Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: WordsLuver    29/01/2016    0 recensioni
Volevo solo trovare qualcuno che amasse me, il mio aspetto, il mio carattere. Volevo essere solo apprezzata da qualcuno, trovare un bagliore nel buio che mi circondava.
Che fosse possibile? Che potesse esistere per una ragazza un po’ grossa e un po’ debole come me un posto da qualche parte nella mente di qualcuno?
Poteva Elaine Mallori trovare una luce nella sua buia sera?
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ciao a tutti!! :)
Eccomi di nuovo qui, finiti gli esami, finite le fatiche dello studente universitario (per ora T.T), sopravvissuta come Leonardo di Caprio in Revenant e con una voglia matta di scrivere! :D
Lo so, ci ho messo un (bel) po', mi preparo ad affrontare il mio destino nel caso in cui vogliate punirmi, ma spero che il lungo capitolo che posto basti a farmi perdonare! xD
Dunque! Avevamo lasciato la nostra povera Elaine sulla soglia di casa, di ritorno da una giornata a casa Søndergaard con Nathaniel, il quale sembra aver mostrato di essere un tantino diverso da quello che lei si aspettava. Sarà davvero così? Staremo a vedere ;)
Ho avuto qualche problema a trovare un titolo adatto al capitolo, dal momento che ci sono diverse scene e ognuna di esse tratta vari temi cruciali. Ho deciso di intitolarlo "Chiaroscuri senza fine" perché descrive abbastanza bene la vita di Elaine, piena di momenti brutti e momenti belli, alti e bassi. Che è un po' la vita di ognuno di noi a diciassette anni in fondo.
Ero molto indecisa, quindi fatemi pure sapere che ne pensate! :)
Vi lascio alla lettura!!

Un abbraccio,
WordsLuver
---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
11. Chiaroscuri senza fine
 
Per la prima volta nella mia vita, vissi la sensazione di pericolo sulla pelle al cigolio della porta, facendo il mio ingresso a casa. Quattro occhi si spostarono in un secondo su di me, trasmettendomi la stessa furia che trasmetterebbe un toro da corrida alla vista di un mantello rosso. Lanciai una rapidissima occhiata all’orologio a parete del salotto, oltre la testa bionda, fumante di rabbia di Seline: le otto e quarantacinque. Con quasi due ingiustificabili ore di ritardo, potevo benissimo essere l’idiota incosciente che scende nell’arena e inizia a ballare di fronte alla bestia inferocita chiedendogli di farsi incornare. Finendo per farsi caricare e arare l’arena con la testa.
Le sopracciglia folte di mio padre erano corrucciate, proiettavano un’ombra sugli occhi che lo rendeva minaccioso abbastanza da temere che mi punisse, cosa che lui nella sua intera esistenza si era sempre rifiutato di fare. Erano seduti entrambi alla tavola apparecchiata, i piatti vuoti, una zuppiera al centro, coperta per non farla raffreddare e la televisione accesa che trasmetteva il telegiornale.
-Buonasera. –esordì Seline fredda.
-Ciao… -mormorai.
-Dove stavi, signorina? –mi chiese papà inquisitorio.
-Scusa, papà, ho perso la cognizione del tempo… -
-Eh, noi intanto qua ad aspettare. –commentò acida mia sorella. –Non è per essere catastrofici, ma poteva esserti successo qualcosa. –
-Mi dispiace, è che stavamo studiando e… il tempo è volato praticamente! –spiegai.
Prima che potessi avanzare altre giustificazioni, la sorpresa si fece viva sul viso di Seline. –Volato? Con il fighetto danese? –
Mi strinsi nelle spalle, avvampando.
-Non importa! Non cambiate discorso. –intervenne papà tagliando corto con aria contrariata. –Elaine, sia chiaro. Due ore di ritardo, anche se a te possono sembrare poche, non lo sono affatto per me. Eravamo in pensiero, io e tua sorella. -
Era preoccupato per me, era lampante. Colpa mia, me lo meritavo. Avrei dovuto guardare l’ora una volta ogni tanto durante lo studio.
