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Autore: Kimmy_90    22/01/2016    1 recensioni
La Regio è salda da millenni, sostenuta da una forte e solida gerarchia meritocratica: in cima, i Philosophi, sotto, la Gens. In mezzo v'è la colla della Regio, i Custodes, a guida delle milizie. Vestiti di nero, hanno il volto scuro e le mani chiarissime. Puliti, alti, statuari.
I bambini li chiamano Ombre.
Le Ombre prendono i bambini.
E mentre la società rimane ferma, inamovibile, la tecnologia avanza – tanto lenta quanto inesorabile, fino al punto di non ritorno.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.
Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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3. Helios1




L’anfiteatro era buio, immenso e silenzioso. 

Li avevano portati lì quella mattina, e per un tempo inenarrabile Miran aveva atteso, seduto, guardando file e file di suoi coetanei entrare dalle cinque immense porte. Un fiume di bambini, un numero che non pensava nemmeno di poter immaginare. E sì che lui sapeva contare, e già da un po’.

Poi le luci si erano spente, affievolendosi sempre più. Il silenzio era sceso, insieme alla penombra. Entro breve, gli occhi erano tutti stati catturati dalla luce che irradiava, in fondo, un grande tavolo nero. Non lo aveva notato, finché non era rimasto l’unico oggetto illuminato in tutta la stanza. Non c’era nessuno, ancora.

Sarebbe arrivato.


Da quel giorno le cose iniziavano a prendere un nome, in via definitiva: così avevano detto i tre Custodes che all’alba li avevano condotti, lui e un altro centinaio, alla Sphaera.

Era enorme, la Sphaera.

Com’era stato possibile non notarla, sino ad allora? Pareva una gigantesca palla di metallo e vetro, come una luna caduta dal cielo e impantanatasi per metà nella terra. Quando l’aveva vista, lì, comparire mastodontica dopo la lunga camminata che avevano fatto attraverso il bosco, non aveva realizzato quanto fosse grande. Non aveva dimensione, non aveva scala: più si avvicinavano, più si ingrandiva. Miran aveva creduto, a un certo punto, che non l’avrebbero mai raggiunta – facendosi solo fagocitare dalla sua ombra. Inizialmente, era convinto che fosse piena: monolitica, una roccia levigata e lucente. Anzi, una montagna levigata e lucente.

Poi li avevano fatti entrare, e si era dovuto ricredere: dentro c’era spazio per gli abitanti di decine di villaggi.

Era una struttura molto diversa dalle casupole squadrate dove era cresciuto e dove era stato sino ad allora, tutta curva, tutta liscia, quasi senz’angoli. A momenti gli pareva storta, nella sua perfetta geometria. 

Chissà se c’erano degli ambulatori, lì dentro. Chissà se c’era uno stanzino per il gatto.

Ma non ebbe né tempo né modo di esplorare, perché sempre in fila li portarono nell’anfiteatro.

La loro aula, disse un Custos. 

L’aula del primo anno di studi del Ludus.

Quelli, seduti come lui, erano i suoi compagni: mille bambini selezionati da tutta la Regio. Mille.

Non uno di più, non uno di meno.

Aveva aggiunto, poi, il Custos: “Ben presto sarete molti di meno”. Ma come sempre accadeva, non compresero quel dettaglio.


Un’ombra invase la macchia di luce che sola illuminava l’enorme stanza: ci misero un po’ per poter mettere a fuoco e distinguere bordi e colori della figura. Era un uomo, anziano.

Molto anziano.

I capelli bianchissimi abbagliavano sopra la veste scarlatta, fatta da un continuo alternarsi di stoffe rosse e nere. Una corta e curata barba perlacea gli ricopriva il volto, senza però bastare a nascondere le pieghe della pelle del viso. Compiva movimenti lenti e misurati, mai inutili. 

Inizialmente non disse nulla, immerso nella luce, limitandosi a guardare verso la platea. Verso di loro.

Loro. Troppo piccoli per capire che, da quella posizione, non li poteva vedere. 

