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Autore: aturiel    25/01/2016    0 recensioni
[Racconti di Mezzanotte]
dal testo "Ed eccolo lì, Gil: il capo chino sulla sua spalla, le braccia deboli, gli occhi aperti contro il suo maglione, le gambe che cedevano e nessuna memoria del motivo per cui si fosse sentito così arrabbiato. Un attimo prima era tranquillo, quello dopo gli era parso di scoppiare. Aveva quindi dovuto esternare ciò che era di troppo nel suo animo e ridurlo a brandelli, strappandolo e gettandolo via come fosse un foglio di carta. L'unica cosa che lo manteneva in piedi erano le braccia accoglienti di Alan che, premuroso, di nascosto allontanava con la punta delle scarpe le schegge da vicino i suoi piedi."
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Terza Classificata al contest "The Path of Your Pack" indetto da BlackIceCrystal sul forum di EFP.
Partecipa al contest "A mille ce n'è... di slash da narrar!" indetto da Sango_79 sul forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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When the day has come
But I've lost my way around
And the seasons stop and hide beneath the ground
When the sky turns gray
And everything is screaming
I will reach inside
Just to find my heart is beating.”

Alan si svegliò, per una volta non di soprassalto ma per il peso di un corpo eccessivamente leggero sul ventre. Girò il volto e incrociò l'immagine del viso addormentato di Gilbert: i suoi capelli crespi pungevano la sua pelle nuda, le labbra socchiuse pareva la stessero baciando delicatamente.
Era strano e quasi imbarazzante per lui trovarsi nudo accanto a quello che per dieci anni era stato un amico – un fratello! –, ma in fondo nulla era cambiato: il loro rapporto si era semplicemente evoluto. Erano come quelle falene che, per poter sopravvivere al veleno dell'aria e al colore nero che spargeva nel loro mondo, erano diventate nere loro stesse.
Si erano visti nudi da ragazzini al mare, nella doccia al mattino, negli spogliatoi ogni settimana, cosa c'era di diverso nel piegare, contrarre, rilassare, arcuare i propri corpi?
Conoscevano bene l'odore della loro pelle sudata, cambiava tanto averne imparato anche il sapore?
Eppure ora tutto era avvolto da una strana atmosfera, e avere il viso di Gilbert così vicino al ventre lo preoccupava, quasi avesse paura che l'altro potesse improvvisamente destarsi e, con un sorriso dolce, affondare i denti nella sua carne per divorarlo.

Fu un leggero morso all'orecchio a svegliare Alan, quel mattino.
«Buongiorno».
Gilbert non gli rispose, ma sorrise e si diresse, ancora completamente nudo, verso la doccia. Alan avrebbe voluto seguirlo, vedere come l'altro avrebbe reagito, ma non lo fece e invece restò ancora un poco nel letto, godendosi il calore che le coperte gli donavano.
Sentiva uno strano batticuore, un tepore dolce e delicato gli attraversava le membra ancora un po' intorpidite dal sonno. Era questo ciò che si provava dopo aver passato la notte con una persona cara? Una persona che... si amava?
Alan rise fra sé e sé: no, non amava Gilbert, per nulla. Ne aveva paura, lo infastidiva, non lo capiva e n'era attratto. Però era felice, almeno per quel momento, e forse lo sarebbe stato per altro tempo ancora.
Ad un tratto Alan sentì provenire dal bagno la voce di Gilbert. Inizialmente pensò che lo stesse chiamando, ma dopo un po' si accorse che non era affatto così. Si alzò a sedere, non curandosi del freddo che iniziava a pungere la sua pelle, improvvisamente scoperta. Ed eccola, la sua voce: a tratti roca e profonda, a tratti quasi stonata, in alcuni momenti come uno strillo, in altri dolce e delicata come quella di un bambino. Voce eclettica e indefinibile, voce che graffiava le orecchie dell'ascoltatore e la gola del cantante, una voce che Alan non sentiva in quella veste da più di un anno e mezzo.
Si alzò di scatto e corse verso il bagno. Gilbert era con il collo piegato all'indietro per sciacquarsi i capelli, la bocca era socchiusa per cantare, ma si chiuse quando Alan entrò nella doccia senza preavviso e schiacciò il corpo bagnato del ragazzo contro le mattonelle. Lo baciò.
«Gil» sussurrò con voce roca, a qualche millimetro dalle sue labbra.
L'altro sorrise e colmò la distanza fra loro, attirandolo a sé con le sue dita affusolate.
Sono forse in Paradiso?

