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Autore: BenniBennis    24/01/2016    1 recensioni
"Tornò una sera di dicembre. Lei tornò".
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tornò una sera di dicembre. Lei tornò. O meglio, Lei. Tornò di sera, scesa da un treno deserto che migliaia di volte aveva percorso quella costa, partendo dal Sud e arrivando fino all’estremo Nord. Tornò la sera di Natale, scesa da un treno deserto perché – insomma – chi viaggia il venticinque dicembre? Natale è fatto per la famiglia, per il calore della casa e per le chiacchiere bonaria; non per la solitudine, per un treno stridente e per il silenzio. Ma Lei tornò la sera di Natale, posando i piedi sulla banchina della stazione alle ventuno e quarantanove – maledetto treno che ritarda.
Nessuno sapeva del suo arrivo. Solo la zia, altrimenti come ci sarebbe arrivata a casa sua?
“Zia”.
“Tesoro mio”.
Un bacio sulla guancia congelata, un abbraccio freddo più delle panchine di fronte i binari. Sua zia indossava ancora il vestito natalizio – rosso, al ginocchio, scollo a cuore sul petto non più giovane – e Lei non poté che osservare che le stava davvero male; ma non lo commentò, ovviamente.
“Andiamo, la macchina è qui dietro”.
Le ruote del trolley che rollano sull’asfalto.
“Hai fame? A casa ho del panettone davvero ottimo e’ di oggi, un avanzo. Lo so, ma perdonami” – rise- “Sei mia nipote, tanto, non servono cerimonie”.
Un’altra risata, ma Lei non rise. E da qui cadde il silenzio. Ossessivo, asfissiante, cupo, grave, osceno. E poi Lei non aveva fame. Era solo stanca. Il treno, il viaggio, la solitudine. Stanca.
La mandata di chiavi rivelò un casa che aveva appena visto andare via gli invitati natalizi, di tutta fretta. Le pareti urlavano “Andate via, deve venire mia nipote da Napoli!. In cucina, la tavola era ancora apparecchiata, sopravvissuta a un pranzo abbondante e confuso. Gusci di arachidi, bucce di agrumi, ossa i pollo in un piatto, una larga macchia di vino sulla tovaglia rossa di stelle di Natale. Cinque posti – sua zia, il marito, suo cugino e chi? I suoceri, forse? Al centro del legno, poi, il citato panettone, privo di canditi e con una decorazione in pasta di zucchero sulla parte superiore. Babbo Natale era stato scolpito proprio malamente, ma Lei non disse nemmeno questo. Mancavano due fette; il dolce era quasi intatto, circondato da briciole gialline.
“Tuo zio e tuo cugino sono andati a una tombolata” spiegò la donna aprendo diversi cassetti alla ricerca di qualcosa. “Gliel’ho detto: “ora arriva Vittoria”, e loro niente! Sai, i maschi … “
Già, i maschi.
“Dai, li vedrai domattina, se fanno tardi”.
Ovvio. Ma Lei in fondo per il momento no li vuole manco vedere. Non vuole vedere nessuno solo una doccia e dopo un letto.
“Ti dispiace se vado a fare una doccia?”
Ebbe timore a pronunciare quelle parole. Non si sentiva accolta completamente. Eppure aveva chiesto una doccia, non un prestito di denaro.
“Tesoro! Ovvio che no! Vai”.
Lei fuggì in bagno, il trolley dietro. Si ricordava bene le misure monumentali della stanza, e in più sentì il bisogno di avere il suo unico bagaglio – il suo unico collegamento a casa, la casa che aveva scelto di portare con sé.
La doccia fu svelta, e non fece che peggiorare la sua stanchezza. L’acqua calda le piegava contro sempre una coperta di cemento invisibile. Necessitava solo dormire, ora.
Quando entrò in camera – buia, le persiane chiuse, una sola abat-jour accesa su un comodino sgombro – trovò sul piumone d’oca color ocra uno strappo di Scottex contenente la promessa fetta di dolce burroso natalizio. Sua zia le aveva dato addirittura l’onore di mangiare il mal riuscito Babbo Natale in zucchero. C’era un comò, poi, in un angolo bianco, e su di esso un’alta tazza fumante. Era tè, ma Lei si accorse della sua presenza troppo tardi. Doveva essere stato caldo, appena pochi minuti prima. Ora, tiepido, era strano da buttare giù; almeno per Lei. Lo lasciò lì, il bordo di ceramica immacolato, non contaminato dalle labbra. La fetta di panettone? Nemmeno morta. Lo stomaco le girava, nauseato ancora dall’odore acre del treno sporco. Spostò la cena sul comodino : se fosse entrata sua zia avrebbe capito che il tè e il dolce erano stati visti, considerati e lasciati integri per volontà.