Quasi trattennero il respiro, sentendosi ispezionati: quello, con savia sicurezza, pareva capace di guardar contemporaneamente negli occhi tutti loro.

Miran era catturato da quello sguardo, ma non riusciva a ignorare i suoi compagni: dopo qualche istante perse il presunto contatto visivo con l’uomo, iniziando a guardarsi attorno, incuriosito dalle reazioni altrui.

Isia, in cima alla platea, non poté non notarlo.

Iniziò a tenerlo d’occhio, non essendo poi l’unico in procinto di crear problemi. Tra le ultime file, ad esempio, una bambina sembrava molto più interessata ai lunghi capelli del vicino che a qualsiasi altra cosa stesse succedendo nell’aula: da un po’ aveva iniziato a tirarglieli, con ritmici strattoni, mentre l’altro manteneva le braccia conserte nel tentativo di rimanere concentrato e impassibile. Sarebbe finita a manate.

Dall’altro lato della sala, poi, c’era un altro bambino, ben più esagitato di Miran, che da parecchio tempo aveva preso a dondolarsi, quasi saltellando, sul sedile pieghevole. Ma quello non era affar d’Isia: quel lato dell’anfiteatro non gli competeva, e anche alla punizione ci avrebbe pensato qualcun altro.

Certo i bambini del primo anno non erano mai stati campioni di compostezza e sobrietà: ci sarebbe voluto ancora qualche mese per dar loro una regolata. Lì, in quell’aula, in quell’occasione, se ne vedevano di ogni sorta: c’era chi aveva già imparato che alzare le mani non era poi una faccenda così grave, e quindi cercava di imporsi fra gli altri senza disdegnar la violenza, e chi invece ancora non aveva capito che il silenzio era assai più importante del pacifismo. Alcuni si distraevano ancora troppo: era quello il caso di Miran, che sembrava del tutto disinteressato alla solenne figura che stava per prender parola, dopo il suo lungo rimestar silenzio. Isia continuava a sorvegliare i piccoli, prendendo mentalmente nota dei loro comportamenti e ben conscio del fatto che non sarebbe dovuto intervenire se non in caso di un sostanzioso disturbo. L’importante era che non alzassero la voce: al resto ci avrebbe pensato dopo.

Intercettò lo sguardo di due di loro, intenti evidentemente a guardare la parte sbagliata della sala: bastò la sua occhiataccia per farli raddrizzare nella sedia e per riportare la loro attenzione in basso, verso la luce, il tavolo, e, soprattutto, l’anziano.

Che non era un anziano qualsiasi.

Quello era l’Helios. Philosophus, capo in carica del Summus Globus. Massima autorità della Regio.

A lui onere e onore di iniziare, ogni anno, i nuovi allievi al mondo del Ludus.

“Voi siete liberi.”

Il punto, alla fine, era sempre quello.

“Liberi di andare, di fermarvi, di lasciar perdere. Siete liberi di servire la Regio nel modo che più vi è consono – e, se non è questo, allora andate. Non c’è scempio nell’arare i campi. Non c’è vergogna nel servire i Custodes. Il vostro unico dovere è di dare alla Regio vostra madre tutto ciò che siete in grado di darle. Se non siete in grado, darete altro.”

Nessuno di loro, fra mille, nessuno, avrebbe mai pensato di essere lui quello che si arrende, di essere lei quella che non ce la fa. No: il vecchio, inondato di luce, nei suoi drappi rossi e con il suo sguardo penetrante, stava parlando di qualcun altro. 

Del vicino. 

Di quella due posti più in là. 

Del bambino irritante che correva in continuazione su e giù per la palestra, o di quella bimba piccola e timida che sembrava pronta a piangere in ogni istante della sua esistenza – il capo perennemente basso, il passo inevitabilmente insicuro.

Non era di loro che stava parlando.

L’Helios disegnava un concetto che riguardava gli altri. 

“Voi siete l’elite.”

Alcuni annuivano.