Entrambi avevano ricevuto solo una nota disciplinare; in fondo non era andata neppure così male.
Alan era seduto in classe, ma il suo compagno di banco non c'era: Gilbert, a causa di quella sua uscita da perfetto malato mentale, quella mattina si era beccato una seduta obbligatoria dallo psicologo, e Alan non riusciva proprio a non ridere, al pensiero. Sapeva che l'amico si sarebbe inventato una storia pazzesca per sfuggire all'analisi mentale, e sapeva anche che l'avrebbe fatto così bene che il povero individuo che si era trovato ad essere il suo psicologo non se ne sarebbe nemmeno accorto. D'altronde Gilbert aveva un viso così inespressivo che era impossibile capire quando mentiva.
E poi non aveva bisogno di uno psicologo: insomma, si stava riprendendo, giusto? Aveva ricominciato a cantare, erano quasi due settimane che non aveva i suoi attacchi, e le sue occhiaie non erano più tanto nere. Stava andando tutto bene, loro stavano andando bene: parlavano come prima, ridevano più di prima e, rispetto a prima, facevano del salutare e piacevolissimo sesso. Alan era forse ancora più attratto da Gil, e ormai non riusciva più ad addormentarsi se non aveva la sua testa bionda e spettinata appoggiata da qualche parte sul suo corpo. La sua bocca si stava trasformando, come in un cliché romantico, in dolce droga, e lo stesso discorso valeva per le sue dita lunghe e un po' troppo magre – come tutto di lui, d'altronde. Che stesse cadendo rovinosamente nel vortice dell'amore adolescenziale? Anche questo, al solo pensiero, lo faceva ridacchiare: fra tutti proprio un ragazzo fuori di testa, con problemi nella gestione della rabbia, dai sentimenti confusi e dai pensieri violenti e autodistruttivi doveva beccarsi, vero?
Ma d'altronde si trattava di Gilbert, non di uno qualsiasi. Poteva farcela, o almeno sperava di farcela.
Potevano riuscirci, ad essere felici. Anche solo un po'.

Una risata roca e soffocata proruppe fra le labbra di Gilbert.
«Ma sul serio le hai detto così?» chiese di nuovo Alan, con la mascella spalancata.
«Sì» rispose sorridendo, come se non avesse davvero avuto l'idea peggiore e più allucinante del secolo. Sì, perché Gilbert era davvero riuscito a dire alla sua nuova psicologa che la risposta che aveva dato all'insegnante era stata tutta un trucco, una scusa per permettere a lui e ad Alan di svignarsela e andare a fare “porcherie” → così diceva di averle confessato – nel bagno, indisturbati.
«Tanto deve mantenere il segreto professionale» sorrise di nuovo Gilbert, tentando, senza nemmeno impegnarsi troppo, di rassicurarlo. «Avresti dovuto esserci. Ci saremmo divertiti, ne sono sicuro» aggiunse poi, con il solito sguardo da bambino che ha appena trovato il suo nuovo passatempo preferito.
«Lo sai vero che lo avrà detto ai professori cinque minuti dopo che sei uscito dal suo studio?» sussurrò Alan che ancora non riusciva a credere che il suo migliore amico, che aveva sempre reputato un genio, fosse in realtà così stupido.
«No invece» esclamò, raggiante «perché poi le ho detto che mi sentivo sporco e in colpa. Cioè, non è questo che dicono i ragazzini che hanno problemi con la loro sessualità? Ora passerò come un povero gay emarginato con poca autostima e altrettante poche certezze che non riesce ad accettare ciò che è. Ma questo grazioso ragazzo gay ha riposto la sua fiducia nella sua psicologa».
Alan sospirò, un po' per il sollievo, un po' per la rassegnazione.
Forse non è del tutto stupido. Solo un po'.
«E quale sarà la prossima mossa?» domandò quindi, con malcelata curiosità.
Gilbert si voltò nella sua direzione, guardandolo con aria innocente e sorniona, come quella di un gatto. «Descriverle nei minimi dettagli ciò che faremo fra circa due minuti».
Alan alzò un sopracciglio, non capendo: «Ovvero?»
Non ci fu bisogno di nessuna risposta, perché le labbra morbide di Gilbert si erano già attaccate alla pelle del collo scoperto di Alan e ora, piano, la stavano succhiando e mordendo con tutte le intenzioni di farvi nascere un bel livido violaceo. Nel frattempo le mani correvano alla cintura.

