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Autore: Snehvide    23/01/2016    2 recensioni
La prima volta che accadde, o per lo meno, quella che col senno di poi catalogò come tale, Dean non se ne accorse.
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[What if post 7x17] - [Hurt&Comfort] - [Dettagli poco carini] - [Tematiche delicate]
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Settima stagione
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And maybe someday we will meet,
(and maybe talk and not just speak)

Secondo capitolo


La seconda volta che accadde, Dean non poté accorgersene.

Shanti era stata una bella sorpresa, quella notte.
Cubana, pelle ambrata, non più venticinque anni. Era la prima ragazza da bar che non portava su di sé l’odore dell’alcohol e del fumo; le sue labbra lucide emanavano una vaga essenza di vaniglia, qualcosa simile al miele, come uno quei balsami labbra che piacevano tanto a Sam da piccolo.
Dean la trovò irresistibile, inutile dirlo.
Mentre raccontava di sé, dei suoi studi in legge e della sua passione per le belle spiagge, continuava a spostare i suoi riccioli riottosi dietro le orecchie, sottolineando il gesto con un atteggiamento quasi felino.
Dean non dovette attendere troppo per scoprire come sarebbe stato affondare le dita tra quei capelli morbidi e tuffarsi nella sua bocca.

Nulla su quella veranda innevata avrebbe potuto anticipare le parole che sarebbero sopraggiunte negli istanti che seguirono.
 
Shanti sgranò gli occhi incredula e confusa, quasi come non avesse avuto più certezze nella vita.
La cosa divertente fu che un paio di isolati più in la’, Sam nel suo letto faceva la stessa cosa di fronte alla nuova  chiazza di urina che si era allargata sotto di sé, ma questo, Dean, non poteva saperlo.
Il suo piccolo inferno adesso aveva il volto di una ragazza delusa , i cui occhi premevano  sulla sua figura in cerca di una risposta che non avrebbe distrutto del tutto la già profondamente bassa stima che aveva di sé.  

“Perché?”

“Perché ho un fratello che m-mi sta aspettando—“
Dio...
Non ebbe parole per definire quanto quella frase avesse portato il tutto ad un nuovo, inesplorato, livello di imbarazzo.

“E questo ti impedirebbe di passare la notte con me? Non puoi chiamarlo e dirgli che non torni?”

“No, non posso farlo...”

Shanti rise nervosa, scostò gli occhi dalla figura che aveva davanti,  giusto per camuffare l’umiliazione con qualcosa di differente.

“E cosa te lo vieterebbe, sentiamo?”

Il fatto è che gli faceva domande a cui Dean non poteva rispondere.  Fondalmentalmente perché egli stesso non conosceva la risposta, eh . Non per altro.

Schioccò la lingua nervoso. Cercò di formulare in fretta  qualcosa che avesse senso, ma  in verità, nulla che attraversò per la sua mente in quegli istanti ne aveva davvero.  Dirle che suo fratello non stesse attraversando un bel momento non avrebbe retto; quella sera  lo aveva lasciato da solo in un motel, aveva preso l’auto ed era andato a bere come una spugna in un locale da quattro soldi. Non è certo il comportamento di un fratello responsabile.
Non poteva neppure far affidamento alla classica scusa del ‘domani dovremo ripartire presto’ -  quando lei aveva notato che stava esagerando con gli shots e, ridacchiando, gli suggerì di rallentare, Dean aveva risposto con un briciolo di arroganza di non temere alcuna sbornia, perché l’indomani non si sarebbe scollato dal letto neanche se fosse scoppiata (nuovamente) l’apocalisse.
Per cui, tacque. E il suo silenzio fu più che sufficiente.

“Senti, faresti prima a dirmi che non ti piaccio abbastanza, davvero.”

Ancora sorrisi nervosi.  Sorrisi disgustati.
Lei scosse la testa e allontanò le braccia alle mani di Dean che sopraggiunsero nel tentativo disperato di rimediare.

“Nononono! Chantal, tu sei bellissima e...”

“Shanti. Non Chantal.”

