And maybe
someday we will meet,
(and maybe talk and not just speak)
Secondo capitolo
La seconda volta che accadde, Dean non poté accorgersene.
Shanti era stata una bella sorpresa, quella notte.
Cubana, pelle ambrata, non più venticinque anni. Era la prima ragazza da bar
che non portava su di sé l’odore dell’alcohol e del fumo; le sue labbra lucide emanavano
una vaga essenza di vaniglia, qualcosa simile al miele, come uno quei balsami
labbra che piacevano tanto a Sam da piccolo.
Dean la trovò irresistibile, inutile dirlo.
Mentre raccontava di sé, dei suoi studi in legge e della sua passione per le
belle spiagge, continuava a spostare i suoi riccioli riottosi dietro le
orecchie, sottolineando il gesto con un atteggiamento quasi felino.
Dean non dovette attendere troppo per scoprire come sarebbe stato affondare le
dita tra quei capelli morbidi e tuffarsi nella sua bocca.
Nulla su quella veranda innevata avrebbe potuto anticipare le parole che
sarebbero sopraggiunte negli istanti che seguirono.
Shanti sgranò gli occhi incredula e confusa, quasi come non avesse avuto più
certezze nella vita.
La cosa divertente fu che un paio di isolati più in la’, Sam nel suo letto
faceva la stessa cosa di fronte alla nuova
chiazza di urina che si era allargata sotto di sé, ma questo, Dean, non poteva
saperlo.
Il suo piccolo inferno adesso aveva il volto di una ragazza delusa , i cui
occhi premevano sulla sua figura in
cerca di una risposta che non avrebbe distrutto del tutto la già profondamente
bassa stima che aveva di sé.
“Perché?”
“Perché ho un fratello che m-mi sta aspettando—“
Dio...
Non ebbe parole per definire quanto quella frase avesse portato il tutto ad un
nuovo, inesplorato, livello di imbarazzo.
“E questo ti impedirebbe di passare la notte con me? Non
puoi chiamarlo e dirgli che non torni?”
“No, non posso farlo...”
Shanti rise nervosa, scostò gli occhi dalla figura che aveva davanti, giusto per camuffare l’umiliazione con
qualcosa di differente.
“E cosa te lo vieterebbe, sentiamo?”
Il fatto è che gli faceva domande a cui Dean non poteva rispondere. Fondalmentalmente perché egli stesso non
conosceva la risposta, eh . Non per altro.
Schioccò la lingua nervoso. Cercò di formulare in fretta qualcosa che avesse senso, ma in verità, nulla che attraversò per la sua
mente in quegli istanti ne aveva davvero.
Dirle che suo fratello non stesse attraversando un bel momento non
avrebbe retto; quella sera lo aveva
lasciato da solo in un motel, aveva preso l’auto ed era andato a bere come una
spugna in un locale da quattro soldi. Non è certo il comportamento di un
fratello responsabile.
Non poteva neppure far affidamento alla classica scusa del ‘domani dovremo ripartire presto’ - quando lei aveva notato che stava esagerando
con gli shots e, ridacchiando, gli suggerì di rallentare, Dean aveva risposto
con un briciolo di arroganza di non temere alcuna sbornia, perché l’indomani
non si sarebbe scollato dal letto neanche se fosse scoppiata (nuovamente)
l’apocalisse.
Per cui, tacque. E il suo silenzio fu più che sufficiente.
“Senti, faresti prima a dirmi che non ti piaccio abbastanza, davvero.”
Ancora sorrisi nervosi. Sorrisi disgustati.
Lei scosse la testa e allontanò le braccia alle mani di Dean che sopraggiunsero
nel tentativo disperato di rimediare.
“Nononono! Chantal, tu sei bellissima e...”
“Shanti. Non Chantal.”
Dean inspirò profondamente, chiuse le palpebre.
Mai in vita sua aveva desiderato tanto
la presenza di un leviatano nei paraggi che lo divorasse seduta stante.
“Shanti. Okay.” Ancora un sospiro ad occhi chiusi. Palmi aperti verso
terra. “Tu- tu sei bellissima, dico sul
serio, credimi. Sei favolosa, e vorrei tanto venire a casa tua, ma...non posso.
