareva di nuovo tranquilla e magica.

«Io? No, non troppo», sorrise la ragazza, prendendo quelle parole come un invito ad entrare.

Marius si sedette sul divano a pochi passi da lui e lei fece altrettanto – lo scialle la copriva abbastanza da non sentirsi a disagio nonostante la sottile camicia da notte che indossava.

«Credo sia solo l'inizio, sai?», parlò il ragazzo – pensava ad alta voce, ma ad Eponine anche quello non era mai dispiaciuto.

«Ci saranno nuovi scontri?».

Marius annuì serio – era davvero troppo giovane per aver visto la guerra o il disastro che ne era conseguito, ma anche uno sciocco avrebbe percepito il clima di pungente attesa che si respirava in quei giorni, come fossero sospesi, aperti a ogni possibilità e per questo indefiniti – la Storia, qualunque cosa fosse poi successa, non li avrebbe ricordati perché vuoti di eventi, ma per chi li viveva essi restavano pregni d’idee e presentimenti.

«Domattina vorrei tornare alla panetteria dove c'è stata l'esplosione. Vorrei vedere se si può fare qualcosa, aiutare qualcuno...», sussurrò Eponine.

A quelle parole Marius si destò di colpo. Sì, era la cosa migliore che potessero fare, forse anche per dimostrare che non erano diversi dal resto della gente, che erano anche loro parigini e francese, che qualunque colpo alla città e al popolo era un colpo a tutti. E poi pensò di nuovo a lei. La ragazza senza nome e dai lineamenti dolci ci sarebbe stata? Magari sarebbe tornata con la stessa intenzione oppure, una volta sparsa la voce sarebbe accorsa comunque per dare una mano... l'avrebbe rivista magari, e poi…?

«Sarà meglio andare a dormire allora – non è stata una giornata tranquilla e un po' di riposo non potrà che farci bene», suggerì alzandosi – si sentiva improvvisamente smanioso e stare fermo era qualcosa che non poteva concedersi.

Eponine comprese che volesse rimanere solo e vide nei suoi occhi una luce diversa: era lontano col pensiero, lontano da quella stanza e più lontano da lei di quanto non fosse mai stato. Si chiese che cosa fosse cambiato in una sola giornata, che cosa lo avesse portato tanto più avanti da lei – mentre usciva e Marius la salutava con un affettuoso bacio sulla fronte, la ragazza ebbe una sensazione di freddo che non aveva nulla a che fare con i suoi piedi nudi. Tornò nel suo appartamento stringendosi nello scialle come se potesse proteggerla dalla vita.

 

La prima sensazione che Enjolras provò nel riprendere i sensi fu la gola terribilmente secca. Provò a deglutire e umettarsi le labbra ma non fece che peggiorare la cosa; aveva gli occhi chiusi e la sensazione che sarebbe stato male se li avesse provati ad aprire. Era stupido, ma si sentiva tremendamente insicuro. E non era da lui.

Cercò di fare mente locale, di capire dove fosse e che cosa gli fosse successo. Era ferito! Ricordò che la spalla gli faceva malissimo, mentre in quel momento... non la sentiva nemmeno. Sudò freddo, l'improvvisa brutta sensazione che gli fosse successo qualcosa lo paralizzò – ancora senza aprire gli occhi provò a muovere il braccio che sapeva essere sano verso l’alto e il sollievo lo pervase quando toccò qualcosa. Il suo braccio era ancora lì, solo insensibile.

«Credo che non lo sentirai ancora per un po’», gli disse una voce, che riconobbe essere quella di Bahorel «Joly ha voluto tenerlo anestetizzato per controllare quanto dolore sentissi».

Enjolras sospirò, di nuovo rilassato, e provò ad aprire gli occhi. Era nella sua stanza – pur avendo i ricordi completamente in subbuglio, in qualche modo doveva essere riuscito a tornare al Musain e la voce di Bahorel non era mai stata tanto bella da sentire. La testa gli girò appena mentre gli occhi si abituavano alla luce elettrica: ora capiva bene il fastidio che Combeferre di solito lamentava – la luce del sole, per quanto probabilmente più forte, non lo avrebbe disturbato tanto e la debolezza che si sentiva addosso di certo non lo aiutava: si sentiva stordito e restare sveglio gli pareva una grossa impresa. Ma sapeva che non era quello il momento giusto per addormentarsi di nuovo: voleva sapere che cosa fosse successo alla manifestazione, se erano tutti sani e salvi-

«Combeferre!», esclamò con un'improvvisa urgenza, scattando in avanti e perdendo l'equilibrio per via dell'arto ancora addormentato e, si accorse, allacciato al petto con una fascia bianca. Aveva ricordato in un lampo la sconosciuta, i campi di forza che li avevano colpiti, lo scontro: ‘Ferre aveva fatto in modo che potesse scappare, guadagnando tempo… Non era certo che la nausea che sentiva allo stomaco fosse dovuta al braccio, che aveva preso a farsi sentire per il movimento improvviso.

