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Autore: IntoxicaVampire    25/01/2016    1 recensioni
«Ma... come fai?» gli chiesi, annebbiata da quel tepore. «Non fa male». Fissai il fuoco, che era basso e di un colore rosso intenso.
«Non ti farei mai del male, Rosalie».
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Alla Sky High, scuola per giovani aspiranti supereroi, Rosalie Frozehart, "Freeze Girl" con il potere del ghiaccio, è da sempre innamorata di Warren Peace, il ragazzo con il potere del fuoco. Ma Ghiaccio e Fuoco sono due Elementi opposti per natura, possono essi convivere senza distruggersi l'un l'altro? Il loro amore così contrastato potrà realizzarsi? Entrambi soffrono eppure è così difficile resistere a un amore reciproco così intenso...
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Warren Peace
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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17. Tutto ciò che volevi sapere (avrei dovuto spiegarmi prima)


Gli anni scorsi avevo sempre cercato le scuse più assurde per trovarmi nei suoi paraggi, adesso le cercavo per stargli il più distante possibile.

Mi vergognavo troppo di me stessa. Mi sentivo una perfetta idiota. Avrei voluto cadere in una buca e non uscirne mai più.

Lunedì non lo volli proprio vedere. Alla mattina arrivai a scuola all'ultimo minuto apposta, e in ricreazione rimasi in classe per studiare. Cosa che avrei dovuto fare comunque, se volevo arrivare preparata all'interrogazione di Francese. All'ora appena passata, la professoressa Delacroix ci aveva incredibilmente consegnato i compiti svolti il giovedì appena passato. Incredibilmente perché di solito ci metteva circa tre mesi per correggerli, sempre se non li perdeva (o se non moriva, con la salute precaria che si ritrovava, lmao). Ma quelli che avevamo fatto erano un ripasso sulla grammatica, quindi più veloci da controllare. Insomma nel compito alla fine avevo preso un sette. Neanche male, per i miei standard, ma quest'anno volevo impegnarmi di più. In fondo in letteratura andavo anche bene, ma facevo ancora troppi errori di distrazione. Chissà perché, pensai sarcastica.

Al cambio d'ora, Warren passò in corridoio proprio nel momento peggiore. Mi vide mentre sbattevo la testa contro il mio armadietto ripetendomi «Rosalie sei un'idiota, sei un'idiota, sei proprio un'idiota!». Lanciai un grido quando notai lui che mi fissava esterrefatto, e fuggii alla velocità della luce prima che potesse dirmi qualcosa. Che figura di merda. Peggio di così non poteva andare.

Alla sera ricominciarono le lezioni di Hip Hop, come mi aveva per fortuna ricordato Scarlett, e almeno avevo una scusa per distogliere la mente dai miei problemi e concentrarmi sulle coreografie.

Martedì mi andò di culo, perché la professoressa di Filosofia portò tutta la mia classe a una conferenza, "gita" che occupò tutta la giornata, così non dovetti neanche cercare di nascondermi da Warren perché non lo vidi proprio. In corriera con noi vennero anche la quarta e la quinta scientifico, e la quinta linguistico. A quanto pareva, si trattava di una conferenza davvero importante, che come argomento trattava i diritti e i doveri dei Super nei confronti delle persone comuni, o, con termine più corretto, i Sapiens. Noi "Super", o mutanti, se vogliamo usare un termine che molti di noi (compresa me) ritenevano vicino al dispregiativo, appartenevamo alla specie Homo Sapiens Superior, evoluzione dell'Homo Sapiens Sapiens, ovvero i comuni mortali. Era un argomento delicato per noi: di solito cercavamo di evitare i Sapiens, dai quali come ho già accennato eravamo ancora non del tutto ben visti, a meno che non ne fossimo strettamente obbligati, come ad esempio nei luoghi o nei mezzi pubblici.