Non posso perché...”
“Perché il tuo fratellino ti sta aspettando a casa.”
Non vi era insulto che non diresse mentalmente verso di sé, ma non riuscì a
negare le parole scandite dalla ragazza mentre annuiva sarcastica.
“Che dirti, è un uomo fortunato allora! Le mie felicitazioni ad entrambi!”
La ragazza scrollò le spalle, girò i tacchi e il gelo esterno , di colpo, si trasferì
per intero dentro di Dean, dentro il suo petto, per la precisione, dove sentiva
qualcosa, quella cosa, la solita, vecchia
‘cosa’, ruggirgli feroce. E ci provò a metterla a tacere, davvero. Anni ed anni di esperienza lo avevano reso un
vero e proprio campione. Solo che vi erano delle volte in cui farlo risultava
più difficile del solito.
Gli incisivi di Dean spinsero con forza contro il labbro inferiore, lo
afferrarono tutto, quasi volessero staccarlo senza pietà. Ma si fermò, e una
smorfia gli imbruttì il volto quando le
sue papille ritrovarono su di esso tracce di vaniglia, che rese tutto ancora infinitamente
più frustrante.
Beh. Relativamente più frustrante.
Forse sarebbe stato questo l’aggettivo che
avrebbe utilizzato se solo avesse visto con quanta frustrazione le dita della
mano destra di Sam avevano tirato indietro i capelli bagnati, quando questo - dopo aver ponderato a lungo il
momento - trovò infine il coraggio di
sollevare la testa da sotto al rubinetto aperto e fissare il proprio riflesso sullo specchio.
Inforcò i suoi capelli ancora - una, due, tre volte. La stretta era la stessa di chi si preparava a strapparli via, in realtà, a estirparli come fossero erbaccia in un giardino incolto, ma in quel momento non aveva la minima importanza, a stento si accorse di quanta forza eccessiva avesse impiegato nel gesto.
Perché la sua attenzione era focalizzata sull’unica cosa che
sembrava avere senso, qualcosa che ritrovò curiosamente sul volto emaciato che
si rifletteva sulla superficie liscia dello specchio, e che per qualche istante pensò di non
riconoscere. Sam ebbe infatti l’impressione di osservare un volto non suo
quando, su quegli occhi grandi e
infossati, come un testo senza lettere, Sam lesse qualcosa che sembrò rivelargli una nuova, terrificante consapevolezza.
Raggelato, non riuscì a far altro che sgranare ulteriormente gli occhi e
serrare le labbra.
A giudicare della fame di ossigeno che aggredì i suoi polmoni e ne scosse
l’intero corpo, doveva esser stato qualcosa di molto più palpabile di quel
Lucifero che pochi minuti prima aveva inciso il proprio nome sulla sua fronte
con un taglierino.
Qualcosa da cui non ci si sarebbe risvegliati
al prezzo di un grido strozzato nel cuore della notte, né sarebbe
bastata una mano angelica sulla fronte a riportare tutto al suo posto.
Schiuse la bocca, chinò il viso.
Stava spingendo talmente forte i polpastrelli contro il bordo lucido del
lavandino che veniva da chiedersi chi dei due si sarebbe spaccato per primo.
Poi però allentarono la presa, lo fecero quando le prime lacrime cominciarono a scendere dal volto, e si
andarono ad unire alle gocce d’acqua che gocciolavano giù dai capelli; plick,
plick, plick– tutte dritte. Scendevano dai suoi occhi e cadevano giù, senza
neanche sfiorare le guance, quasi come provassero anche loro un senso di
ribrezzo per il proprio corpo.
Sam pianse per la seconda notte di fila, ma solo un po’– il pigiama che si era
sfilato e aveva abbandonato in un angolo
del bagno prima ancora di varcare la porta cominciava a liberare un odore acre inequivocabile,
e il tempo stringeva.
Suo fratello non sarebbe tardato ancora
molto, dunque non poteva permettersi di più.