Dean inspirò profondamente, chiuse le palpebre.
Mai in vita sua aveva desiderato  tanto la presenza di un leviatano nei paraggi che lo divorasse seduta stante.

“Shanti. Okay.” Ancora un sospiro ad occhi chiusi. Palmi aperti verso terra.  “Tu- tu sei bellissima, dico sul serio, credimi.  Sei favolosa, e  vorrei tanto venire a casa tua, ma...non posso. Non posso perché...”

“Perché il tuo fratellino ti sta aspettando a casa.”

Non vi era insulto che non diresse mentalmente verso di sé, ma non riuscì a negare le parole scandite dalla ragazza mentre annuiva sarcastica.  

“Che dirti, è un uomo fortunato allora! Le mie felicitazioni ad entrambi!”

La ragazza scrollò le spalle, girò  i tacchi e il gelo esterno , di colpo, si trasferì per intero dentro di Dean, dentro il suo petto, per la precisione, dove sentiva qualcosa, quella cosa, la solita, vecchia ‘cosa’, ruggirgli feroce. E ci provò a metterla a tacere, davvero.  Anni ed anni di esperienza lo avevano reso un vero e proprio campione. Solo che vi erano delle volte in cui farlo risultava più difficile del solito.
Gli incisivi di Dean spinsero con forza contro il labbro inferiore, lo afferrarono tutto, quasi volessero staccarlo senza pietà. Ma si fermò, e una smorfia gli imbruttì il volto quando  le sue papille ritrovarono su di esso tracce di vaniglia, che rese tutto ancora infinitamente più frustrante.

Beh. Relativamente più frustrante. Forse sarebbe stato questo  l’aggettivo che avrebbe utilizzato se solo avesse visto con quanta frustrazione le dita della mano destra di Sam avevano tirato indietro  i capelli bagnati, quando  questo - dopo aver ponderato a lungo il momento -  trovò infine il coraggio di sollevare la testa da sotto al rubinetto aperto e fissare  il proprio riflesso  sullo specchio.

Inforcò i suoi capelli ancora - una, due, tre volte. La stretta era la stessa di chi si preparava a strapparli via, in realtà, a estirparli come fossero erbaccia in un giardino incolto, ma in quel momento non aveva la minima importanza, a stento si accorse di quanta forza eccessiva avesse impiegato nel gesto.

Perché la sua attenzione era focalizzata sull’unica cosa che sembrava avere senso, qualcosa che ritrovò curiosamente sul volto emaciato che si rifletteva sulla superficie liscia dello specchio,  e che per qualche istante pensò di non riconoscere. Sam ebbe infatti l’impressione di osservare un volto non suo quando,  su quegli occhi grandi e infossati,  come un testo senza lettere,  Sam lesse qualcosa che sembrò rivelargli  una nuova, terrificante consapevolezza.
Raggelato, non riuscì a far altro che sgranare ulteriormente gli occhi e serrare le labbra. 
A giudicare della fame di ossigeno che aggredì i suoi polmoni e ne scosse l’intero corpo, doveva esser stato qualcosa di molto più palpabile di quel Lucifero che pochi minuti prima aveva inciso il proprio nome sulla sua fronte con un taglierino.
Qualcosa da cui non ci si sarebbe risvegliati  al prezzo di un grido strozzato nel cuore della notte, né sarebbe bastata una mano angelica sulla fronte a riportare tutto al suo posto.

Schiuse la bocca, chinò il viso.
Stava spingendo talmente forte i polpastrelli contro il bordo lucido del lavandino che veniva da chiedersi chi dei due si sarebbe spaccato per primo.
Poi però allentarono la presa, lo fecero quando le prime  lacrime cominciarono a scendere dal volto, e si andarono ad unire alle gocce d’acqua che gocciolavano giù dai capelli; plick, plick, plick– tutte dritte. Scendevano dai suoi occhi e cadevano giù, senza neanche sfiorare le guance, quasi come provassero anche loro un senso di ribrezzo per il proprio corpo.