Ci avevano portato a quella conferenza perché, come ci spiegò la nostra professoressa, sarebbero stati tutti argomenti di cui avremmo parlato più avanti in classe, e che attualmente erano anche ciò su cui stava discutendo la politica.

Ero abbastanza interessata: il tema mi stava particolarmente a cuore, e avevo sempre voluto approfondirlo di più. All'incontro partecipavano molti personaggi illustri, tutti seduti su un lungo bancone con i microfoni. Pensate che, via Skype, intervenne perfino il Professor Charles Xavier. Dopotutto, era un luminare sulla materia.

C'erano molti adulti che vi partecipavano e anche studenti da scuole degli altri Stati. Un cameraman riprendeva tutto l'evento, dato che era in streaming per coloro che non avevano potuto essere lì presenti.

«Guardate» disse divertita la mia compagna di classe seduta vicino a me «abbiamo Jared Leto come cameraman».

Noi ragazze ci girammo a guardare e in effetti aveva la barba e i capelli lunghi e mossi proprio come Jared Leto. Ridemmo sottovoce.

Mi piacque ritrovare quell'alleanza tra ragazze con le mie compagne. Gli anni precedenti ero sempre stata tanto col loro, anche durante i cambi d'ora e in svariate ricreazioni, ma quest'anno era cominciato in modo decisamente diverso. Già dal primo giorno avevo speso la maggior parte del mio tempo con Warren. E adesso avevo rovinato tutto.

Mercoledì mi andò un po' meno bene: avevo la lezione di Tedesco con il professore di madrelingua, alla terza ora, la quale si svolgeva con la classe di Warren. Funzionava così: per queste lezioni di conversazione, sia per Francese che per Tedesco alla mia classe se ne univa un'altra, rispettivamente la terza linguistico (dove c'era Britney) e la quinta Itis, con Warren e Joe. Questo per poterci migliorare tutti nel parlato, il che era veramente una buona opportunità. Le prime due settimane di scuola erano state un casino, non ce n'era una di regolare (tipo che mi ero trovata con Warren ma Joe, Ashley e Scarlett erano a un'altra lezione) perché, sebbene le classi fossero divise in indirizzi, ognuno aveva anche un orario personale. Quindi non sempre mi ritrovavo a frequentare le lezioni con tutte le mie compagne del liceo linguistico. Eravamo tutte quante solo nelle lezioni pertinenti al corso, come Letteratura (Inglese, Tedesca e Francese), Filosofia e Storia. Altre materie come Scienza Pazza o Educazione Fisica erano comuni a tutti i corsi, quindi venivamo smistati singolarmente, e noi di quarta ci trovavamo quasi sempre con studenti di quinta perché i programmi delle lezioni erano a rotazione biennale. Ebbene, le prime due settimane questo smistamento era stato fatto in modo un po' casuale, ma adesso sembrava essersi regolarizzato.

Insomma, a quest'ora di Tedesco con il lettore dovevamo dividerci in coppie, e io fui svelta a girarmi a chiedere di stare in coppia con me al primo ragazzo che trovai. Non lo conoscevo nemmeno, ma non volevo rischiare di ritrovarmi con Warren. Sarebbe stato super imbarazzante e di sicuro non volevo discutere durante quell'ora di lezione. Ashley venne in nostro soccorso e si mise lei in coppia con Warren: aveva capito che io non volevo, e sapevamo entrambe che praticamente tutte le nostre compagne di classe avevano troppa paura di lui anche solo per parlargli. Warren, svogliato, accettò la proposta di Ash e iniziarono a tradurre in tedesco il dialogo che ci era stato assegnato. Io mi girai verso il mio compagno e feci lo stesso.

Comunque dovetti essere grata a Warren, perché era tutto fuorché insistente. Mi era già capitato anni prima di ricevere qualche dichiarazione da parte di spasimanti e io, non sapendo cosa fare, avevo dato un "no" sbrigativo ed ero fuggita. Ottenendo il solo risultato di vedermi questi tizi insistere come non mai i giorni seguenti, e non sapere più come fare a sbarazzarmene.