Con un gesto svogliato delle mani spazzò via ogni residuo di quel pianto (o
almeno, lo spazzò via a sufficienza perché Dean non potesse accorgersene) e corse
ai ripari.
Quando Dean fece ritorno, Sam aveva già fatto i bagagli.
Con uno scatto che tradì una certa urgenza, uscì fuori dalla camera non appena
scorse dalla finestra i fari dell’Impala illuminare a giorno il piazzale di
sosta, e a Dean non servirono domande.
Il “dobbiamo
andarcene.” scandito da Sam con una
inflessibilità che non ammetteva repliche mise a tacere qualunque interrogativo
Dean avesse voluto porre al riguardo.
Non attese neanche che Dean chiudesse la portiera dell’auto per cominciare a
caricare il cofano con movimenti convulsi e nervosi, in un andirivieni tra
l’interno e l’esterno della 102 del Night Inn di Cheyenne talmente forsennato
che, a parer di Dean, solo la presenza di Lucifero nudo, spalmato oscenamente
sul suo letto come una pornoattrice anni novanta, avrebbe potuto giustificare.
Beh. Non che si fosse sbagliato più di
tanto, in fondo.
“Una delle cameriere è entrata mentre ero in bagno, ed ha visto le armi.”
Frastornato, braccia abbandonate lungo i fianchi e un’espressione mista tra la confusione e il fastidio che poco aveva a che fare con l’abbagliante insegna del motel che offendeva il suo viso, Dean schioccò la lingua con disappunto.
“Cazzo, Sammy. Perché l’hai fatta entrare?”
“Come facevo a sapere sarebbe arrivata a portarmi degli asciugamani extra?”
Non vi era insofferenza in quella voce, o per lo meno, non quella che c’era da
aspettarsi. Il Sam che conosceva avrebbe tirato fuori la bitch face più bastarda della storia, la classica espressione che
metteva su quando decideva di attivare
la modalità ‘moglie-gelosa-con-marito-infedele’,
e avrebbe rimarcato la sua uscita brava per i sei, sette giorni seguenti con
una tale passivo-aggressività che avrebbe portato Dean a maledirsi per aver
vissuto così a lungo. Adesso però non vi
era niente di tutto ciò, e di questa assenza, Dean ne rimase perplesso, quasi
inquietato (più di quanto avrebbe potuto
inquietarlo l’aver considerato Sam sua
moglie, in effetti).
Ma c’era qualcos’altro che non tornava. Un piccolo campanello d’allarme gli
suggerì di passare nuovamente al
setaccio l’ultima frase pronunciata da Sam, e – in effetti – qualcosa che rimase impigliato nelle trame e
ruzzolò nella sua mente come una biglia di vetro, Dean la trovò.
Stirò gli angoli della sua bocca amaramente e lasciò che un profondo respiro
gli riempisse i polmoni quando si rese conto di sapere cosa fosse quel
qualcosa.
“Possiamo raggiungere il prossimo motel sulla interstate e fermarci lì, se hai
bisogno di dormire.”
La voce di Sam riprese tono. Sembrava decisa, incredibilmente fresca.
“Decisamente. Sono almeno sessanta ore che non dormo, speravo di avere un attimo di tregua questa notte...” Dean lo oltrepassò, raggiungendo la portiera dell’auto. “Anche tu hai bisogno di dormire.”
A quella frase, Sam fermo per un istante il suo moto frenetico. Una manciata di secondi appena, il tempo
necessario per ricevere qualcosa di molto simile ad un pugno al centro dello
stomaco, e poi indossare nuovamente la maschera di finta indifferenza che mai
sino ad allora aveva trovato così pesante.
“Io?”
“Sì. Hai ancora una costola rotta, non dimenticarlo.” La indicò con un gesto
svogliato del viso, come fosse stato casuale; poi entrò in auto e chiuse la
portiera.
Ecco. Quello sì! Quello sì che fu un autentico lampo
di genio!
Un guizzo di inaspettata vivacità illuminò i suoi occhi verdi, come se
improvvisamente avesse avuto la risposta a ogni cosa.