Sam pianse per la seconda notte di fila, ma solo un po’– il pigiama che si era sfilato e aveva abbandonato  in un angolo del bagno prima ancora di varcare la porta cominciava a liberare un odore acre inequivocabile, e il tempo stringeva. 
Suo fratello  non sarebbe tardato ancora molto, dunque non poteva permettersi di più.
Con un gesto svogliato delle mani spazzò via ogni residuo di quel pianto (o almeno, lo spazzò via a sufficienza perché Dean non potesse accorgersene) e corse ai ripari.

Quando Dean fece ritorno, Sam aveva già fatto i bagagli.
Con uno scatto che tradì una certa urgenza, uscì fuori dalla camera non appena scorse dalla finestra i fari dell’Impala illuminare a giorno il piazzale di sosta, e a Dean non servirono domande.
Il  dobbiamo andarcene.  scandito da Sam con una inflessibilità che non ammetteva repliche mise a tacere qualunque interrogativo Dean avesse voluto porre al riguardo.

Non attese neanche che Dean chiudesse la portiera dell’auto per cominciare a caricare il cofano con movimenti convulsi e nervosi, in un andirivieni tra l’interno e l’esterno della 102 del Night Inn di Cheyenne talmente forsennato che, a parer di Dean, solo la presenza di Lucifero nudo, spalmato oscenamente sul suo letto come una pornoattrice anni novanta, avrebbe potuto giustificare.
Beh.  Non che si fosse sbagliato più di tanto, in fondo.

“Una delle cameriere è entrata mentre ero in bagno, ed ha visto le armi.”

Frastornato, braccia abbandonate lungo i fianchi e un’espressione mista tra la confusione e il fastidio che poco aveva a che fare con l’abbagliante insegna del motel che offendeva  il suo viso, Dean schioccò la lingua con disappunto.


“Cazzo, Sammy. Perché l’hai fatta entrare?”

“Come facevo a sapere sarebbe arrivata a portarmi degli asciugamani extra?”

Non vi era insofferenza in quella voce, o per lo meno, non quella che c’era da aspettarsi. Il Sam che conosceva avrebbe tirato fuori la bitch face più bastarda della storia, la classica espressione che metteva su quando decideva  di attivare la modalità ‘moglie-gelosa-con-marito-infedele’, e avrebbe rimarcato la sua uscita brava per i sei, sette giorni seguenti con una tale passivo-aggressività che avrebbe portato Dean a maledirsi per aver vissuto così a lungo.  Adesso però non vi era niente di tutto ciò, e di questa assenza, Dean ne rimase perplesso, quasi inquietato (più di quanto avrebbe potuto  inquietarlo l’aver considerato Sam sua moglie, in effetti).

Ma c’era qualcos’altro che non tornava. Un piccolo campanello d’allarme gli suggerì di passare  nuovamente al setaccio l’ultima frase pronunciata da Sam, e – in effetti –   qualcosa che rimase impigliato nelle trame e ruzzolò nella sua mente come una biglia di vetro, Dean la trovò.
Stirò gli angoli della sua bocca amaramente e lasciò che un profondo respiro gli riempisse i polmoni quando si rese conto di sapere cosa fosse quel qualcosa.

“Possiamo raggiungere il prossimo motel sulla interstate e fermarci lì, se hai bisogno di dormire.”

La voce di Sam riprese tono. Sembrava decisa, incredibilmente fresca.

“Decisamente. Sono almeno  sessanta ore che non dormo, speravo di avere un attimo di tregua questa notte...” Dean lo oltrepassò, raggiungendo la portiera dell’auto. “Anche tu hai bisogno di dormire.”

A quella frase, Sam fermo per un istante il suo moto frenetico.  Una manciata di secondi appena, il tempo necessario per ricevere qualcosa di molto simile ad un pugno al centro dello stomaco, e poi indossare nuovamente la maschera di finta indifferenza che mai sino ad allora aveva trovato così pesante.

“Io?”

“Sì. Hai ancora una costola rotta, non dimenticarlo.” La indicò con un gesto svogliato del viso, come fosse stato casuale; poi entrò in auto e chiuse la portiera.