-A quest’ora non è raccomandabile andare in giro da sole. –continuò.
-Non sono tornata a piedi, Nathaniel mi ha offerto un passaggio. –intervenni.
Seline spalancò gli occhi, ma non riuscì a dire nulla perchè papà la precedette.
-A diciassette anni si mette al volante!? –esclamò orripilato. Già sapevo che il pensiero della sua bambina in macchina con un diciassettenne incosciente e inesperto, lo faceva rabbrividire.
Mi affrettai a rassicurarlo. –Ne ha diciotto, papà. Ha già la patente. E guida anche bene, stai tranquillo. –
Si calmò, ma non lo mostrò troppo, mantenne salda la sua espressione severa. –Tranquillo, una parola! Non avevo idea di dove fossi finita! Bada bene, Elaine, rispetta i patti. O non mi fiderò più a mandarti in giro dopo la scuola. Chiaro? –
-Sì, chiaro. Scusate se vi ho fatto preoccupare. –
-Ci hai fatti preoccupare eccome. –borbottò lui. Con tono deciso, mi ordinò: –Forza, seduta a tavola. -
-Dai, siediti che mangiamo finalmente. Ho una fame. –sospirò Seline.
Mangiai col capo chino. Non mi piaceva far arrabbiare papà, sentivo di dargli più problemi di quelli che già aveva ed era l’ultima cosa che volevo. Dovevo stare più attenta.
Finita la cena, dopo delle chiacchiere frettolose e nervose su come era andata la giornata, Seline accompagnò papà in camera. Io sparecchiai la tavola, lavai i piatti e mi preparai per dormire. Spensi la luce con uno sbuffo pieno di colpevolezza e mi infilai sotto le coperte.
 
------------------------------------------------------------------------------------------
 
Nero, tutto nero. Solo nero.
Dove mi trovavo? Non mi era dato sapere.
-Non posso andarmene. –sussurrai, dando voce alla consapevolezza che mi riempiva lo spirito.
Ero immobile, ferma in un punto, una microscopica creatura nello spazio inerte. Potevo essere in un luogo preciso di cui non vedevo i tratti, potevo essere nel vuoto o nel centro dell’universo. Ovunque fossi, ero sola.
Sola.
-Sola… -
Sola.
Ma lo ero davvero?
No, non era vero, in lontananza vedevo qualcosa. Era una figura umana, alta, slanciata, avvolta in un alone bianco che contrastava il buio, era immobile come me.
Corsi nella sua direzione. Quando le fui dietro, mi fermai. Un torso asciutto, una testa ritta in avanti, dei capelli castano-biondi, dei lineamenti decisi. Era un maschio. Era…
-Ehi! –
La figura si girò.
Una fascio di luce scaturì all’improvviso, abbacinante e pungente come la sabbia negli occhi. Non vidi più nulla.
E tutto sfumò.
 
--------------------------------------------------------------------------------------------

-Nina! Svegliati, devi andare a scuola, sei in ritardo! –
Mi alzai a sedere di scatto, guardandomi intorno in cerca di mia sorella. Perché era tutto buio? Ah no, dovevo ancora aprire gli occhi, che stupida.
-Seline? –bofonchiai con la bocca impastata.
-Nina, è tardi, sono le otto meno un quarto! –esclamò Seline concitata.
Non del tutto sveglia, feci risuonare quelle parole nella mia testa, cercando di capire cosa stesse cercando di dirmi. Otto meno un quarto… otto meno…
-Le otto meno un quarto!? – urlai all’improvviso, quando un lampo di lucidità mi riscosse dal sonno mattutino. Mi precipitai fuori dal letto, rischiando di inciampare sul lenzuolo. Mi cambiai, buttandomi addosso la prima cosa che trovai, corsi in bagno, mi lavai la faccia, i denti e mi sistemai in fretta e mi bagnai con un po’ d’acqua i capelli, che avendo preso la forma del cuscino erano rimasti dritti in fuori. Infine afferrai lo zaino e la giacca, cercando nel frattempo con gli occhi le mie scarpe.