 
****
 
Il temporale non aveva intenzione di smettere. La pioggia cadeva da ore, da ore si andava a infrangere sui vetri dell'unica finestra della loro camera, e da ore produceva un ticchettio insopportabile ed esasperante che lo stava mandando fuori di testa.
Gilbert era sdraiato accanto a lui, eppure lo sentiva distante come non mai. I suoi occhi, infatti, erano concentrati sul bagliore sinistro e attraente della lama di un coltellino svizzero che aveva trovato per caso, e le sue dita continuavano imperterrite a percorrerne i contorni. Sembrava indeciso se premere più forte i polpastrelli sul metallo, sembrava chiedersi se avrebbe avuto il coraggio di farlo.
Alan avrebbe dovuto strappargli quell'aggeggio dalle dita, dirgli che si sarebbe potuto far male. Eppure era anch'egli caduto nella malia della lama, e soprattutto della nuova lucentezza che gli occhi di Gilbert avevano acquistato.
Ad un tratto, però, Gilbert impugnò con decisione il coltello e si mise con uno scatto felino a cavalcioni sul suo ventre. La sua pelle pallida, quasi del tutto scoperta, riluceva alla luce della Luna, i suoi occhi mandavano bagliori ogni volta che un fulmine accendeva il cielo dietro le finestre.
È bellissimo, non riuscì a non pensare Alan.
L'attimo dopo il ragazzo sopra di lui gli portò la lama alla sua gola e, con la punta, gli punse la pelle. Alan gelò. Non riusciva a parlare, gli occhi gli si spalancarono, le mani presero a tremare per la botta improvvisa di adrenalina. Gilbert l'avrebbe ucciso? Avrebbe aperto la sua gola, un po' come succedeva in tutte le sue fantasie violente? Cosa sarebbe stato, poi, di lui? Alan si diede dello sciocco: come poteva preoccuparsi di cosa sarebbe accaduto a Gil se l'avesse ucciso? Era diventato così servile e inetto? Aveva annullato tanto la propria vita per lui che, ora, anche la propria morte passava in secondo piano?
«Gil, cosa stai facendo?» trovò la forza di sussurrare.
L'altro sorrise, nella notte. I suoi denti bianchi brillarono, e anche i suoi occhi lo fecero. Poi premette la lama sul collo di Alan. Non lo fece con forza, ma abbastanza perché un sottile taglio si aprisse e ne sgorgasse un rivolo di sangue scuro.
Alan sentiva il proprio cuore battere come un tamburo, talmente tanto da sovrastare, nelle sue orecchie, il suono dei tuoni che rombavano fuori dalla loro stanza.
Gilbert, sempre sorridendo, si abbassò su di lui, socchiuse le labbra e baciò il taglio appena fatto. Quindi iniziò a leccare il sangue che si era andato a diramare lungo le clavicole di Alan, percorrendo con la punta umida della lingua il sentiero che, come un sottile filo rosso, aveva macchiato la sua pelle.
E Alan, sotto di lui, con i sensi annebbiati si perdeva.