Ecco.  Quello sì! Quello sì che fu un autentico lampo di genio!
Un guizzo di inaspettata vivacità illuminò i suoi occhi verdi, come se improvvisamente avesse avuto la risposta a ogni cosa.
La costola rotta poteva rappresentare una alternativa valida e discreta a tutta quella merda che non era il caso di tirare in ballo in continuazione; un ripiego sottile e indolore, qualcosa che non metteva a repentaglio la dignità di Sam ogni qualvolta vi era da ricordargli che aveva ancora bisogno di riposo. 
E in fin dei conti era vero, non era certo guarita.  La smorfia di dolore che tentò di trattenere quando con un movimento brusco chiuse il cofano dell’impala glielo ricordò. Nulla di strano o irrealistico.
Figurati se quei bastardi figli di puttana (Dean difficilmente avrebbe trovato un appellativo migliore per loro ) con un badge al taschino ne avessero tenuto conto, quando lo avevano sbattuto a terra con forza, immobilizzato e sedato con un narcotico per elefanti, come se suo fratello fosse improvvisamente diventato il peggiore degli psicopatici di tutti i fottuti Stati Uniti d’America.  Dean non faticava ad immaginare con quanta trepidazione avessero atteso che un momento simile–quasi da film – si palesasse nelle loro tristi vite e mettesse momentaneamente  fine al piattume delle loro giornate passate tra i matti di un reparto psichiatrico; e non faticava neppure a immaginare con quanta gioia avrebbe sfilettato ad uno ad uno ogni singolo muscolo del loro corpo se solo avesse assistito personalmente a quella scena. 
 
Ma Sammy adesso era lì, rattoppato dallo stesso angelo che lo aveva ridotto in quello stato ma,  tutto sommato,  .  E in via di guarigione (Dean avrebbe ripetuto sino allo sfinimento che Sam lo era!).
E avrebbe fatto di quella costola rotta la sua complice più fedele.

Il suo flusso di pensieri si arrestò quando Sam giunse ad aprire la portiera ed entrò in auto. Non disse nulla, ma su quel volto teso Dean poté intravedere  tutta la snervante opera di selezione che la sua mente stava compiendo  al fine di trovare le parole giuste da dire.  Ci provò a non farci caso, si impegnò. Per la millesima volta nella sua vita, disse a sé stesso che era da stupidi voler per forza leggere sulla faccia di suo fratello qualcosa che non fosse, semplicemente,  la faccia di suo fratello.
Ci provò, e riuscì a convincersene per il tempo necessario a girare la chiave nell’impala e udire il risveglio del suo motore: perché alla nuova occhiata che rivolse a Sam, non riuscì a non notare come  le sue enormi mani si erano spalancate in tutta la loro grandezza e avevano stretto le ginocchia piegate, quasi fosse l’unico modo per impedire loro di continuare a muoversi.

Questo fece miseramente fallire qualsiasi buon proposito si fosse fatto.  Per la millesima volta.


“Sei riuscito a chiudere occhio almeno per qualche ora?”

Sam sbatté le palpebre e lanciò uno sguardo veloce a suo fratello; il primo, da quando aveva fatto ritorno.
Più simile ad uno sguardo dato per errore in realtà, ma meglio di niente.  

“Non sono io quello che è andato a rimorchiare in un bar per tutta la serata, Dean. Certo che ho dormito...” Rispose, trovando nell’oscurità dinnanzi a sé la sicurezza necessaria a mentire.

Dean tirò quasi un sospiro di sollievo nel sentirlo così. Passivo-aggressivo come il caro vecchio Sammy!

“Pensavo avessi passato del tempo con la camerierina che ti è venuta a trovare. Era carina, almeno?”

Sam  cambiò posizione e spinse con fatica della saliva incredibilmente pesante giù per la gola.

“Sì.”

Dean spense l’auto di colpo.


“Sam...” Strizzò gli occhi, passò lenta e stanca una mano sul viso momentaneamente chiuso al mondo intero, e per il tempo che li riaprì, Sam si era già trasformato quell’essere vibrante che la sera precedente aveva raccolto dal pavimento del bagno. Tale e quale.