Intanto Bahorel, accanto a lui, s’era mosso in modo tempestivo, prendendolo perché non si facesse troppo male, sbilanciandosi.

«Non agitarti, è tutto a posto. ‘Ferre sta riposando: Joly poco prima dell’alba è riuscito a convincere sia lui sia Courfeyrac a riposare, non senza un certo aiuto da parte di Jehan».

Enjolras sospirò lentamente, lasciando che l’improvvisa ansia che lo aveva assalito gli scivolasse addosso come un lenzuolo sottile e gli permettesse di pensare nuovamente in modo lucido.

«Cos’è successo?», tornò a chiedere in modo serio – Bahorel non lo lasciò andare, ma si sistemò meglio sul letto. Al ragazzo parve che tremasse appena, ma doveva sbagliarsi, forse era lui che tremava, ancora poco stabile nel suo stesso corpo.

«Ci sono stati quattro morti – un soldato fra questi – e decine di ferite. Ci hanno sparato addosso e poi ci hanno cacciato come si fa con i cervi nei boschi, o le volpi…». Enjolras s’irrigidì appena sotto le mani salde di Bahorel e quest’ultimo si rese conto che forse aveva esagerato. Cercò di calmarsi «Joly è uscito: voleva controllare se ci fosse bisogno di aiuto in ospedale, rendersi utile in qualche modo, mentre Gavroche e les irrégulers hanno cominciato il loro solito giro», sorrise – quei ragazzini erano piombati di prima mattina al Musain come se nulla fosse successo, offrendosi di andare in giro a controllare la situazione in tutta la città. Alla fine, il monello biondo era sgattaiolato via, ghiacciando appena la strada che aveva davanti con un gesto della mano per poi scivolarci sopra con esperienza.

«Le cose ora precipiteranno velocemente», sussurrò Enjolras, ancora serio in volto «Dobbiamo essere pronti e coinvolgere quanti più possiamo – la guerra civile è qualcosa di pericolosamente vicino e se vogliamo stroncarla sul nascere o avere comunque la meglio dovremo essere in maggioranza, senza lasciare che i soldati ci blocchino, ci isolino».

Bahorel aveva annuito con un sospiro – se n’era accorto Enjolras del suo tremore, lo sapeva bene, ma nonostante la notte, lo shock e la rabbia non si erano placati e quella finiva per essere la sua reazione quando non era impegnato a prendere a pugni qualcosa. La nebbia con cui aveva coperto Parigi il giorno prima era qualcosa che gli apparteneva e toccarla era come toccare la sua pelle – per questo avvertiva tutto quello che succedeva in essa: aveva sentito i corpi delle tre vittime diventare lentamente freddi ed aveva sentito i feriti accasciarsi o muoversi più freneticamente, gli spari attraversarla veloci e i colpi farsi strada con pericolo. La battaglia era avvenuta sulla sua pelle e a pensarci non importava quanto fosse forte, il tremore era qualcosa che non poteva evitare.

Enjolras era stato irremovibile. Con l’aiuto dell’amico s’era voluto mettere in piedi nonostante la testa gli girasse ancora e il braccio lentamente avesse preso a fargli male. Quando uscì nel corridoio, verso lo spazio in cui avevano messo un tavolo e qualche sedia, Courfeyrac fu il primo a vederlo. Jehan, poco lontano da lui fu invaso da un sollievo e una gioia così grandi che rischiarono di commuoverlo. Il ragazzo s’era alzato e con un paio di veloci falcate gli era andato incontro, per poi stringerlo in un abbraccio – pericolosamente dimentico della sua ferita. Non che Enjolras avesse intenzione di lamentarsi in qualche modo; no, quell’abbraccio gli andava bene – stranamente bene – perché quand’era rimasto solo il pensiero dei suoi amici, di quello che era potuto succedere loro, lo aveva tormentato come nessuna ferita avrebbe mai potuto fare.