Se Warren stavolta, anziché lasciarmi i miei spazi per riflettere (e per odiare me stessa, ma tralasciamo) fosse stato insistente con me, tipo aspettandomi fuori dall'aula o rincorrendomi in corridoio per volermi parlare a tutti i costi, credo che mi avrebbe dato parecchio fastidio.

Forse aveva capito che ero pentita e che non avevo davvero voluto agire in quel modo orribile, e che avevo bisogno di rimuginarci sopra per giungere a una decisione.

 

Però non volevo che la settimana finisse così.

Cioè, non volevo lasciarlo con questo dubbio per tutto il weekend. Sarebbe stato crudele, e io ero tutto fuorché sadica.

Giovedì e venerdì non furono diversi: cercai di evitarlo il più possibile, e durante le lezioni non mi sedetti mai vicino a lui.

In realtà volevo tutto tranne che comportarmi così: chissà quanto lo stavo facendo soffrire. Ciò che avrei voluto davvero fare era andare da lui e parlargli, ma non sapevo da che parte cominciare. Non sapevo come rimediare, perché non avevo la minima idea di cosa avrei potuto dirgli. Non avevo scuse per quello che avevo fatto.

Però lui mi precedette.

Passai le lezioni del sabato mattina a raccogliere pian piano tutto il coraggio che avevo, e anziché prendere appunti scrissi un ipotetico discorso che avrei potuto fargli.

In mensa mi sedetti al tavolo con Ashley, Scarlett e Joe, standomene in silenzio, preparandomi mentalmente alla "missione" che mi attendeva non appena avessi finito di mangiare. Era strano, a me non mancava mai l'appetito, ma oggi fissavo il vassoio del pranzo senza alcuna fame. Ero troppo agitata.

Quando ad un tratto sbucò fuori Warren dal nulla e si sedette al tavolo proprio di fronte a me. Lo fissai allibita.

«Non mangi niente?» gli chiese Joe, notando l'assenza di un vassoio del pranzo del suo amico.

«Ho già finito» rispose Warren. Aveva mangiato alla velocità della luce per poter venire lì da me?!

«Rosalie.» disse, con tono risoluto. Dovetti per forza fissarlo negli occhi. Deglutii. «Guarda che io non ce l'ho con te» mi rassicurò, più garbato. «Ho capito sai che ti senti in colpa.»

Istintivamente mi portai le dita davanti alla bocca: primo perché rimanevo sempre allibita da quanto facile fosse capirmi, secondo perché non sapevo come rispondergli.

Lui sospirò e mi guardò per un po'. «Guarda che non me ne vado da qui finché non ti decidi a rivolgermi la parola.»

I miei amici stavano in un silenzio assoluto, anzi avevano anche smesso di mangiare per ascoltare la nostra conversazione, ma in quel momento non mi preoccupavano loro. Mi preoccupava di più Warren.

«Sono una stupida» dissi con voce flebile, per l'ennesima volta quella settimana.

«Sì, lo sei eccome» confermò Warren, duro. Sembrava quasi arrabbiato. «Ma lo sei non per come la pensi tu, ma perché non hai capito un cazzo!»

Indietreggiai, aveva detto quella frase con tono molto severo, se non violento. Mi sembrò di venire investita dalle sue parole.

Lui si sporse in avanti per avvicinarsi di più a me, deciso a non demordere. «Voglio farti una proposta: vieni a cena fuori con me stasera e chiariamo tutto.»

Mi cadde la mascella. Sentii anche i miei amici fare dei versi di sorpresa. Warren però non si lasciò intimidire e continuò a guardarmi negli occhi determinato.

Non sapevo come fare a divincolarmi da quella situazione scomoda. Poi però mi tornò in mente che quella sera avevo già un impegno con Ashley: facevano la serata anni '90 nel locale dove avrebbe suonato lei, e mi aveva invitata procurandomi un'entrata gratuita, sapendo che amavo quella musica.