La costola rotta poteva rappresentare una alternativa valida e discreta a tutta
quella merda che non era il caso di tirare in ballo in continuazione; un
ripiego sottile e indolore, qualcosa che
non metteva a repentaglio la dignità di Sam ogni qualvolta vi era da
ricordargli che aveva ancora bisogno di riposo.
E in fin dei conti era vero, non era certo guarita. La smorfia di dolore che tentò di trattenere quando
con un movimento brusco chiuse il cofano dell’impala glielo ricordò. Nulla di
strano o irrealistico.
Figurati se quei bastardi figli di
puttana (Dean difficilmente avrebbe trovato un appellativo migliore per
loro ) con un badge al taschino ne avessero tenuto conto, quando lo avevano
sbattuto a terra con forza, immobilizzato e sedato con un narcotico per
elefanti, come se suo fratello fosse improvvisamente diventato il peggiore
degli psicopatici di tutti i fottuti Stati Uniti d’America. Dean non faticava ad immaginare con quanta
trepidazione avessero atteso che un momento simile–quasi da film – si palesasse
nelle loro tristi vite e mettesse momentaneamente fine al piattume delle loro giornate passate
tra i matti di un reparto psichiatrico; e non faticava neppure a immaginare con
quanta gioia avrebbe sfilettato ad uno ad uno ogni singolo muscolo del loro
corpo se solo avesse assistito personalmente a quella scena.
Ma Sammy adesso era lì, rattoppato dallo stesso angelo che lo aveva ridotto in
quello stato ma, tutto sommato, lì.
E in via di guarigione (Dean avrebbe
ripetuto sino allo sfinimento che Sam lo era!).
E avrebbe fatto di quella costola rotta la sua complice più fedele.
Il suo flusso di pensieri si arrestò quando Sam giunse ad aprire la portiera ed
entrò in auto. Non disse nulla, ma su quel volto teso Dean poté
intravedere tutta la snervante opera di
selezione che la sua mente stava compiendo
al fine di trovare le parole giuste da dire. Ci provò a non farci caso, si impegnò. Per la
millesima volta nella sua vita, disse a sé stesso che era da stupidi voler per
forza leggere sulla faccia di suo fratello qualcosa
che non fosse, semplicemente, la faccia di suo fratello.
Ci provò, e riuscì a convincersene per il tempo necessario a girare la chiave
nell’impala e udire il risveglio del suo motore: perché alla nuova occhiata che
rivolse a Sam, non riuscì a non notare come
le sue enormi mani si erano spalancate in tutta la loro grandezza e avevano
stretto le ginocchia piegate, quasi fosse l’unico modo per impedire loro di
continuare a muoversi.
Questo fece miseramente fallire qualsiasi buon proposito si
fosse fatto. Per la millesima volta.
“Sei riuscito a chiudere occhio almeno per qualche ora?”
Sam sbatté le palpebre e lanciò uno sguardo veloce a suo
fratello; il primo, da quando aveva fatto ritorno.
Più simile ad uno sguardo dato per errore in realtà, ma meglio di niente.
“Non sono io quello che è andato a rimorchiare in un bar per tutta la serata,
Dean. Certo che ho dormito...” Rispose, trovando nell’oscurità dinnanzi a sé la
sicurezza necessaria a mentire.
Dean tirò quasi un sospiro di sollievo nel sentirlo così. Passivo-aggressivo
come il caro vecchio Sammy!
“Pensavo avessi passato del tempo con la camerierina che ti è venuta a trovare.
Era carina, almeno?”
Sam cambiò posizione e
spinse con fatica della saliva incredibilmente pesante giù per la gola.
“Sì.”
Dean spense l’auto di colpo.
“Sam...” Strizzò gli occhi, passò lenta e stanca una mano sul viso
momentaneamente chiuso al mondo intero, e per il tempo che li riaprì, Sam si
era già trasformato quell’essere vibrante che la sera precedente aveva raccolto
dal pavimento del bagno. Tale e quale.