“Quando ho fatto il check-in, ho scambiato due parole con il suo gestore. E’ un vecchio redneck,  gestisce il motel con il figlio, un tipo suonato come pochi che sembra Robin Williams in One Hour Photo. E’ stato mezz’ora  a scusarsi per l’assenza di servizio in camera e di eventuali...extra, in quanto –per usare le sue stesse parole -  nessuna ragazza al giorno d’oggi porterebbe il suo amabile culo sin quaggiù’. Mi ha suggerito di placare eventuali bollori con la sua tecnica: pay-per-view e gel al gusto amarena, disponibile nel primo cassetto dei comodini di ogni camera. Mi è sembrato un esperto, Sammy. Non credo proprio mentisse...”

Sam tacque.

“Sammy...se hai ancora degli incubi, non è il caso di nasconderlo...”

“Non ho incubi, Dean.”

Lo disse con un tono duro e netto; uno di quelli che si presentano come una miccia già innestata, e qualsiasi tipo di insistenza avrebbe portato a una inevitabile esplosione.

“Okay. Va bene.”  Dean tamburellò lentamente i palmi sullo sterzo, coniugando la sua voce ai movimenti. “Okay.” ripetè ancora.

“Certo, “ Gesticolò. “- a volte dimentico della tua passione irrefrenabile di cambiare motel nel cuore della notte, ma okay. Non sto certo dicendo che tu lo faccia perché hai degli incubi come avrebbero tutte le persone normali  del mondo dopo ciò che hai passato, figurati...”  Fece spallucce, ammiccando un sorriso quasi beffardo verso Sam, che però, non staccò neppure per un istante gli occhi dal parabrezza.

Per una manciata di secondi, Dean volle scrutare quella sorta di blocco di cemento vibrante che aveva per fratello, e poi, quando si rese conto che neanche il suo pessimo sarcasmo sarebbe riuscito a stabilire una connessione tra lui e la folle solitudine in cui Sam si era rinchiuso dal giorno in cui fuggirono dall’ospedale psichiatrico,  Dean gettò la spugna, girò la chiave e lasciò che il rombo del motore attutisse tutto.

 


Vi era talmente tanta neve accumulata sui bordi della superstrada che in più di una curva Dean aveva sentito Baby perdere terreno e sbandare. La scelta di non fare commenti al riguardo però, fu una decisione talmente saggia e responsabile che colse di sorpresa anche lui.
Senza dubbio aveva a che fare con il modo in cui Sam sussultava ogni qualvolta il muso dell’auto sembrava voler prendere direzioni differenti da quella di marcia, ed era evidente che  il suo inconscio non ci aveva messo molto a capire che l’ultima cosa di cui suo fratello aveva bisogno era sentire la sua voce tramutare in realtà il rischio di ritrovarsi a dover passare la notte in una scarpata innevata.

Sam non amava il freddo. Dopo oltre mille anni nella gabbia, non era umanamente possibile farlo. E non c’era da sorprendersi se Dean non avesse mai rimarcato né il modo in cui a volte Sam ritirava le proprie mani all’interno delle maniche della giacca, né il fatto che, da oltre un mese, Baby avesse il riscaldamento fissato al massimo. Si era persino abituato a vedere Sammy con un berretto di lana tirato giù sino alle sopracciglia (e accuratamente sulle ustioni delle tempie), e - se proprio vogliamo dirlo - no, neppure il fatto che le bevande calde fossero l’unica cosa che Sam sembrava disposto a mettere nello stomaco (per lo meno, era qualcosa!) lo preoccupavano  più di tanto.
L’impala passava silente di fronte alle alle insegne dei motel che non segnalavano la presenza del riscaldamento autonomo tra i servizi disponibili, e Sam non faceva domande.
Con la testa poggiata al vetro, si limitava solo ad osservarle per il frangente in cui entravano nel suo campo visivo, e nient’altro.  Perché poteva immaginare bene il motivo per cui suo fratello tirava dritto.
Dean avrebbe preferito passare la notte a guidare sopprimendo sbadigli e tragugiando un caffé dopo l’altro piuttosto che portare Sam in un luogo in cui si sarebbe potuto risvegliare nel cuore della notte immerso in una glaciale oscurità.