“Voi siete quanto di meglio ci sia sulle terre della Regio.”

Miran continuava a guardarsi attorno, senza mai fissare direttamente il vecchio. A un certo punto si ritrovò a scrutare la bambina che tirava i capelli al vicino.

“E quindi a voi viene chiesto di fare molto, molto di pi degli altri.”

Isia ne aveva già cinque da punire. Miran era pronto a diventare il sesto.

“Perché voi potete. E chi può, deve.”

Allora il bambino con i capelli lunghi si stufò: storse le labbra e tirò all’altra una gomitata. Quella emise un gemito non indifferente.

L’Helios tacque.

Poi continuò: “E se non può, allora che vada.”

Isia additò la bambina, facendo cenno ad altri due Custodes più vicini a lei di andare ad ammonirla. 

Faber est –” scandì l’Helios.

I due si avvicinarono alla piccola.

“– Suae.” Continuò l’anziano, concedendosi lunghe pause nel lento pronunciare della frase. 

Quisqae.” Sottolineò. 

Per poi terminare, tonante: “Fortunae.”

Anche chi non sembrava capace di fare silenzio assoluto, in quegli istanti, si ammutolì. Non sapevano cosa volesse dire quella frase, quale fosse il significato di quelle parole, ma bastava il tono con cui erano state pronunciate dall’Helios per caricarle di significato.

Quando vide i due Custodes allontanarsi dalla compagna, Miran poté vedere una radicale differenza nel suo comportamento: immobile, ora quella sedeva con le mani in grembo, lo sguardo basso, la spalla lontana da quella del vicino che aveva molestato fino a un attimo prima. Forse piangeva.

“Ora.”

Continuando a guardarsi attorno, insaziabile, Miran intercettò lo sguardo di Isia, che sostava come appollaiato in cima all’anfiteatro: lo stava fissando. Lui lo fissò a sua volta.

Con un secco cenno del capo il Custos indicò a Miran l’Helios: il bambino si rigirò, di scatto, verso la luce. Forse sarebbe riuscito a restare fermo qualche minuto.

Forse anche di più. Aveva capito.

“In piedi.”

Mille bambini si alzarono all’unisono, lasciando che il proprio sedile si richiudesse con violenza dietro di loro. L’Helios si portò la mano destra, chiusa a pugno, al petto – battendo contro la cassa toracica. Rimase lì, in attesa che i bambini lo emulassero: seppur lontani, sentì il rumore del loro battere. Alcuni suoni erano più intensi, altri lievi. Qualcuno aveva battuto con talmente tanta forza che si era ritrovato a tossire.

Patriae Fratres.2

Patriae Fratres.”

L’Helios aprì il palmo, e batté di nuovo.

Ancora colpi di tosse.

Fati Fratres.3

Fati Fratres.

“Seduti.”

Sederono.

“Da oggi –”

Miran non si sedette: piuttosto si appallottolò, le ginocchia strette al petto e le braccia che gli avvolgevano i fianchi. Isia, arresosi all’evidenza, iniziò a muoversi verso di lui.

“– dovete dimenticare definitivamente la vostra Gens.”

Miran stringeva, stringeva e stringeva.

“Le vostre Gens.”

Respirava a fatica.

Isia sorpassò gli altri bambini, diretto verso il biondino che, oramai, aveva iniziato a gemere.

“Voi siete figli della Regio. Coloro che siedono accanto a voi i vostri fratelli, coloro che siedono ai piani superiori, più anziani di voi, anche. Quando diventerete Custodes, gli altri Custodes saranno la vostra famiglia, e la salute della Regio la vostra unica preoccupazione.”

Miran vide Isia avvicinarsi: cercò di rimettersi composto, ma la cosa gli sembrava impossibile. Faceva troppo male. Era stato a lungo convinto di potercela fare, ma alla fine aveva ceduto.

“Mi fa male la pancia.” Sussurrò al Custos.

“Sht.” Fu l’unica risposta di Isia.