-Seline, le mie scarpe dove sono? –le chiesi in preda al panico.
Lei, seduta comodamente a tavola, sorseggiò in tutta tranquillità il suo latte e mi guardò con un sopracciglio inarcato. –In lavatrice. –
-Come… in lavatrice? –
-Se non te ne sei accorta erano luride, ma solo per usare un eufemismo. –
-E io ora come faccio? Vado a scuola in calzini e ciabatte!? –sbottai nel pieno della mia ira.
-Puoi provare, ma credo ti guarderebbe almeno un po’ male... –replicò lei senza battere ciglio.
-Del tuo sarcasmo sai cosa puoi farci? –l’apostrofai irritata.
-Non credo di volerlo sapere. –disse imperturbabile. Stavo per strozzarla. L’unico paio di scarpe che avevo, me le lavava proprio in un giorno di scuola. Mio padre, che era rimasto a guardare fino a quel momento incuriosito, sorrise.
-Figlia mia, sei un caso perso. –commentò in tono finto solenne. Lo squadrai senza capire. Lui, per tutta risposta, mi passò una tazza di latte e mi disse:
-Forza, siediti e fai colazione. Puoi saltare scuola per un giorno. -
-Papà, che accidenti stai dicendo! -protestai esasperata. –Non posso saltare scuola! –
-Tranquilla, Elaine. –intervenne Seline, con un sorriso mefistofelico. –Nessuno pretende che tu ci vada anche di domenica. –
Il silenzio calò nella stanza appena ammutolii. Seline e papà sorseggiarono allo stesso tempo guardandosi con aria complice.
Gettai lo zaino in terra e sbuffai sconfitta. –Siete meschini. –
Scoppiarono a ridere all’unisono, Seline per poco non si soffocò con il latte.
Papà rovesciò la testa all’indietro. Mi sedetti con aria indignata, senza però riuscire a trattenere un sorrisetto, contagiata da quell’ilarità seppure fosse a mie spese.
-Oddio, avresti dovuto vedere la tua faccia! –rise Seline.
-Brava, brava, ridi pure! –bofonchiai. Mi riempii la bocca con una fetta di pane, spalmata di burro e marmellata, scuotendo il capo. Che famiglia degenere che avevo.
-Beh, te l’abbiamo fatta pagare per ieri sera, si può dire. –sentenziò mio padre divertito.
-Oh, era per questo dunque? –
-È stato… impagabile! –sospirò Seline sogghignante.
La guardai di sbiego e le scompigliai i capelli, ma non riuscii a non sorridere.
-Saprò vendicarmi degnamente. –la minacciai.
Addentò un biscotto. –Non oseresti. –
-Vuoi scommettere? –
Lei mi pizzicò una guancia di rimando e mi sorrise. –Hai dormito bene, per lo meno? –
-Sì, benissimo. –risposi con una linguaccia. –Ho fatto anche un sogno strano. –
-Cioè? –
Ripensai al sogno di quella notte, alla figura che si stagliava nel nero. Avevo sentito di conoscerla, di sapere a chi appartenessero quei lineamenti, quel ciuffo castano-biondo… non l’avevo vista in faccia, non ne avevo visto gli occhi.
Poteva essere che avessi sognato… lui? Poteva essere che quella figura immobile fosse quella di…
-Ragazze. –disse papà cambiando discorso. Ogni ricordo del mio sogno si perse nel vuoto e, dimenticandomi di rispondere a Seline, dedicai tutta l’attenzione a lui.
-Vostra zia Carlotta mi ha chiamato ieri. –annunciò.
I sorrisi si spensero, le risate soffocarono. Io e mia sorella ci guardammo e alzammo istintivamente gli occhi al cielo.