Alan si massaggiò per l'ennesima volta la fronte. Aveva un mal di testa terribile, e il sonno arretrato che aveva accumulato nelle ultime notti di certo non lo aiutava a concentrarsi. Era arrivato quasi al punto di trovare insopportabile anche il solo suono di voci estranee: il professore con la sua spiegazione lo tediava terribilmente, le risate dei compagni di classe lo irritavano, i passi che risuonavano per i corridoi lo confondevano.
Gilbert entrò nella stanza con la sua nuova conquista fra le dita: una sigaretta rollata in malo modo e un accendino di un improponibile colore giallo fluorescente che, accanto alla sua figura completamente nera e spettrale, quasi stonava.
Solo lui potrebbe entrare i classe con in mano una sigaretta e un accendino in bella vista.
Gilbert si sedette accanto a lui, lo guardò per qualche secondo e, dopo essersi accertato che effettivamente c'era qualcosa che non andava, decise di non parlare e di indirizzare i suoi occhi altrove. Non era un gesto di indifferenza – Alan lo sapeva bene –, quanto più di rispetto, e mentalmente lo ringraziò.
Alan per i dieci minuti successivi sentì ogni tanto le occhiate dell'altro che lo scrutavano come a voler capire quale fosse il problema senza però dover chiedere al diretto interessato. Ad un certo punto Gilbert prese una decisione: infilò sigaretta e accendino nella tasca della felpa nera che indossava, allungò piano una mano verso la sua coscia e chiuse gli occhi. Alan alzò lo sguardo dagli appunti di fisica che da circa un'ora stava studiando senza capirci nulla e lo portò al profilo di Gilbert e alle sue palpebre che tremavano leggermente.
Poi Gilbert iniziò a cantare. Piano, sottovoce, soffocando le parole per non farsi sentire da altri se non da lui, con una lentezza quasi insostenibile e una delicatezza che non aveva mai mostrato prima di allora; e il mal di testa scomparve, così come tutto ciò che c'era attorno a loro.

«Al, devo parlarti».
Alan si voltò improvvisamente, cercando di riempire affannosamente il vuoto che all'improvviso s'era andato a formare nel fondo del suo stomaco. Non sapeva cosa aspettarsi – non ne aveva la minima idea! –, ma il tono serio dell'altro lo fece preoccupare e immaginare più o meno ogni possibile catastrofe.
«Dimmi».
L'altro non voleva incrociare il suo sguardo, e si vedeva.
«Vorrei provare a cantare da qualche parte, in un locale magari».
Alan spalancò gli occhi, non del tutto certo che ciò che aveva appena sentito non fosse frutto della sua sola immaginazione.
«Non mi guardare così» esclamò l'altro con insolita decisione e forza, dopo aver incontrato per un secondo l'espressione sconvolta di Alan. Poi continuò: «Cioè, è che sento come se qualcosa mi schiacciasse lo sterno e i polmoni ogni volta che respiro, e mi sento soffocare. Tu lo sai cosa divento, quando soffoco. Ed ecco, io non voglio più soffocare, voglio stare bene».
Alan non sapeva cosa dire. Era così sorpreso, così felice per ciò che stava succedendo che, dopo averlo sperato per quasi due anni, ora che stava davvero accadendo non riusciva a spiccicare mezza parola.
Non ottenendo risposta, Gilbert prese un'ulteriore manciata di coraggio e fece di tutto per incontrare con i suoi occhi quelli di Alan. Ne intensificò la forza com'era solito fare quando stava per mettere in pratica qualcosa di assolutamente insensato o inaspettato e disse, quasi sottovoce: «Vorrei che mi aiutassi, a cantare intendo».
«Sì» sussurrò in un soffio a sua volta Alan. «Sì, cazzo se lo farò» esclamò poi, lasciandosi andare a una felicità che non gli era familiare. Ma nel farlo nemmeno si rese conto di aver appena valicato i confini che la sua relazione con Gilbert gli imponevano, e si dimenticò per un secondo di come l'altro fosse fatto: si sporse verso di lui e lo abbracciò, afferrando il suo viso con forza e poi baciandolo con trasporto. L'improvviso contatto con il suo corpo, così bello e familiare, lo mandò su di giri. Iniziò quindi ad abbassare le mani verso il suo bassoventre, aprendogli la cerniera dei pantaloni e iniziando a toccarlo, senza curarsi della pressione sempre più decisa che le dita dell'altro facevano contro le sue spalle, quasi a volerlo spingere via ma senza trovare il coraggio né la forza. Il corpo di Gilbert rispondeva, e questo era sufficiente.
Andò avanti finché il suo sperma non si sparse, macchiando il letto e la sua mano, ancora stretta attorno al suo sesso. Solo allora alzò lo sguardo sul viso di Gilbert.
Alan si accorse troppo tardi di ciò che aveva fatto, e la conferma di un suo errore la ebbe proprio negli occhi di Gilbert che, spauriti e infastiditi, lo guardavano di nuovo con quel vuoto che per tanto tempo li aveva abbandonati: le mani del giovane si allontanarono di scatto da lui.
Lo spinse via, strappando il filo fra loro e, l'istante dopo, Gilbert andò in pezzi. Ma, a differenza di tutte le altre volte, non si appoggiò mai a lui.