“Quando ho fatto il check-in, ho scambiato due parole con il suo gestore. E’ un
vecchio redneck, gestisce il motel con
il figlio, un tipo suonato come pochi che sembra Robin Williams in One Hour Photo. E’ stato mezz’ora a scusarsi per l’assenza di servizio in camera
e di eventuali...extra, in quanto
–per usare le sue stesse parole - ‘nessuna ragazza al giorno d’oggi porterebbe il
suo amabile culo sin quaggiù’. Mi ha suggerito di placare eventuali bollori
con la sua tecnica: pay-per-view e gel al gusto amarena, disponibile nel primo
cassetto dei comodini di ogni camera. Mi è sembrato un esperto, Sammy. Non
credo proprio mentisse...”
Sam tacque.
“Sammy...se hai ancora degli incubi, non è il caso di nasconderlo...”
“Non ho incubi, Dean.”
Lo disse con un tono duro e netto; uno di quelli che si
presentano come una miccia già innestata, e qualsiasi tipo di insistenza
avrebbe portato a una inevitabile esplosione.
“Okay. Va bene.” Dean tamburellò lentamente
i palmi sullo sterzo, coniugando la sua voce ai movimenti. “Okay.” ripetè
ancora.
“Certo, “ Gesticolò. “- a volte dimentico della tua passione
irrefrenabile di cambiare motel nel cuore della notte, ma okay. Non sto certo
dicendo che tu lo faccia perché hai degli incubi come avrebbero tutte le
persone normali del mondo dopo ciò che hai passato,
figurati...” Fece spallucce, ammiccando
un sorriso quasi beffardo verso Sam, che però, non staccò neppure per un
istante gli occhi dal parabrezza.
Per una manciata di secondi, Dean volle scrutare quella sorta di blocco di
cemento vibrante che aveva per fratello, e poi, quando si rese conto che
neanche il suo pessimo sarcasmo sarebbe riuscito a stabilire una connessione
tra lui e la folle solitudine in cui Sam si era rinchiuso dal giorno in cui
fuggirono dall’ospedale psichiatrico, Dean gettò la spugna, girò la chiave e lasciò
che il rombo del motore attutisse tutto.
Vi era talmente tanta neve accumulata sui bordi della superstrada che in più di
una curva Dean aveva sentito Baby perdere terreno e sbandare. La scelta di non
fare commenti al riguardo però, fu una decisione talmente saggia e responsabile
che colse di sorpresa anche lui.
Senza dubbio aveva a che fare con il modo in cui Sam sussultava ogni qualvolta
il muso dell’auto sembrava voler prendere direzioni differenti da quella di
marcia, ed era evidente che il suo
inconscio non ci aveva messo molto a capire che l’ultima cosa di cui suo
fratello aveva bisogno era sentire la sua voce tramutare in realtà il rischio
di ritrovarsi a dover passare la notte in una scarpata innevata.
Sam non amava il freddo. Dopo oltre mille anni nella gabbia, non era umanamente
possibile farlo. E non c’era da sorprendersi se Dean non avesse mai rimarcato
né il modo in cui a volte Sam ritirava le proprie mani all’interno delle
maniche della giacca, né il fatto che, da oltre un mese, Baby avesse il
riscaldamento fissato al massimo. Si era persino abituato a vedere Sammy con un
berretto di lana tirato giù sino alle sopracciglia (e accuratamente sulle
ustioni delle tempie), e - se proprio vogliamo dirlo - no, neppure il fatto che
le bevande calde fossero l’unica cosa che Sam sembrava disposto a mettere nello
stomaco (per lo meno, era qualcosa!) lo preoccupavano più di tanto.
L’impala passava silente di fronte alle alle insegne dei motel che non segnalavano
la presenza del riscaldamento autonomo tra i servizi disponibili, e Sam non
faceva domande.
Con la testa poggiata al vetro, si limitava solo ad osservarle per il frangente
in cui entravano nel suo campo visivo, e nient’altro. Perché poteva immaginare bene il motivo per
cui suo fratello tirava dritto.
Dean avrebbe preferito passare la notte a guidare sopprimendo sbadigli e
tragugiando un caffé dopo l’altro piuttosto che portare Sam in un luogo in cui
si sarebbe potuto risvegliare nel cuore della notte immerso in una glaciale
oscurità.