Alzò il piumone, spense la lampadina, si coprì fin sotto il naso e chiuse gli occhi. Il cuscino odorava di caramello.
____
 
Per lui, invece, tornò a cinque anni dall’anniversario del loro primo incontro. Cinque anni più un giorno – la vide la mattinata di Santo Stefano, sul pianerottolo lucido. Lei, era tornata al luogo del loro inizio. Con un fine o no, ma era lì. Tornò con la sua aria che lui, anche il solo primo giorno, aveva trovato saccente. Due quindicenni divisi tra infanzia e mondo degli adulti, sballati tra ormoni, scuola e hobby che sicuramente sarebbero scomparsi, a lungo termine – e infatti. Lui se ne fregava delle ragazze, quando aveva quindici anni – troppi trucchi, troppi colori delicati, troppe risatine, troppo femmine –, mentre ora erano tutto ciò attorno cui ruotava la sua persona. Intercettarle, avvicinarsi, provarci spudoratamente e poi mollarle sul più bello. Era così facile, ma comunque così divertente.
Con Lei no. Aveva solo una vaga conoscenza del mondo in rosa quando Lei si presentò alla sua porta.
“Scusa, hai del sale?”
Che banalità.
“Serve a mia zia, tranquillo, non voglio importunarti”.
Saccente.
La fece entrare in casa – quella casa vuota e abitata dal Natale solo dalla data : venticinque dicembre, e basta. Era una sconosciuta, ma non si preoccupò che un’estranea mettesse piede nella sua abitazione. “Non far entrare in casa gli sconosciuti” era una regola, e lui le regole non le rispettava. Mai.
Lei se ne andò con la leggerezza femminile e pochi grammi di sale, e lui l’avrebbe vista solo l’anno successivo. Quella volta non venne a cercare il sale – non venne a cercare nulla –, semplicemente la scovò sul pianerottolo del palazzo, sola, intrufolata nel piumino invernale. Lei non lo vide, ma lui sì. Era sempre uguale – poté facilmente riconoscerla. Ma era lui, quello cambiato : ora le donne gli interessavano. Sedicenne a caccia di primi amori.
E poi diciassette anni, il suo spudorato provarci, approcciandosi con un “ehilà, bella maglia”. La maglia in realtà era oscena – meglio ciò che lo scollo di essa tentava di nascondere al caldo estivo. Lei non l’aveva fatto apposta : era femmina, era ragazza e si vestiva come le pareva; nonostante ciò era ben consapevole dei commenti che potevano giungere. E infatti.
“Fai schifo” gli rispose, senza alcun complimento. E andò via.
Andò via e si lasciò trovare solo tre volte, fino a quella mattina. Tre volte sufficienti a farlo innamorare della sua assenza – come un miraggio. Si innamorò – davvero – del suo essere vaga, saccente e fuggitiva.
Quando la rivide – la mattina gelida di Santo Stefano – non la trovò cambiata, ancora no. Meglio, cresciuta – diamine, avevano entrambi diciannove anni. Ma ciò per cui aveva perso la testa era ancora lì. I ricci neri che ricadevano morti sulla schiena arcuata; le ciglia morbide e folte come setole di spazzole; la punta del laso leggermente schiacciato su cui poggiavano gli occhiali dalla montatura quadrata – tirati su ogni tanto, dalla mano destra, nell’angolo in basso. Le labbra perennemente accese naturalmente – e quell’assenza di trucco su tutto il viso. L’abitudine di poggiare il peso – l’esile peso – su una gamba sola, sempre la destra. Il grattarsi lievemente il mento dalla curva gentile ogni qual volta iniziava una conversazione che, come lui aveva imparato, sarebbe andata a suo sfavore. L’abbassare gli occhi ogni volta che rideva ma era osservata, come per nascondere con le ciglia il sorriso – tanto perfetto.
Era tutto ancora lì, fermo e congelato nell’aria fredda. Lui l’amava – poco da fare – ma Lei non gli sarebbe mai appartenuta. Lei era sua e basta; sua di Lei. Era tornata, ma non per lui. Era tornata per se stessa, poteva scommetterci, lui. Per qualsiasi motivo, aveva fatto quel viaggio in treno per scopi propri e personali.
Lui la vide, Lei lo vide. Lui la salutò – un “ciao” per la prima volta timido –, lei non pronunciò parola. Non sorrise, non mormorò, non respirò quasi. Lo guardò – tre secondi cronometrati –, poi aprì il portone dell’appartamento della zia e vi ci scomparve. Fuggitiva. 

  
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