E pensare che in un primo momento, Sam aveva avuto l’impulso di dire a Dean di fermarsi nel primo motel dall’insegna lampeggiante che avevano scorto dieci minuti dopo aver imboccato la superstrada. Perché tutto sommato, era già l’una– non sarebbero rimasti per più di quattro, cinque ore.  E a Dean sarebbero bastate, davvero. E sarebbe stato felice di vedere suo fratello scegliere un motel per entrambi; sarebbe stato entusiasta  nel ritrovarlo attivamente e consapevolmente impegnato nella scalata contro sé stesso che lo avrebbe riportato ad essere il Sammy di cui adesso aveva solo sembianze lontane.

Poi però si ricordò del perché quella notte erano lì – e di nuovo il disgusto, la vergogna e la pietà gli punsero lo stomaco sino a mozzargli il fiato, e Dean non aveva idea di quanto la sua ricerca potesse essere inutile, dato che Sam non solo quella notte non avrebbe più dormito, ma anche se lo avesse fatto, non vi era calore che avrebbe potuto sopprimere il gelo in cui si sarebbe inevitabilmente risvegliato.


Dean tirò il freno a mano quando l’auto raggiunse la piazzola di sosta del nuovo motel.

“Non dovrebbe essere tanto male. “ Disse dando un’occhiata  veloce al di la’ del parabrezza.
“Forse quei tucani sull’insegna sono un po’ fuori contesto, ma sembrerebbe  un posto tranquillo, non trovi? E poi guarda!”   Indicò l’insegna sorridendo.  “Magic fingers!”

Neppure la gomitatina d’intesa riuscì a strappare Sam dal rumoroso silenzio in cui si era rinchiuso, e Dean era stanco.  Sospirò.
Quello sguardo chino, pregno di pensieri ad egli inaccessibili, cominciava davvero a dargli una sensazione sottopelle non troppo differente da quella provata nel vedere Sam riverso su di una branda arrugginita mentre un angelo perfettamente inutile  ammetteva la propria incapacità a rimetterlo a posto.  E non gli piaceva.

“Sammy, cosa c’è?” Venne fuori con un tono così serio che sentì il bisogno di diluirlo.  “Non va bene il motel coi tucani?”

“No...” Sam scosse la testa. Sollevò le grosse mani dalle ginocchia, e le passò sul viso come a volerne raccogliere la stanchezza.   “No, va tutto bene. Vado a fare il check-in.”


“Sam.”

Non avrebbe dovuto farlo, e Dean lo sapeva bene. Ma quando se ne rese conto, il polso di Sam era già stretto nella sua mano e il brusco strattone con cui lo aveva riportato sui sedili mettendo fine al fugace tentativo di uscire, aveva già tramutato il tutto in qualcosa che davvero, davvero, quella notte sperava non avvenisse.
E sì, era  decisamente troppo tardi per i ripensamenti.
Osservò Sam aspirare tra i denti quello che probabilmente voleva essere un grido, e lasciò che si liberasse  dalla presa con uno scatto violento e disperato che per poco non si tradusse in una gomitata in un occhio, perché diamine – aveva ragione! Si poteva essere tanto stupidi!? Cosa diavolo gli era passato per il cervello!?

“Cazzo...” Dean strinse i denti e le palpebre, cercando di resistere alla prorompente tentazione di tirare un pugno a qualcosa.

“Sam...Sammy, non volev—“ Sussurrò piano balbettando.

“Lo so.”  

Non gli permise di andare oltre.
Con le gambe fuori dalla portiera e i suoi piedi a schiacciare l’umido asfalto impregnato di neve, non si voltò neppure a guardarlo. Contrariamente a qualsiasi aspettativa, Sam aveva trovato maggiore conforto in quel freddo che gli tagliava le ossa piuttosto che nell’immagine di suo fratello che, stordito, si scusava. 
Con questa considerazione, Dean si rese conto di aver fallito ancora.