«Sei sveglio…».

Il sussurro non era stato di Courfeyrac, che stringendolo s’era rassicurato del fatto che stesse bene, lì con loro. Era stato Combeferre a parlare, fermo a pochi passi alle loro spalle, il corpo rigido e lo sguardo fisso, senza battere ciglio, con la puerile paura che lo scenario sarebbe potuto cambiare in quella frazione di secondo. Enjolras, tra le braccia dell’amico era sussultato – Courfeyrac stava bene quando l’aveva lasciato, era stato preoccupato per lui come per tutti gli altri. Ma aveva lasciato ‘Ferre nel bel mezzo di uno scontro, senza sapere come fosse finito, se fosse riuscito a tornare.

Si voltò verso di lui e il graffio che aveva sul viso fu la prima cosa a colpirlo.

«Ci hai fatto prendere un colpo. Ma dico, hai intenzione di morire prima che risolviamo questa situazione?», stava intanto dicendo quello, la paura passata che tornava a pungere all’altezza dello stomaco.

Enjorlas sorrise appena, perché capiva che cosa stava succedendo e sentì ridere anche Courf accanto a lui.

«Tu invece sembri aver litigato con un gatto», sminuì – erano pronti a morire, non era mai stato in dubbio. Ma in quel preciso istante si stavano tutti rendendo conto che essere feriti era peggio, che vedere i primi amici doloranti e sofferenti era qualcosa di peggiore della morte stessa – erano pronti, ma non potevano smettere di avere paura gli uni per gli altri.

«Quel gatto aveva dei coltelli davvero affilati», stette al gioco Combeferre, avvicinandosi, ora più calmo, ed abbracciandolo anche lui. «Vorrei davvero capire, però, perché usarli contro di noi». C’era risentimento nelle sue parole e del dispiacere. ‘Ferre avrebbe voluto davvero sapere che cosa aveva spinto quella mutante ad attaccarli, a scegliere – se proprio doveva – la parte avversa alla loro.

In un angolo della stanza, su una sedia in bilico tra il muro e il tavolo, Grantaire osservava la scena con sguardo perso. Davanti a lui stava un bicchiere vuoto per metà di vino rosso, ma in realtà era abbastanza sobrio da comprendere quello che gli succedeva intorno. Jehan lo scrutava ancora con interesse e una sottile preoccupazione, come se sapesse che doveva accadere qualcosa da un momento all’altro. Lui invece non aveva altra intenzione, in quel momento, che farsi trasportare dalla situazione e prendere le cose così come venivano. Si sentiva stanco come non accadeva da tanto tempo e anche la paura e la preoccupazione che inizialmente aveva sentito ora erano scemate.

Si riscosse appena quando lo sguardo di Enjolras si posò su di lui e scorse nei suoi occhi chiari una certa, improvvisa consapevolezza.

«Tu! Tu sei quello dell’osteria!», disse il ragazzo, sorpreso e in qualche modo sospettoso.

«Dovresti smetterla di svenire ogni volta che mi vedi», rispose lui con un mezzo sorriso, mettendosi dritto sulla sedia «La gente potrebbe fraintendere».

«Come sei arrivato qui?», continuò Enjolras, come se non avesse affatto sentito la provocazione di Grantaire.

Quello alzò le spalle con fare disinteressato, che però non inganno Jehan, ormai fisso sulle sue emozioni – stava provando di nuovo lo stesso miscuglio di sensazioni di quando lo aveva conosciuto e se possibile in maniera ancora più forte.

«Mi hai detto dove andare, dove avrei trovato loro», rispose indicando il resto dei ragazzi «E che dovevo muovermi. Hai biascicato dei nomi e poi sei svenuto – stava diventando un’abitudine, con quel braccio messo tanto male».

Enjolras sembrava innervosito: sapeva che quel ragazzo lo aveva aiutato, che gli aveva disinfettato e medicato il braccio come meglio poteva e che a quanto pareva lo aveva portato in salvo, ma qualcosa in lui lo metteva in allarme – poteva star delirando per il dolore e il sangue perso, ma non era da lui parlare del Musain a un perfetto sconosciuto e, soprattutto, non ricordava di averlo fatto.

«Per la miseria, possibile che quando dico di stare a letto nessuno mi sente?».