Non si parlavano da giorni, e la cosa si stava facendo insopportabile.
Gilbert aveva iniziato ad allontanarsi da lui quasi senza motivo, e decisamente senza motivo aveva anche smesso di trascorrere del tempo nel loro appartamento. Al mattino si vegliava presto – proprio lui che non faceva altro che dormire! –, mentre subito dopo le lezioni scompariva per tornare solo a tarda notte.
Però tornava.
Alan non sapeva come affrontarlo, non riusciva a comprendere quale fosse il perché di quel comportamento: sapeva di aver violato in qualche modo Gilbert, forzando il suo corpo a gesti che l'altro non desiderava, ma allo stesso tempo non aveva la capacità di staccarsi da lui, né fisicamente né mentalmente. Era diventato quasi un'ossessione, un desiderio implacabile e impossibile da contrastare: voleva avere il suo corpo pieno di spigoli fra le dita, sentirlo fremere e tremare sotto le sue mani, voleva i suoi occhi spalancati mentre lo baciava, le sue labbra morbide vicine; voleva il suo calore, i suoi rari sorrisi, i suoi capelli sporchi e le occhiaie scure sotto i suoi occhi. E la sua voce, soprattutto la sua voce.
Si avviò verso il bar poco fuori scuola per prendere un caffè nella speranza di riprendersi un po' dalla sonnolenza che da giorni ormai lo dominava. Aprì la porta, facendo suonare le campanelle attaccate sul soffitto e portando a ruotare gli occhi di tutti i presenti verso di sé. Istintivamente cercò lo sguardo penetrante e vuoto di Gil, ma non trovandolo si andò a sedere nell'angolo più lontano dall'ingresso.
Trascorse poco tempo che una cameriera venne a prendere l'ordinazione: era minuta e sottile come un giunco, i lineamenti affilati ma le labbra carnose e protese in avanti, sempre pronte a dare un bacio.
Gli assomiglia, gli assomiglia tantissimo, si trovò a pensare suo malgrado, facendo danzare lo sguardo lungo tutto il suo corpo mentre, meccanicamente, chiedeva un caffè.
La aspettò fuori fino alla fine del suo turno, un po' come si faceva una volta. Il freddo gli pungeva la pelle e gli attraversava le ossa, costringendolo a muoversi continuamente per non gelare del tutto. Per fortuna ci volle solo mezz'ora perché uscisse dal bar. Lui la fermò, iniziò a parlarle affabile, tirando fuori una dolcezza finta e una gentilezza che non gli apparteneva; riuscì a convincerla a fidarsi di lui, quindi l'accompagnò a casa dove Annie – questo era il suo nome – lo fece salire.
Viveva da sola, lavorava per mantenere i suoi studi al college e sognava di diventare psicologa; parlava in continuazione, non fermava un solo secondo la sua bocca carnosa e lui, che non riusciva più a sopportarla, dopo poco la baciò.
C'erano state volte con Gilbert in cui avrebbe voluto donargli una dolcezza che non possedeva, in cui sapeva che avrebbe potuto venerare il suo corpo; c'erano state volte con Gilbert in cui si era perso completamente nel suo odore e nella sua pelle, ma in quel momento Gil non era lì. Il suo corpo se ne rese conto solo quando fu dentro di lei, e la sua mente poco dopo, quando si accorse che quelle labbra erano troppo grandi per il suo viso, quando vide i seni che sporgevano e ballavano sul suo petto, quando tutti gli spigoli di Annie si trasformarono in curve per il piacere. Improvvisamente si arrabbiò e spinse più forte, cercando Gilbert in un corpo che solo gli assomigliava, che pareva una forma di lui più annacquata e diluita, meno intensa e sporca.
Si svuotò di sperma e di anima, quella sera e, appena arrivato a casa, anche del cibo che aveva ingurgitato a cena.
   
 
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