Rivolsi uno sguardo ad Ashley, che subito capì le mie intenzioni e iniziò a scuotere la testa lentamente ancora prima che io parlassi. «L'hanno annullata.»

«Cosa?» chiesi io, un po' interdetta.

«L'evento di stasera. L'hanno annullato. Non possiamo più uscire assieme.»

Dallo sguardo severo che mi rivolse fui sicura che ciò che aveva appena detto se lo fosse inventata al momento, e io non potei far niente per controbattere. La sua occhiata truce non lasciava via di scampo.

Allora provai a rivolgermi a Joe e Scarlett, sperando che almeno loro mi venissero incontro, ma iniziarono a inventarsi scuse assurde ancora prima che parlassi. Joe disse che doveva andare dal dentista e Scarlett disse che doveva fare i compiti.

«Al sabato sera?» le chiesi io, alzando un sopracciglio.

«Sì, al sabato sera.» rispose lei con un'occhiataccia.

Emisi un gemito. Non mi rimaneva nessunissima alternativa.

Sbirciai verso Warren, che ora aveva un insolente sorrisetto di vittoria stampato in faccia.

Sospirai. «No, va bene. Hai ragione: ti devo delle spiegazioni. Allora, qual è la tua proposta?» Ormai mi ero rassegnata.

«Che ne dici se andiamo al ristorante?»

Lo guardai un po' confusa. «Al ristorante?»

Il suo sorriso si addolcì. «Sì, beh, a mangiare una pizza... Se non è un take away ma una pizzeria, lo considero come ristorante».

Sorrisi divertita. Anch'io la pensavo sempre così.

Warren notò che la mia espressione si era rilassata e ridacchiò. «Sei troppo paranoica. Ti preoccupi troppo per niente.»

Sorrisi di nuovo, perché era uno dei miei più grandi difetti, e Warren aveva notato pure questo.

«Adesso mangia qualcosa.» mi ordinò. Eseguii gli ordini, anche perché adesso mi era venuta fame per davvero.

Il pomeriggio lo trascorremmo in aula assieme, ma senza parlarci; ne approfittammo per prenderci avanti con lo studio. Era un peccato che la sala comune (anche chiamata "caffetteria") non fosse ancora stata riaperta; era in ristrutturazione dalla fine dell'anno scorso. Era una grande sala riservata agli studenti del corso Eroi (ce n'era anche una per le Spalle), piena di tavoli e sedie e perfino un piccolo bar, dove noi studenti potevamo stare in ricreazione, nelle ore buca o al sabato pomeriggio che non avevamo lezioni. Per il momento dovevamo accontentarci di rimanere nelle aule ed organizzarci lì con le nostre cose.

Comunque io e Warren, seduti sul pavimento della mia aula con attorno libri, astucci e foglietti vari, ci rivolgemmo qualche occhiata fugace e qualche sorriso, ma nient'altro. Avremmo serbato le parole per quella sera.

 

Appena tornata a casa da scuola, alle quattro di pomeriggio, mi fiondai subito in bagno per andare a prepararmi. I miei erano usciti, per fortuna, perché non avevo proprio tempo di star là a raccontare del perché ero così agitata. Finita la doccia corsi in camera ancora gocciolante con l'accappatoio addosso e un asciugamano arrotolato sui capelli come turbante. Di solito sceglievo il giorno prima l'abbigliamento adatto all'evento a cui dovevo andare, ma stavolta avevo ricevuto l'invito all'ultimo minuto, quindi andai un po' in crisi perché non avevo la più pallida idea di cosa indossare. Warren mi aveva scritto per messaggio che lui si metteva una maglietta e dei jeans, più "elegante" del solito ma neanche da ristornate vero e proprio. Era divertente perché nel messaggio aveva aggiunto come post-scriptum: "Non serve che mi rispondi. E non elucubrare su cosa metterti. Saremo solo io e te.". Che io avevo interpretato come "ti ho già vista in mutande, puoi indossare anche una tenda se vuoi, tanto per me non fa differenza". E invece no, io volevo stupirlo.