“Ma mi fa male!” – quasi strillò.

A quel punto, Isia non poteva fare altrimenti. La parte più rilevante del discorso dell’Helios, fortunatamente, era andata – poteva già prelevarlo. Con una mano gli prese l’orecchio, iniziando a strattonarlo via con sé; con l’altra estrasse da una tasca della divisa una sorta di spillo, composto da un ago sottile e una testa grigiastra: glielo conficc nel braccio, oltrepassando i vestiti.

“Ahi!”

Fai silenzio – ” grugn l’uomo, a denti stretti. Miran conosceva l’affare che Isia gli aveva appuntato – lo aveva già avuto addosso altre volte: la pallina alla sua estremità cambiava colore non appena veniva a contatto col sangue, e, se era verde, significava che stava bene. Così gli avevano spiegato.

Ovviamente divenne verde.

Miran non ci vide più – aveva già resistito un’eternità a quel mal di pancia, aveva ampiamente superato il suo limite di sopportazione. Era iniziato come un’eco, sorda, lontana – un misero fastidio. E poi era cresciuto. E cresciuto. E cresciuto. Era riuscito a ignorarlo finché non si era alzato in piedi e, una volta eseguita la formula del saluto, era esploso.

Che lo spillo gli desse del bugiardo, non gli andava giù. Ferito nel profondo dell’animo, insistette:

“Giuro che mi fa male!”

L’Helios taceva, mentre il resto dell’aula osservava la scena.

“Non dico bugie!”

“So io come farti passare il mal di pancia, Agricola. Impara a tacere!”

E così, sotto gli occhi dei compagni, Miran si fece portare via quasi a forza dal Custos.


Isia aveva ragione: sapeva benissimo come far passare un mal di pancia. Bastava concentrare tutta l’attenzione sul feroce dolore alla schiena.



***




“Shi’ran.”

Sentì le sopracciglia contrarsi da sole: conosceva quella voce, intenta a chiamarla da dietro la porta. La riconosceva soprattutto perché non sembrava proprio capace di non tenere così a lungo la i del suo nome, come se invece di chiamarsi Shi’ran si chiamasse Shïran.

Che fastidio.

“Tre minuti –” urlò in risposta all’altro, gli occhi fissi sullo schermo davanti ai suoi occhi. Scorreva rapida lungo la sequela di numeri e lettere che le stava davanti, da pochi altri interpretabile, mentre una lunga coda di pensieri pendenti andava via via smaltendosi. 

“Scusa, ma…” ritentò quello.

Tre minuti, aveva detto. Tre. Minuti. 

Anzi.

“Due minuti e mezzo.”

Silenzio.

Saan4 aveva capito. Di solito, alla seconda volta capiva.

“Shi’ran, è importante.”

No.

Due minuti.” Ringhiò.

Saan era uno dei più mansueti e pavidi Medicus con cui aveva mai lavorato – la sua stima nei suoi confronti, già bassa a causa di quel che per lei era uno scarso talento, rasentava il ridicolo –, e proprio per questo motivo, già allo scadere del primo minuto, Shi’ran rinunciò a quel che stava facendo e si alzò dalla sedia, avviandosi verso la porta.

Se Saan aveva il coraggio di insistere oltre, sostenendo addirittura che la questione fosse importante, era altamente probabile che lo fosse davvero.

Anzi, che fosse molto importante.

Senza troppo stupore, quindi, una volta aperta la porta Shi’ran si ritrovò davanti la figura dell’Helios.

“Buon giorno.” 

“Buon giorno, Signore.”

La donna si scostò dall’uscio, lasciando spazio al vecchio per entrare. Saan, immobile, attendeva. Il primo impulso di Shi’ran fu di richiudere rapidamente la porta, ma evitò il gesto: l’Helios doveva congedarlo, prima.

“Entra, Saan.”

Congedarlo, non farlo entrare.

Saan, cercando di non esser troppo titubante, obbedì – mentre Shi’ran gli scoccava una violenta occhiata astiosa.