L’improvvisa voce di Joly che apparve mentre scendeva gli ultimi gradini della rozza scala che portava al seminterrato interruppe quello scambio di battute, distogliendo l’attenzione di tutti dal nuovo arrivato. Grantaire finse ancora indifferenza, ma dentro era sempre più insicuro e combattuto.

«Dovresti aver imparato a conoscerci», lo assecondò Bahorel, che intanto s’era seduto su una brandina «Non sappiamo stare fermi».

Joly sospirò, versandosi dell’acqua da bere, mentre dietro di lui Bossuet, appena comparso, non sembrava avere una bella cera. Jehan fu attirato da lui e lasciò momentaneamente andare Grantaire – che ne fu silenziosamente grato.

«Che cosa è successo?», chiese Enjolras facendosi avanti.

Joly tremò, guardando l’altro con la coda dell’occhio. Jehan percepì un’improvvisa onda di dolore da entrambi, se ne sentì quasi sopraffatto e non poté impedirsi di rifletterne almeno una parte, sicché tutti i ragazzi capirono che la cosa era più grave di quello che sembrava.

«Bossuet?», lo chiamò con voce cauta Courfeyrac, mentre questo si sedeva, guardandosi le mani come sotto shock. Joly gli si spostò accanto: odiava quella situazione, non era la prima volta eppure non aveva ancora imparato come comportarsi, che cosa dire – tutto sembrava essere stupido o ipocrita. La verità era che non aveva idea di come si sentisse l’altro, non sapeva che cosa volesse dire avere il suo potere. Non sapeva come aiutarlo – per quanto fingesse bene di aver imparato come muoversi intorno a lui, la verità era tutt’altra.

«C’era un uomo in ospedale». L’inflessione della voce era praticamente nulla, sembrava che il ragazzo stesse parlando nel sonno «Era ridotto male, aveva bruciature ovunque e fratture… stava morendo: i medici non gli avevano dato più di qualche giorno di vita. Ma soffriva. La morfina che gli avevano dato era troppo poca perché serviva ad altri pazienti, pazienti che potevano ancora salvarsi…». Prese fiato – ora pareva che le emozioni fossero nuovamente tornate, la voce aveva ceduto sulle ultime parole e stentava a riprendersi «…ci ha riconosciuto subito. Sapeva che eravamo mutanti. E ci ha pregato di aiutarlo».

Joly accanto a lui aveva serrato gli occhi. Gli succedeva sempre. Era un ottimo medico, pronto e freddo all’occorrenza, compassionevole invece quando poteva essere d’aiuto. Ma questo non cambiava le cose, non cambiava il fatto che era invulnerabile – niente poteva ferirlo per poco più di qualche secondo e cominciava a chiedersi se sarebbe mai potuto morire. Vedere gli altri ferirsi, morire anche, era qualcosa che non riusciva a sopportare. Si chiedeva perché non potessero guarire anche loro, perché fosse l’unico ad avere un simile privilegio. Cercava di non darlo a vedere, ma alle volte era davvero difficile. E questa era stata una di quelle volte.

«Non c’era nulla che potessimo fare», aveva preso parola, con le spalle al muro, la testa reclinata e lo sguardo verso il soffitto. «Era troppo debole, aveva troppe ferite. Ci ha chiesto di farlo morire».

Jehan spalancò gli occhi. Aveva improvvisamente capito dove quel racconto sarebbe andato a finire. Grantaire, più lontano rispetto agli altri, aveva invece chiuso i propri. Si stava dando dello stupido in quel momento; stava pensando che c’era nuovamente cascato, che non avrebbe dovuto esporsi tanto perché sapeva che fine avrebbe fatto. Aveva la netta sensazione che da un momento all’altro avrebbe dato di stomaco.

«Ci ha pregato», continuò Bossuet – non piangeva, anche se la voce era incrinata: non piangeva perché non era quello il tipo di dolore che sentiva. Era completamente svuotato. «Gli ho stretto la mano e l’ho guardato morire. È bastato qualche istante – era così debole…».

Nella stanza era tornato il silenzio. Nessuno sapeva bene che cosa dire, ma i pensieri e le emozioni correvano a briglia sciolta e per Jehan l’aria cominciava a diventare pesante nella stanza. Sentiva un misto di dolore e compassione, senso di colpa e generale tristezza; lo stesso sconforto e la stessa rabbia che aveva provato non appena s’era risvegliato ora stavano riempiendo i petti di tutti. Anche Enjolras vacillava e l’azzurrino della sua sicurezza si sbiadiva – il rosso della convinzione, però, era più brillante che mai, perché il ragazzo riusciva a convertire tutto quel male in nuovi propositi, in nuovi stimoli: doveva fermarli, dovevano fermare quell’orrore.