E pensare che in un primo momento, Sam aveva avuto l’impulso di dire a Dean di
fermarsi nel primo motel dall’insegna lampeggiante che avevano scorto dieci
minuti dopo aver imboccato la superstrada. Perché tutto sommato, era già l’una–
non sarebbero rimasti per più di quattro, cinque ore. E a Dean sarebbero bastate, davvero. E
sarebbe stato felice di vedere suo fratello scegliere un motel per entrambi;
sarebbe stato entusiasta nel ritrovarlo attivamente e consapevolmente
impegnato nella scalata contro sé stesso che lo avrebbe riportato ad essere il
Sammy di cui adesso aveva solo sembianze lontane.
Poi però si ricordò del perché quella notte erano lì – e di nuovo il disgusto,
la vergogna e la pietà gli punsero lo stomaco sino a mozzargli il fiato, e Dean non aveva idea di quanto
la sua ricerca potesse essere inutile, dato che Sam non solo quella notte non
avrebbe più dormito, ma anche se lo avesse fatto, non vi era calore che avrebbe
potuto sopprimere il gelo in cui si sarebbe inevitabilmente risvegliato.
Dean tirò il freno a mano quando l’auto raggiunse la piazzola di sosta del
nuovo motel.
“Non dovrebbe essere tanto male. “ Disse dando
un’occhiata veloce al di la’ del
parabrezza.
“Forse quei tucani sull’insegna sono un po’ fuori contesto, ma sembrerebbe un posto tranquillo, non trovi? E poi
guarda!” Indicò l’insegna sorridendo. “Magic fingers!”
Neppure la gomitatina d’intesa riuscì a strappare Sam dal rumoroso silenzio in
cui si era rinchiuso, e Dean era stanco. Sospirò.
Quello sguardo chino, pregno di pensieri ad egli inaccessibili, cominciava
davvero a dargli una sensazione sottopelle non troppo differente da quella
provata nel vedere Sam riverso su di una branda arrugginita mentre un angelo perfettamente inutile ammetteva la propria incapacità a rimetterlo
a posto. E non gli piaceva.
“Sammy, cosa c’è?” Venne fuori con un tono così serio che sentì il bisogno di
diluirlo. “Non va bene il motel coi
tucani?”
“No...” Sam scosse la testa. Sollevò le grosse mani dalle ginocchia, e le passò
sul viso come a volerne raccogliere la stanchezza. “No,
va tutto bene. Vado a fare il check-in.”
“Sam.”
Non avrebbe dovuto farlo, e Dean lo sapeva bene. Ma quando se ne rese conto, il
polso di Sam era già stretto nella sua mano e il brusco strattone con cui lo
aveva riportato sui sedili mettendo fine al fugace tentativo di uscire, aveva
già tramutato il tutto in qualcosa che davvero, davvero, quella notte sperava non avvenisse.
E sì, era decisamente troppo tardi per i
ripensamenti.
Osservò Sam aspirare tra i denti quello che probabilmente voleva essere un grido,
e lasciò che si liberasse dalla presa
con uno scatto violento e disperato che per poco non si tradusse in una
gomitata in un occhio, perché diamine – aveva ragione! Si poteva essere tanto
stupidi!? Cosa diavolo gli era passato per il cervello!?
“Cazzo...” Dean strinse i denti e le palpebre, cercando di resistere alla
prorompente tentazione di tirare un pugno a qualcosa.
“Sam...Sammy, non volev—“ Sussurrò piano balbettando.
“Lo so.”
Non gli permise di andare oltre.
Con le gambe fuori dalla portiera e i suoi piedi a schiacciare l’umido asfalto
impregnato di neve, non si voltò neppure a guardarlo. Contrariamente a
qualsiasi aspettativa, Sam aveva trovato maggiore conforto in quel freddo che
gli tagliava le ossa piuttosto che nell’immagine di suo fratello che, stordito,
si scusava.
Con questa considerazione, Dean si rese conto di aver fallito ancora.
“Okay.”
Tutto sbagliato.