“Come stai, Shi’ran?” le chiese l’Helios, muovendosi verso una sedia abbandonata in mezzo alla stanza.

Al solito, l’ambulatorio era nel caos. Non che fosse un dettaglio rilevante, ma questo significava che non era esattamente nelle condizioni di accogliere due persone a colloquio, una delle quali, poi, di tal calibro.

“Bene, Signore.” rispose lei, tranquilla, mentre continuava a guardare Saan e i suoi movimenti all’interno della stanza. Quello, certamente a disagio ma non tanto fesso da darlo troppo a vedere, andava cercando un angolo dove piazzarsi. Alla fine decise di restare in piedi, osservando gli altri due, attento. 

Né lui né Shi’ran avevano idea del motivo per cui si trovasse in quella stanza, anziché all’esterno.

La donna scostò finalmente lo sguardo verso l’Helios, tuffando le mani nelle tasche del camice bianco. Così, in piedi, attese.

Il vecchio sapeva ben pesare il tempo, e, come poco prima aveva fatto coi bambini del primo anno, lasciò che il silenzio aprisse gli spazi in cui inserire le parole del discorrere.

“Ho una domanda, Shi’ran.” Esordì infine.

Lei sapeva stare al gioco. Non rispose immediatamente, concedendosi un intero respiro prima di dire, solo, “Sì.”

E sebbene il gioco lo conoscesse, a condurre era sempre lui. 

L’Helios tacque, e tacque, tanto assorto quanto presente, gli occhi fissi sul muro bianco.

“Cosa intendi fare, se non dovesse funzionare?” Chiese allora, portando lo sguardo su di lei.

La donna a forza s’impedì di ribattere al volo: milleuno, milledue, milletre. Milllequattro. Mille e cinque.

“Questa possibilità è remota, Signore. Molto remota.” Si fermò, raccogliendo a sua volta tempo e silenzio. “Ad ogni modo –” riprese “– se ci fossero problemi, abbiamo una serie di protocolli da attuare, a seconda del caso. Dalla sterilizzazione, alla detenzione, all’esecuzione. Abbiamo anche vagliato la possibilità di utilizzare il Laniatus, se necessario.”

Ma funzionerà, si ripeteva. Certo non poteva dirlo così, all’Helios. Battere i piedi strizzando gli occhi, nel disperato tentativo di ignorare la realtà dei fatti, non era un comportamento consono. Questo non le impediva, forte della statistica e della ragionevolezza, di dire a se stessa che avrebbe funzionato. Tutto.

Senza ombra di dubbio alcuna – salvo un ignobile delta.

“Quanti sono?” chiese quello.

“Sette, Signore.”

Lui soppesò quel dato, ch’era in realtà impossibile non conoscesse già da tempo. No, voleva solo sentirlo pronunciare dalle sue labbra, per armonizzare il discorso. Per dar la parvenza che quello fosse un dialogo, anziché il monologo ch’era destinato a diventare.

“La mia domanda è, Shi’ran: sette termineranno il Ludus?”

Domanda legittima. Molto legittima.

Una domanda a cui non si poteva dar precisa risposta.

“Uno si può controllare, ma sette – sette sono tanti, Shi’ran.” Ecco, ora l’Helios aveva iniziato a parlare, a riempire li vuoto che aveva creato prima. Niente più silenzi, pause, lunghi respiri: quando s’entrava nel vivo della questione, l’Helios non lasciava spazio per pensar troppo, e, di colpo, diventava pressante. Lasciando giusto un punto per riprender fiato in fondo alla frase, riprese: “Il Summus Globus ha dato il via libera, e non intendo contraddirlo in alcun modo; ma voglio esser sicuro di quel che accadrà qui nei prossimi, minimo, sei anni. Perché, se oggi sono sette, quando ritornerò m’immagino saranno come minimo quattordici. E io so che sai, Shi’ran. Che vedi e capisci, e so che in molti qui sono in grado di predire il futuro di questi bambini, e so che saggiamente a queste persone tu ti appoggi, e da loro hai imparato, bene, a valutare, a osservare, a interpretare. Ma l’errore è dietro l’angolo, e io ho bisogno di sapere cosa farai, esattamente, al bambino che tra qualche anno, primo, t’ingannerà, entrando fiero, sano e saldo al Ludus, per poi voltar le spalle dopo poco tempo, per ritornare fra la Gens, da dov’è venuto.”