Fu quando si staccò da quelle sensazioni – senza essere poi tanto sicuro del perché – che l’avvertì. Un’emozione estranea, un misto di timore e determinazione che però non apparteneva a nessuno in quella stanza ed era comunque pericolosamente vicina a loro.

Fu quando sentirono un primo colpo alla porta, violento, che Prouvaire capì effettivamente che cosa fosse. Qualcuno era entrato nel vecchio cinema. Qualcuno stava cercando di abbattere la porta per entrare nel seminterrato.

«Soldati», fu il sussurro allarmato di Combeferre e tutti si pietrificarono sul posto.

«Quanti sono?», volle subito sapere Enjolras, guardando Jehan.

Il ragazzo si concentrò. Cominciò ad escludere quelli nella stanza. Al di fuori dei suoi compagni, c’erano svariate persone intorno al cinema. Cercò di contarle, evitando il panico e la paura che aveva cominciato a solleticare la sua coscienza. Quando finì, si rese conto che la situazione era grave.

«Quattordici. Un’intera pattuglia», disse con voce secca «Sono troppi».

«Ci hanno seguito?», si agitò Joly – doveva essere andata così, forse avevano attirato cattive attenzioni in ospedale, forse qualche soldato li aveva notati e s’era insospettito: erano troppi perché fosse una semplice ricognizione. Stavano entrando con la consapevolezza che avrebbero trovato qualcosa.

Enjolras sospirò lento, mentre Bahorel si metteva dritto e Courfeyrac si allontanava per prendere delle armi – non tutti avevano poteri attivi con cui difendersi e quello sarebbe stato davvero un brutto scontro.

Un nuovo colpo cercò di scardinare la porta chiusa a chiave – quando Joly era entrato, avevano anche dimenticato di sbarrarla. Bossuet si mosse per rimediare, ma il poeta si alzò per fermarlo, scuotendo la testa e facendo segno di stare in silenzio. Sapeva che cosa fare – o almeno sapeva chi avrebbe potuto aiutarlo. Convincere tutti ad andare via era qualcosa che superava le sue forze: imprimere il bisogno impellente di essere da qualche altra parte a quattordici persone, tutte diverse tra loro, era qualcosa di complicato. Ma non era solo.

Si voltò verso Grantaire che era ancora seduto davanti al bicchiere di vino al tavolo, lo sguardo attento e puntato sul poeta. Dio, no, non stava per farlo, non stava per chiedergli di farlo. Eppure che cosa poteva aspettarsi? Per quanto ancora tutto quello sarebbe potuto andare tranquillamente avanti?

«Ti prego aiutaci. Non permettere loro di arrivare a uno scontro», gli chiese Jehan – e non avrebbe saputo dire se in quel momento si stesse riferendo solo ai soldati o anche al resto dei ragazzi. «So che puoi farlo. So cosa puoi fare. Se non agisci ora, allora a che cosa sarà servito tutto questo? A cosa salvare Enjolras? Io lo so».

Il resto dei ragazzi era sospeso fra i due partecipanti a quella criptica conversazione. Non capivano e trattenevano il fiato in attesa di una svolta che speravano potesse essere risolutiva.

Enjolras stava per muoversi, parlare, dare l’ordine di tenersi pronti a sparare, quando Grantaire si alzò in piedi, la sedia che strideva il pavimento di cemento e un nuovo violento colpo contro la porta pronta a cadere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_______________

Here I am again!

Perdonate il ritardo, l’Ispirazione fa i capricci, il resto è opera dei miei sbalzi d’umore ^^’’

Anyway, altro capitolo, altro cliffhanger! Grantaire è entrato ufficialmente in gioco, così come Cosette e Valjean – prometto che con i prossimi capitoli le cose si velocizzeranno un po’! Tenere le fila di tutto si sta rivelando difficile, ma spero che il risultato sia comunque soddisfacente.

Un grazie a tutti quelli che stanno dedicando attenzione alla storia, soprattutto a chi mi ha fatto sapere che ne pensa ♥

A presto~

 

Alch.

 

 

 

 

 

 

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > I Miserabili / Vai alla pagina dell'autore: Alchimista