Quella frase uscì con una frustrazione che rendeva tutto terribilmente,
maledettamente sbagliato.
“V-volevi qualcosa?”
Dean espirò.
Voleva dire tante cose, ma non si aspettava davvero di fare quel discorso
quella notte.
“Volevo solo dirti-- che non dovresti definire ‘nulla’ i tuoi incubi, Sam. Non
è da te evitare i problemi in questo modo, diavolo! Tu sei sempre stato il
Dalai Lama dei due, e poi so qualcosa anch’io dell’inferno, e so anche che in quel
fottuto ospedale psichiatrico ci sei finito per colpa mia, e non sarebbe dovuto
succedere e...e--”
Si interruppe quando si rese conto da solo di star blaterando.
I buoni propositi di rimediare sulla costola? Tutti a puttane, naturalmente.
Scosse la testa, si leccò nervosamente le labbra.
“Sistemeremo tutto, Sammy. E’ una
promessa.”
Protetto dal muro delle sue spalle, Sam annuì, e a Dean sembrò come se
riuscisse a sentire il cuore di suo fratello rimbombargli nelle orecchie.
O forse era il suo, che a fronte di quella frase – l’unica, semplice frase che
avrebbe dovuto dire sin dall’inizio in
realtà, era giunto a confermargli che sì, quella era la frase che ci voleva.
Quella era la frase ideale!
Uno sputo di menzogna che avrebbe sporcato sia Sam, sia sé stesso di
un’illusione dolce e speranzosa.
Che diamine aveva fatto sino ad allora?! Perchè non gli era venuto in mente
prima?
Guardò le spalle curvate di Sam alzarsi e abbassarsi ritmicamente in una
posizione innaturale, preda di un terrore a cui gli era stato negato l’accesso
e che gli faceva ribollire il sangue, e furono proprio quelle, insieme al
fremito che crebbe nelle sue mani, a ricordargli quanto fosse faticoso per lui
pronunciare una frase simile senza stringere Sam tra le braccia come faceva un
tempo che adesso sembrava lontanissimo.
Dean strinse i pugni sul volante, e guardò il cielo
attraverso il parabrezza.
Mentalmente, si disse ancora una volta di aspettare; di dargli tempo, di non
bruciare le tappe.
Sam sembrava una stella di un’altra galassia, ma ciò non significava che lo
sarebbe stato per sempre, no?
Lo avrebbe ricondotto a sé, ovvio. Sarebbero tornati come prima; avrebbe potuto
abbracciare e consolare quel corpo come aveva fatto per tutta la sua vita.
Ma non quella notte, né, forse, quella successiva.
E non stava a lui stabilire le tempistiche, ma a Sam. Almeno questa fottuta volta, stava solo e soltanto a
Sam farlo.
“Sai cosa ti dico? Vai a fare tu il check-in. Mi sono ricordato che abbiamo
quasi finito gli abiti puliti, e ho visto che c’è una lavanderia a gettoni in
questo motel. Ti raggiungo in camera appena finisco.”
Sam non attese la risposta di Dean. Semplicemente, si alzò dal sedile, chiuse
la portiera e senza voltarsi un solo istante, si allontanò. Dean pensò che
fosse giusto così.
Vedere Sammy allontanarsi nella neve portando con sé il suo borsone avrebbe
dovuto fargli da monito per le prossime volte in cui sarebbe stato così stupido
da confondere le sue necessità con quelle di suo fratello.
Ben ti sta, Dean – Disse a sé stesso
scuotendo la testa e sospirando. La sua mano tentava già di ripescare la
bottiglia di whiskey abbandonata nel sedili posteriori; con quella,
almeno, non sarebbe stato difficile
immaginare come avrebbe passato il resto della notte.
And maybe
someday we will meet, (and maybe talk and not just speak) – fine secondo
capitolo.
-
NOTE-
- Grazie infinite alla mia povera beta Narcy
che mi beta sempre a tempo record nonostante Supernatural non sia il suo fandom
;A;. Grazie, Narcy. <3
- E grazie anche a voi che siete stati così coraggiosi da leggere anche il
secondo capitolo! <3 Grazie davvero!