“Okay.”
Tutto sbagliato.
Quella frase uscì con una frustrazione che rendeva tutto terribilmente, maledettamente sbagliato.

“V-volevi qualcosa?”

Dean espirò.  
Voleva dire tante cose, ma non si aspettava davvero di fare quel discorso quella notte.

“Volevo solo dirti-- che non dovresti definire ‘nulla’ i tuoi incubi, Sam. Non è da te evitare i problemi in questo modo, diavolo! Tu sei sempre stato il Dalai Lama dei due, e poi so qualcosa anch’io dell’inferno, e so anche che in quel fottuto ospedale psichiatrico ci sei finito per colpa mia, e non sarebbe dovuto succedere e...e--”

Si interruppe quando si rese conto da solo di star blaterando.
I buoni propositi di rimediare sulla costola? Tutti a puttane, naturalmente.

Scosse la testa, si leccò nervosamente le labbra.

“Sistemeremo tutto, Sammy.  E’ una promessa.”

Protetto dal muro delle sue spalle, Sam annuì, e a Dean sembrò come se riuscisse a sentire il cuore di suo fratello rimbombargli nelle orecchie.
O forse era il suo, che a fronte di quella frase – l’unica, semplice frase che avrebbe dovuto dire  sin dall’inizio in realtà, era giunto a confermargli che sì, quella era la frase che ci voleva. Quella era la frase ideale!
Uno sputo di menzogna che avrebbe sporcato sia Sam, sia sé stesso di un’illusione dolce e speranzosa.
Che diamine aveva fatto sino ad allora?! Perchè non gli era venuto in mente prima?
Guardò le spalle curvate di Sam alzarsi e abbassarsi ritmicamente in una posizione innaturale, preda di un terrore a cui gli era stato negato l’accesso e che gli faceva ribollire il sangue, e furono proprio quelle, insieme al fremito che crebbe nelle sue mani, a ricordargli quanto fosse faticoso per lui pronunciare una frase simile senza stringere Sam tra le braccia come faceva un tempo che adesso sembrava lontanissimo.

Dean strinse i pugni sul volante, e guardò il cielo attraverso il parabrezza.
Mentalmente, si disse ancora una volta di aspettare; di dargli tempo, di non bruciare le tappe.
Sam sembrava una stella di un’altra galassia, ma ciò non significava che lo sarebbe stato per sempre, no?
Lo avrebbe ricondotto a sé, ovvio. Sarebbero tornati come prima; avrebbe potuto abbracciare e consolare quel corpo come aveva fatto per tutta la sua vita.
Ma non quella notte, né, forse, quella successiva.
E non stava a lui stabilire le tempistiche, ma a Sam. Almeno questa fottuta volta, stava solo e soltanto a Sam farlo.

“Sai cosa ti dico? Vai a fare tu il check-in. Mi sono ricordato che abbiamo quasi finito gli abiti puliti, e ho visto che c’è una lavanderia a gettoni in questo motel. Ti raggiungo in camera appena finisco.”

Sam non attese la risposta di Dean. Semplicemente, si alzò dal sedile, chiuse la portiera e senza voltarsi un solo istante, si allontanò. Dean pensò che fosse giusto così.

Vedere Sammy allontanarsi nella neve portando con sé il suo borsone avrebbe dovuto fargli da monito per le prossime volte in cui sarebbe stato così stupido da confondere le sue necessità con quelle  di suo fratello. 
Ben ti sta, Dean – Disse a sé stesso scuotendo la testa e sospirando. La sua mano tentava già di ripescare la bottiglia di whiskey abbandonata nel sedili posteriori; con quella, almeno,  non sarebbe stato difficile immaginare come avrebbe passato il resto della notte.

 

And maybe someday we will meet, (and maybe talk and not just speak) – fine secondo capitolo.
-


NOTE-


- Grazie infinite alla mia povera beta Narcy che mi beta sempre a tempo record nonostante Supernatural non sia il suo fandom ;A;. Grazie, Narcy. <3
- E grazie anche a voi che siete stati così coraggiosi da leggere anche il secondo capitolo! <3 Grazie davvero!

   
 
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