Aveva ragione. Lei fece per rispondere, ma non ne ebbe occasione: quello continuò, imperterrito. “Il Ludus può molto, e la Regio moltissimo, nel controllare questi svasi – questo è indubbio. Da cui, come chi non termina gli studi e rientrato a casa non fa uso scellerato delle tecniche marziali apprese qui, e in fretta le cancella, così è legittimo aspettarsi che anche i tuoi, se abbandoneranno il Ludus, non faranno nulla di sciocco con quel che hai dato loro. Ma quel che hai dato loro, Shi’ran, va oltre alla conoscenza e all’educazione che in queste sedi siamo soliti amministrare. Per questo, e per questo solo, io ho dubbi.”

Lei taceva, non certo perché priva di cose da dire. Aspettava il suo turno. Quieta.

“Senza dubbi non faremmo niente, noi.” continuò l’Helios, le cui parole meditabonde erano pronunciate solo e unicamente per Shi’ran, su cui manteneva fisso lo sguardo. “Senza situazioni che li generino non potremmo progredire. Essere in questa situazione è un segno di salute, per la Regio. Detto questo, i dubbi vanno risolti non appena si presentano – o allora sopraggiunge l’ignoto, che viene governato dal caso, più che da noialtri.”

Si fermò.

Non aggiunse altro, troncando il discorso in un punto apparentemente inadatto. Mancava qualcosa.

Sopraggiunge l’ignoto, che viene governato dal caso, più che da noialtri.

E questo, a noi, non piace.

Ma queste erano parole che non serviva pronunciare. L’Helios non sprecò fiato a rimarcare concetti così ovvi.

Shi’ran poté finalmente iniziare a rispondere.

“Non lascerò uscire dal Ludus esemplari fertili, fintanto che non abbiamo chiaro cosa accade nella fase della riproduzione. Non nego che ritengo questo problema possa rivelarsi un’enorme risorsa, per cui non trovo logico agire a monte. Se qualcuno dovesse abbandonare, verrà sterilizzato. Gli altri, verranno sottoposti a terapie ormonali continue, come tutti. Si tratta di un problema che abbiamo risolto da molto, ormai.”

Sei anni, almeno.

“Se torneranno tra la Gens, inoltre –” continuò la donna “– saranno sottoposti a terapia gene soppressiva. I danni dovrebbero essere contenuti. I costi per la Regio, a fronte della selezione fatta, sono minimi. Il bilancio è positivo, in qualsiasi caso. Nella peggiore delle ipotesi –”

“– avremo verificato che non si può fare, con la minima spesa.” chiuse l’Helios per lei.

Certo, una conclusione più che scontata. Quella che voleva sentirsi dire.

Perché prima di esser pedagoga, prima d’esser psicologa, prima d’essere Medicus, Shi’ran era una Phiolophus. Una dei più puri. Prima di tutto, lei era donna di scienza. I suoi studi potevano aver preso nel tempo una direzione piuttosto che un’altra, per questioni sia contingenti che, senza negarlo, di pura preferenza personale – ma, alla fine, come tutti i Philosophi lei andava in cerca della verità.

E la verità era semplicemente la verità, funzionale o meno che fosse, che desse ragione alle sue ipotesi o meno: quand’anche i progetti fossero falliti – cosa possibile, a volte probabile – si sarebbe potuto in ogni caso mettere un punto fermo ad una linea di ricerca, così da liberare risorse per procedere con un’altra. E lasciare, per il futuro, le indicazioni necessarie a valutare a fondo l’ipotesi di ritentare.

