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Autore: Shaft    25/01/2016    0 recensioni
La storia segue le brevi disavventure di Lio, un pessimista nato che cerca in tutti i modi di vedere il lato oscuro in qualsiasi evento o persona.
Riuscirà il protagonista a trovare il suo "happy ending"?
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopotutto, non c’è nessuno che...
 
Il treno delle quattordici in punto era stipato, come sempre.
Non vi era spazio nemmeno per respirare, figuriamoci per distendere comodamente le gambe.
Intorno a me, decine, anzi, dozzine di adolescenti di ritorno da scuola stavano mandando messaggi e giocando ai loro telefoni, quasi come se fossero ipnotizzati. Ironico, se ne avessi uno decente per l’era moderna avrei fatto anch’io come loro, ma il mio mi permetteva unicamente di riprodurre musica.
Quella musica che sempre più mi isolava dalle loro voci e dallo sferragliare del treno sulle rotaie. Quella musica che non mi permetteva di guardare dinnanzi a me con chiarezza.
Con sguardo vacuo, iniziai a contare i secondi rimanenti di quella canzone che, ormai, sapevo a memoria. La melodia era sempre la stessa da quindici minuti, ripetuta in un ciclo che pareva infinito. Cos’avrei dovuto fare per adeguarmi? Parlare con loro?
Non se ne parla, avevo paura e, giustamente, ce l’ho tutt’ora. I loro sguardi isterici, la loro area di superiorità e il loro parlare acidamente. Era tutto veleno per me, volevo stargli alla larga per non ridurmi come loro.
Un branco, né più né meno.
Come nella foresta, il re della giungla regnava incontrastato sul suo trono accanto al finestrino, sotto gli occhi dei suoi servi. Scimmiottando quel che faceva, i ragazzi tentavano di conquistare le ragazze che però, ovviamente, avevano occhi solo per il re.
Che scenario triste.
L’intero vagone stava iniziando ad avere un odore acre di sudore, dato dalla mancanza di finestrini e aria condizionata. Una camera a gas, ecco cos’era.
Mi volevano morto, quei maledetti.
In ogni caso, stavo tornando in tutta tranquillità dalle lezioni mattutine alla scuola superiore che frequentavo. Non era un liceo, temevo i licei. Avevo paura di non essere adatto, sbagliato, di non riuscire a seguire un qualunque ritmo. Pensandoci dopo, le mie paure erano perfettamente fondate. Lo studio non era di certo la mia caratteristica migliore, men che meno se condizionato dai ritmi di un liceo.
Quanto sarebbe durata ancora quella tortura? Per quanto tempo ero obbligato a vedere di nuovo le facce che giorno dopo giorno mi sfilavano davanti, spesso ignorandomi o rivolgendomi sorrisi confusi?
Ero così strano?
Lo scenario fuori dal finestrino mutò velocemente, passando da urbano a campagnolo,  con distese di campi di grano. Per fortuna, anche l’atmosfera all’interno del treno cambiò dopo la prima fermata. Il re, che aveva intrattenuto i suoi sudditi per tutto il tempo scese e, come se gli avessero tagliato i fili, tutta la sua cricca cadde sul sedile annoiata, come se l’unico oggetto del loro interesse fosse andato smarrito. Per evitare che il mio stomaco sobbalzasse ulteriormente alla loro vista, guardai il mio riflesso sul vetro del finestrino. I capelli neri e mossi ormai erano da tagliare, mentre gli occhi verdastri avevano sempre il solito tono spento di chi non si aspettava più nulla dalla vita. Aggiungendoci le leggere occhiaie e la mia espressione da disperato, forse quel quadro poteva essere più rivoltante dell’orgia animale.
"Se l’immagine è lo specchio dell’anima, io devo essere proprio marcio dentro…"
Persino la felicità che tutti loro stavano provando non era altro che il riflesso del loro re, niente di più. Grazie al suo carisma, loro venivano inebriati dalla sua fortuna e bellezza, ma quando si eclissava, come se fosse un sole, le tenebre calavano su di loro, rivelando la loro vera natura.
"Falliti" pensai.
Sì, falliti della mia stessa risma, non c’era differenza fra me e loro. Anzi, forse io ero leggermente in una posizione più privilegiata, visto che almeno ammettevo il mio status sociale. Da bravo nullafacente solitario, l’unica cosa di cui potevo provare orgoglio era il mio istinto di conservazione, un’abilità che potrebbe far invidia a chiunque.
Non avendo mai nessuno a cui farle, non avrei mai gentilezze.
Non avendo qualcuno con cui arrabbiarmi, non lo farei.
Una vuotezza che creava felicità, ecco cos’era.
Andando al di là della barriera che mi ostinavo ad ignorare senza successo, vi era però un’altra facciata.
Un elemento che fino ad allora ammetto di non aver mai considerato.
Dietro quel gruppo di casinisti ormai ammutoliti, vi era qualcun altro.
Qualcuno che se ne stava in silenzio, da sola, rannicchiata sul sedile.
Una ragazza.
Probabilmente era come me, incapace di credere nel genere umano, di aprirsi e di dargli fiducia. Una ragazza come tante che, però, vedeva il mondo con occhi diversi.
Occhi pessimisti, marci.
Se fossi stato più coraggioso.
Se non fossi stato a portata di sguardi in discreti che mi avrebbero messo in imbarazzo.
Probabilmente, avrei provato maldestramente a parlarle, giusto per vedere se mi sbagliassi o meno.
Inutile dire che, così come l’avevo incontrata, la salutai.
Però, si può chiamare incontro un fugace sguardo dato ad uno specchio che pareva riflettere la tua stessa immagine?
No, questo non era destino.
Il destino mi aveva già voltato le spalle da tempo.
Tutto ciò che mi rimaneva era la disperazione.
Dopotutto, non c’è nessuno che…
"…!"
La mia voce interiore si interruppe quando, raggiungendo l’uscita, notai che la ragazza che avevo giudicato simile a me mi stava guardando. Con dei bellissimi occhi color ghiaccio e i capelli completamente corvini.
Non so cosa vide in me tanto da guardarmi a quel modo.
Probabilmente, speranza.
Speranza che, avendo visto il miglior esempio possibile di gioventù bruciata, avesse ancora un margine di miglioramento.
Oppure era solamente sorpresa, come lo ero io, di aver trovato qualcuno di simile.
Tuttavia, il destino mi aveva voltato le spalle da tempo.
Prima che le porte del treno si chiudessero, balzai fuori all’ultimo secondo, perdendo quasi l’equilibrio.
"Addio, mia possibilità su un milione, stai pur certa che non ci vedremo mai più…"
Così, lasciai la stazione senza rimpianti, convinto del fatto che nulla potesse cambiare me o i miei modi di fare. Sicuro fino alla nausea di non avere destino e di farmi trascinare semplicemente dal corso degli eventi, mi domandai cosa avrebbe riservato il futuro per uno come me.
Poi, concordai sul fatto di non dovermi allargare così tanto, visto che la parola “futuro” in sé per me si avvicinava più all’occulto che alla realtà.
"Dopotutto, non c’è nessuno che sia più stupido di me"
   
 
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