Con questa decisione in testa, non mi fu difficile individuare il capo giusto nell'armadio. Faceva ancora caldo di fuori, quindi l'abbigliamento che avevo in mente non sarebbe stato fuori posto. Indossai un vestitino rosso a pois bianchi stile anni '50, un paio di pumps rosse laccate col tacco 12, una collana con un ciondolo a cuore e degli orecchini argentati pendenti. Mi raccolsi i capelli in una coda alta fermandola con un fiocco della stessa fantasia del vestito, lasciando liberi dei ciuffi ai lati del viso. Mi misi l'eyeliner, il mascara e il rossetto rosso. E anche una leggera spolverata di fard sulle guance. Ero proprio curiosa di vedere se il mio outfit in stile pin-up gli sarebbe piaciuto.

Warren, puntualissimo, mi venne a prendere alle otto meno cinque. Mi aspettavo di trovarlo di nuovo in moto, invece come aprii la porta mi ritrovai, parcheggiata davanti a casa mia, una decapottabile rossa fiammante, lucidissima. E questa da dove salta fuori?!, pensai, sorpresa.

«Andiamo in macchina, Rose» mi disse lui, ancora prima di pronunciare un "Ciao". Però mi rivolse uno sguardo che faceva capire che il mio abbigliamento gli piaceva.

«Wow, che figo» sorrisi io, avvicinandomi alla portiera del passeggero.

Lui mi fermò, mi prese la mano e mi attirò a sé, facendomela appoggiare sul suo petto, poi mise le sue braccia intorno alla mia vita.

«Ehi, ciao». Oh, che voce. Così calda e terribilmente sexy. Aveva uno sguardo soddisfatto.

«Ciao» gli risposi io, stringendo il bavero della sua camicia. Doveva aver cambiato idea: non si era messo una t-shirt, ma una camicia nera aderente, con le maniche arrotolate fino al gomito, che facevano vedere le forme precise che creavano le vene sui suoi avambracci, e i tatuaggi a fiamma sui suoi polsi. Era un po' sbottonata davanti, e lasciava intravedere i suoi pettorali perfetti. Notai che non indossava i guanti in pelle. Anzi, ora che ci pensavo meglio nemmeno domenica a casa mia li aveva, ma quel giorno ero stata troppo ubriaca per rendermene conto.

Warren mi accarezzò i capelli, io lo guardai negli occhi.

«Che bella macchina» dissi, fra le nuvole.

«Grazie. È una Porsche Carrera».

«A-ha» feci io disorientata. Di sicuro non avevo perso la mia immortale voglia di scherzare. E, tra l'altro, di auto io ne sapevo meno di zero. «Guarda, per me le macchine sono tutte uguali, non ne so proprio niente. Se mi chiedi "Che macchina è quella?" io ti dico "Grigia", quindi...» Alzai le spalle, divertita.

Ridemmo.

«Dai, sali». Mi accompagnò fino alla portiera del passeggero con una mano sulla mia schiena. Era così rassicurante...

 

Il tavolo che ci avevano riservato era perfetto. Ci sedemmo e gli rivolsi un gran sorriso. Dopo che il cameriere se ne fu andato con le nostre ordinazioni, Warren domandò: «Ti piace il posto?»

«È perfetto». A dire il vero, non mi interessava affatto in che luogo eravamo, potevamo anche essere nei cartoni della pasta Barilla come i barboni. Mi bastava solo sentire la sua presenza.

Mi prese la mano senza preavviso, sopra il tavolo. «Rosalie», cominciò. Sapevo che quello che stava per dirmi gli stava molto a cuore, e che se lo teneva dentro da un po'. «Tu lo sai di essere davvero importante per me».