“Vedo che la situazione ti è chiara.” disse il vecchio, alzandosi. “Ho bisogno che tu stia sempre molto attenta a non perdere questa chiarezza. A tutti noi capita.”

Shi’ran fece un vago cenno d’assenso, assorta. No, non assorta: impegnata. Andava interiorizzando quanto aveva appena sentito – non perché fosse la prima volta, ma perché ogni volta, lo sapeva, era importante prestare attenzione. A tutti noi capita.

Una vita all’erta, a difendersi dal mostro della distrazione.

“Il settimo, Shi’ran.” fece poi l’Helios, avvicinandosi a Saan. “Quello su cui il Summus Globus sta mostrando troppo interesse, è il più pericoloso. Per questo voglio che non te ne curi tu, ma lui.”

Shi’ran gelò. Immobile, a fatica non fece fuoriuscire lo sgomento che l’aveva invasa. 

Cosa?

Fu l’unica parola che le rimbalzò in testa per una lunga manciata di secondi.

Cosa?

Inspirò allargando le narici, del tutto intenzionata a contestare le assurdità che aveva appena sentito.

Ma la pausa che aveva fatto, il tempo che s’era lasciata sfuggire nell’accusare il colpo, erano eccessivi: l’Helios l’anticipò.

“C’è troppa attenzione su questo bambino. Ti serve un filtro, Saan sarà tale. In questo modo non ti farai distrarre.”

Milleuno, milledue. Milletre. Mille e quattro.

“A bagnar troppo la pianta, le radici marciscono.” disse la donna.

“Vedo che hai compreso.”

A quel punto, Shi’ran non aveva altro da aggiungere. Per quanto la cosa le suonasse sbagliata sotto ogni aspetto, il ragionamento dell’Helios era corretto.

Aveva ragione. Come sempre.

Lei poteva sentirsi adirata, umiliata, offesa – ma era un problema suo, personale, che avrebbe dovuto risolvere da sola. Nulla a che vedere con la realtà dei fatti.

Ci avrebbe messo un po’, a calmarsi. Questo lo sapeva.

Doveva solo darsi del tempo, e poi avrebbe potuto ricominciare a lavorare con la massima efficienza.

L’indomani.

Decise che avrebbe ricominciato a lavorare l’indomani.

“Saan avrà giudizio nell’interrogarti e nel farti intervenire quando necessario: sei sempre e comunque la maggior esperta in materia. Sappiti tenere alla debita distanza, e non ci saranno problemi. Non c’è altro che io possa fare per te.”

Con queste parole, l’Helios si avvicinò alla porta, aprendola. “Mi congedo.”

“Grazie della vostra presenza, Signore.”

“Saan, riaccompagnami.”

“Sì, Signore.” rispose pronto quello “Arrivederci, Shi’ran.”

Lei sentì le sopracciglia contrarsi da sole, mentre osservava il Medicus lasciare l’ambulatorio.







[1] Pronuncia: Hèlios

[2] Fratelli di Patria

[3] Fratelli di Fato/destino
[4] Pronuncia: Sàan









____________________________________________________________________________________________________________


Nota dell’Autrice - angolo svarioni et al, per diletto e in parte noia.


Prima cosa che mi è venuta in mente: PRONUNCIA dei nomi. Mi sono accorta che è abbastanza importante, alcune frasi, se no, suonano cacofoniche…

Ok, adesso metterò un po’ di note in giro, o forse dopo. Vediamo se riesco a farmi capire, intanto: (no, non so usare l’alfabeto fonetico, e se anche lo sapessi usare non penso che in moti lo saprebbero leggere):


Prima cosa:

Shi’ran: Sci’ràn (l’apostrofo è un brevissimo stacco)

Atro: Àtro (normale piana)

Isia: Isìa (questa penso che sia anche lei piana, ma mi hanno detto che viene da leggerlo ìsia, che non mi piace)

Miran: Miràn (anche se il nome, che sarebbe sloveno, andrebbe pronunciato Mìran - ma a me piace più così)

Alir: Alìr

Lama: Làma (normale piana)

Lamaki: Lamàki (anche qui normale all’italiana, piana)

Kumki: Kùmki

Helios: Hèlios

Saan: Sàan


e poi 


Im’ahki Tsarji Hari Miran sarebbe Im’à-ki Tsarjï Harì Miràn ( dadadàn dadadàn dadadì dadàn , così dovrebbe suonare XD)


Bene, finiti questi svarioni fonetici (unpo’allacazzodicane), chiacchiericcio.