Me lo disse come se fosse la cosa più naturale del mondo. A dire il vero me l'aveva fatto capire più volte, ma mi prendeva sempre in contropiede e io ci rimanevo esterrefatta. Ma quello non era il momento di rimanere a fissarlo con la bocca aperta come un pesce lesso.

«Per me è la stessa cosa con te» mormorai.

Non sorrise. Non si arrabbiò. Non fece assolutamente niente. Tanto lo sapeva già, pensai. Semplicemente fece una pausa, analizzando il mio sguardo, poi riprese. «Non riesco a stare senza di te. Ogni momento, ogni istante che ti sono vicino, beh, sono il ragazzo più felice della Terra. Tu sei il tesoro più prezioso, e vorrei poter dire "il mio". Non mi vergogno di dirtelo, non mi vergogno per niente di palesarti ciò che provo; non ce n'è motivo. Però sono confuso, sai. Non ti capisco: prima confermi le mie speranze dicendo di ricambiare i miei sentimenti, poi invece scappi o se cerco di avvicinarmi di più a te, di avere un contatto, ti giri e ti rifiuti. Ma mi cerchi. Eh sì, si vede» rispose al mio allarmarmi improvviso «Ma non c'è niente di male. Io vedo che anche tu stai bene insieme a me... e quindi vorrei una spiegazione. Ti prego. Questa cosa mi fa impazzire. Mi piacerebbe sapere perché "no".»

Arrivò il cameriere: aspettammo che finisse di disporre le nostre bibite sopra il tavolo e, quando se ne andò, mi rassegnai.

Non lo avevo mai sentito parlare così tanto. Warren era un ragazzo di poche parole, diceva solo quello che serviva, scegliendo le parole con cura per arrivare dritto al punto senza tanti arzigogoli intorno. Quel discorso doveva esserselo preparato. No, forse no, mi sa che ero io l'unica che si preparava i discorsi, incapace com'ero di articolare i miei pensieri in frasi sensate senza doverci prima riflettere.

Ora toccava a me parlare. Selezionai attentamente le parole, cosa che di sicuro non ero solita fare. «Warren... Io davvero sono in guerra con me stessa. Vorrei... ma non vorrei. Non fraintendermi», lo bloccai quando aprì la bocca per protestare «Comunque di me hai capito tutto. Sei quasi più bravo di Scarlett. Cos'è? Capacità d'osservazione? Beh, è quella che manca a me. Sai, io mi concentro quasi solo su me stessa, mio grande difetto, quindi non so se andrebbe bene. Capisci cosa voglio dire? Io vorrei, davvero tantissimo, stare insieme a te, ma per questo mio enorme egocentrismo ho paura di rovinare tutto. Con le amicizie me la cavo piuttosto bene, a mantenerle, ma con la nostra non vorrei far saltare tutto in aria. Intendo, metti che ci mettiamo assieme... poi io la prendo come una cosa "sicura" -del tipo, "tanto lui c'è sempre"- e tanti saluti a tutto quello che abbiamo costruito.» Gli strinsi di più le dita, sperando di non averlo fatto arrabbiare.

Lui sospirò e disse: «Quindi non ho nessuna speranza, con te?».

Mi affrettai: «No, no! Non volevo dire questo! Magari... ecco, solo... aspettare un po'. Prima di metterci insieme vorrei conoscerti meglio, capire chi sei esattamente, e vedere come me la cavo io». Sorrisi. Mi sentii in dovere di aggiungere: «E anche perché, sai, con i ragazzi ho ricevuto tante delusioni. Stavano con me solo perché ero carina, e diciamo che questa non è esattamente una bella cosa. Voglio essere sicura di te, che tu non mi lasci.»

Lui ora era molto sollevato. «Non lo farò, te lo prometto».

In quel preciso instante, come Warren aveva appena finito di pronunciare l'ultima sillaba, arrivarono le nostre pizze e, dopo aver riso sentendo i nostri stomaci brontolare, iniziammo a mangiare.

«Buon appetito a lei, Miss Vanity».

«Altrettanto, grazie, Lord of the Nicknames».

Ridemmo.

Chiesi alla cameriera se gentilmente mi portava l'origano. Warren chiese il peperoncino. Quando ce li portò, rimasi esterrefatta a vedere che Warren ce ne mise mezzo tubetto sopra la sua pizza. Non sapevo cosa dire. A me anche un solo granello faceva andare a fuoco la bocca. Poi però ci riflettei bene: in effetti, il fuoco aveva una grande affinità col peperoncino, no? Quindi la cosa, probabilmente, era abbastanza ovvia. Però non sapevo che Warren lo amasse così tanto. Beh, una scoperta in più!

Alla fine della cena lui voleva pagare anche per me, da vero gentleman, ma io insistetti per pagare almeno la mia parte, per scusarmi di tutte le pene che gli avevo fatto soffrire quella settimana. Lui sorrise e accettò, ma disse che la sua parte l'avrebbe pagata lui.

Andammo di fuori e ci sedemmo ad un tavolino, a prendere un po' d'aria fresca. Lui mi fece sedere sulle sue ginocchia e io accettai di buon grado. In fondo ormai avevamo chiarito.

Entrambi eravamo in vena di scherzare.

Warren mi disse, prendendomi per la vita: «Che sexy che sei stasera», con voce calda e affamata.

Ridacchiai e con fare sensuale gli risposi: «Apposta per te.»

Lui mi avvertì, facendo il cretino: «Guarda che ti stupro.»

Ci pensai su qualche secondo. «Mi sa che non mi dispiacerebbe così tanto».

Warren sorrise. «Ma io sono un bravo ragazzo.»

Oh beh, questa poi!!! «Pfffff ceeeerto, come no!» gli dissi io, ridendo.

«Dai che è vero.» Lui si avvicinò a me e mi leccò una guancia.

Lo guardai sconvolta tipo "Oh...!". «Ma sei un porcello!» Risi. «Mangiami» dissi, sempre scherzando.

Warren si portò le mani sullo stomaco. «No, non mi sta più niente, devo ancora digerire la pizza».

Frugai nella mia borsetta e vi estrassi una scatolina. «Tieni, prendi un po' di magnesia».

Quando Warren realizzò di cosa si trattava, terrorizzato disse: «Ma quelle sono le tue mentine congelanti!»

Ridacchiai. «Ti fanno ancora paura?»

Warren annuì, rassegnato. «Mi sa che durerà in eterno». E ne mangiò una, rabbrividendo, esagerando apposta.

Stavo ridendo come una matta, quasi cadendo dalle sue ginocchia. Lui cercò di fare un commento serio. «No dai, sul serio sei sexy».

«Speravo che ti piacesse» confessai, con un sorriso. «Non avevo mai provato questo stile.»

Warren, senza dire una parola, si avvicinò al mio viso, appoggiò la sua guancia contro la mia, e mi morse piano il lobo dell'orecchio.

Mi sfuggì un piccolo gemito. Non me lo sarei mai aspettata.

«Non sai quanto mi è difficile resistere, in questo momento» disse, con voce bassa e quasi roca.

Sotto di me lo sentii molto bene, quanto era affamato.

E dentro di me mi sentii quasi esplodere.

No, no, non potevo. Altrimenti tutto il discorso che gli avevo fatto prima, e che avevo preparato con così tanta cura, non sarebbe servito a niente.

«Warren» dissi, con voce ferma. «Balliamo.»

Mi alzai in piedi, sfuggendo alla sua presa, e lo feci alzare afferrandolo per le mani. Anche lì fuori si sentiva la musica della radio, e in quel momento passò "Roses" dei Chainsmokers. Era uno dei miei brani preferiti, ultimamente ne ero ossessionata. Avrei tanto voluto ballarla con lui. Warren mi rivolse un sorriso, sembrava grato che l'avessi distratto, e mi appoggiò una mano sul fianco mentre io gliene mettevo una al collo, in posizione da ballo. In quel momento quella musica ipnotizzante mi fece immaginare una fuga d'amore con Warren. Io e lui da soli che fuggivamo da tutto e da tutti per andarci a nascondere in un luogo segreto dove avremmo potuto allontanare tutti i problemi e le preoccupazioni e lasciarci andare ai nostri istinti.