Scusate le aggiorno in fretta. La verità è che sono una scioperata (fino al primo marzo) e quindi mi annoio talmente tanto che per adesso mi sembra sia passata un’eternità tra un capitolo e l’altro, quindi mi vien voglia di aggiornare. Anche perché è un inizio un po’ lento, quindi vorrei arrivare a un dunque, a dare qualcosa di sostanzioso a chi non ha mai letto i FdO e a farne invece vedere la differenze a chi l’ha letta.




Se da qui passa qualcuno che non ha letto la fanfiction – no, non leggetela, anzi, non serve, anzi! un feedback da voi sarebbe una gran bella cosa, io ce la metto tutta ma a volte non so se sono chiara o se sto raccontando storie a chi ne sa già, piuttosto che a un pubblico “nuovo”. 




Saan: tipico esempio di personaggio che nasce come spalla inutile e si ritrova in mezzo a tutta la storia.

Svilupparlo è stato magico. Era lì, e aut certo punto l’Helios l’ha chiamato dentro.

Da solo.

Ha fatto tutto da solo.

Me ne stavo lì a farlo andare via, e gli si è avvicinato – giusto per dare un senso alla sua presenza nella stanza. 

E poi ha sganciato la bomba, il vecchiaccio. Manco io l’ho vista arrivare.

Giuro.

E’ stato tanto inaspettato quanto bello, lo sviluppo che ne è uscito.


Mi succede spesso, di generare personaggi del genere.

Finisce che son quelli che amo di più (il che spiega la mia tendenza ai corali).


No, Miran non l’abbiamo abbandonato, né rimane in disparte; ma come detto, tendo al corale, dato che me lo posso permettere. (credo? oh, beh, ormai ho deciso così, e amen.)

A breve arriveranno un bel po' di altri personaggi, che cerco sempre di introdurre con calma (ma senza i ritmi di, tipo, King, che ti fa mezzo romanzo sulla storia di ognuno di loro).



Poi, altri svarioni.

Cerco di giochicchiare con il registro, per variare il più possibile e dare anche un significato alle parole che uso. Mi sono resa conto di quanto le diverse situazioni richiedano diversi stili (per esempio, il pippone che fa l’Helios a Shi’ran ribatte la struttura dei testi latini che mi trovavo a tradurre a scuola); all’inizio pensavo di poterne usare uno solo e rimanerci attaccata, ma poi mi sono resa conto che non ci riuscivo.

Così, forse, ho pensato che fosse interessante essere elastichi e adattarsi alla situazione, al personaggio, un po’ a quello che viene definito il “POV” (ma che davvero mi sta sulle balle andare a specificare sempre, preferisco sia il testo a parlar da sé – oltre che, forse si è notato, ho la tendenza a cambiar “pov” talmente spesso che se lo specificassi ogni volte ne uscirebbe un copione teatrale in diciassettemila atti).


Non so, io ci provo, senza prendermi troppo sul serio in questi svarioni che non è che mi studi a tavolino, ma nascono dalle parole che mi escono mentre scrivo, e che poi dopo cerco di interpretare per dare un’omogeneità e struttura al tutto.


Paranoie, ecco.


Grazie a tutti quelli che passano di qua. 


Pandi




PS: se ve lo state domandando, “I suoi studi potevano aver preso nel tempo una direzione piuttosto che un’altra” significa “i suoi studi poter aver preso nel tempo una direzione INVECE che un’altra”. [grammar nazismo *ON*]

   
 
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