"Deep in my bones I can feel you, take me back to a time only we knew, hideaway" diceva la canzone.

Che in quel momento stava creando in me sempre più un sentimento di voglia verso di lui, di sentirlo unito a me.

«Say you'll never let me go...» intonai, sottovoce, assieme alla canzone.

Mi avvicinai a lui sempre di più man mano che la musica proseguiva, fin che mi ritrovai con il viso appoggiato al suo petto, stretta fra le sue braccia. Ormai stavamo dondolando, più che ballando.

Alzai un po' gli occhi, a incrociare il suo sguardo, e venne da sorridere a entrambi. Ci eravamo capiti senza neanche aprire bocca.

«Ti voglio bene» gli dissi, spontanea.

«Ti voglio bene anch'io» rispose lui.

Con i tacchi guadagnavo un notevole vantaggio in altezza, ma ero comunque più bassa di lui, quindi lo afferrai per la camicia perché si abbassasse. Portai il suo viso vicino al mio e gli diedi un bacio sulla guancia.

La sua mano sul mio fianco divenne ancora più calda, ma Warren mi rivolse un sorriso dolce. Gli appoggiai il palmo della mia mano sul viso e, guardandolo negli occhi, gli sorrisi anch'io.

Non aggiungemmo altro e, mano nella mano, ci avviammo verso la sua auto.

Davanti alla porta di casa mia, Warren mi diede un dolce bacio sulla guancia prima di salutarmi, proprio come avevo fatto io con lui, e sussurrò al mio orecchio: «Visto che non era così terribile?», riferito allo stare insieme io e lui. Io sorrisi e annuii, ancora intontita dal calore che le sue labbra avevano lasciato sulla mia pelle. Poi mi diede la buona notte e se ne andò, dicendomi che non vedeva l'ora di rivedermi l'indomani a scuola.

 

Feci un gran casino raccontando la serata alle mie due migliori amiche, che troppo curiose non avevano resistito e mi avevano invitata a una chiamata di gruppo su Skype la mattina dopo, ma quando Ashley mi chiese «E allora com'è?», riferendosi a Warren, trovai le parole perfette. «È uno che sa quello che vuole». Meglio di così non lo si poteva descrivere.

Scarlett concordò. Poi aggiunse: «Te lo dico io cosa c'è: gli hai asportato il cuore».

Ridacchiai divertita. «Accidenti, detta così è proprio brutta. È tanto grave?»

Ska cercò di fare un mezzo sorriso, ma sapevo che voleva dirmi qualcosa. Infatti, si avvicinò di più alla webcam e mi rimproverò senza preavviso.

«Ma dai Rose! Lui è sempre così carino con te! Diventa un angelo! Come fai a non essere sicura di voler stare insieme a lui?!?»

Era sconvolta. Scandalizzata. Schifata. E forse anche arrabbiata con me.

Ashley la appoggiò. «Ska ha ragione. Se io fossi nei panni di Warren, a questo punto credo che non ti sopporterei più.» Evviva Ashley e la sua schiettezza con le parole.

Cercai di spiegare il mio punto di vista, anche a me stessa. «Ma non è questo. È solo che ho paura che poi magari roviniamo la nostra amicizia... magari poi lui non vuole impegnarsi...»

Scarlett continuava a fissarmi truce, e Ashley si batté perfino una mano in fronte, esasperata.

Sbuffai. «Vabbè oh, sentite. Vediamo come si impianta 'sto affare e poi si vedrà» conclusi, poi uscii dalla conversazione prima che le mie amiche mi dicessero su un sacco di parole.

  
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