La zia Carlotta in realtà non era davvero nostra zia. Era una cara amica di nostro padre che avevamo sempre considerato come una parente, visto che ci conosceva ancora da prima che nascessimo. Lei e papà avevano studiato insieme dalle medie, erano stati buonissimi amici per tutta la loro gioventù. La zia Carlotta era presente al matrimonio dei miei genitori, quando papà aveva avuto l’incidente e anche quando sua moglie se n’era andata aveva offerto un aiuto.
Era divorziata da vari anni. Da piccole le avevamo fatto visita spesso, abitava in campagna, con i suoi due figli, Giacomo e Saverio, due gemelli quasi identici.
Era la tipica donna di casa sulla sessantina appassionata di uncinetto, ricette e di bambini. Era una donna pacata, dalle maniere zuccherose. Un po’ troppo zuccherose. Non che non le volessimo bene, ma a vent’anni i buffetti sulla guancia e le bambole come regalo di Natale suonavano diversamente che a dieci. Per lei rimanevamo delle bambine, un po’ come per una nonna, e poteva sembrare anche tenero dall’esterno, però sentirsi parlare come una neonata ogni volta era un po’ pesante. Specialmente se con la sua vocina da vecchietta pigolante.
-Che gioia. –commentò Seline a bassa voce.
-Seline… -la chiamò papà con tono di rimprovero.
-E cosa ti ha detto? –chiesi.
-Mi ha chiesto come state, come vanno le cose…  ci vorrebbe rivedere. –spiegò.
-Beh… anche se non muoio dalla voglia di farmi strizzare le guance e farmi chiamare “Bambina!”, potremmo farle visita domenica prossima. –propose Seline visibilmente malvolentieri.
-Si può fare. Le farò sapere. –convenne lui. –Anche i gemelli sono ansiosi di vedervi. –
-È da un pezzo che non li vediamo. Chissà come sono cambiati. –osservai. Rischiai di sporcare la tovaglia con la marmellata che scivolò giù dalla mia fetta di pane.
-Già… l’ultima volta è stata… quattro anni fa, giusto? –Seline inarcò le sopracciglia. –Un bel po’. Devono essere cresciuti. –
Papà si pulì i baffi dai residui di latte e annuì pensieroso. –Hanno già vent’anni. Ormai saranno degli omaccioni forzuti. –
-Immagino. Mungere vacche, sollevare balle di fieno e arare i campi ti rassoda che è un piacere. –
Il sarcasmo di mia sorella mi fece sorridere.
-Come mai abbiamo aspettato così tanto per andare a trovarli, a proposito? Di solito non facevamo loro visita almeno una volta ogni tre mesi? –indagai.
-Beh, i gemelli sono andati a studiare all’estero, uno in Francia e l’altro in Inghilterra. Anche lei nel frattempo ha viaggiato un po’ dappertutto, come ha sempre fatto prima di sposarsi, d’altronde. – spiegò papà. –È stata un anno in Canada, poi qualche mese in Perù e in Brasile, e poi è andata in Svezia a trovare i vecchi amici incontrati in gioventù, durante le sue estati in giro per l’Europa. È tornata in Italia solo ad agosto e purtroppo suo fratello è venuto a mancare. Così ha preferito passare un po’ di tempo da sola, in attesa che i ragazzi decidessero di rientrare. –
-Accidenti. Vita avventurosa. –commentai stupita. –Non sapevo che amasse spostarsi così tanto. –
-Avrà un sacco da raccontarci quando la vedremo. –disse Seline. Avvertimmo entrambi che il suo non era di certo entusiasmo per la notizia. La zia Carlotta sapeva far durare un racconto anche giorni interi e guai a interromperla. -Speriamo che almeno Gec e Savi siano simpatici come lo erano da piccoli. -
-Così tu e Saverio vi potrete finalmente sposare! –la schernii io con un sorrisone intenerito e gli occhi a cuore.
Lei mi fulminò con un’occhiata. –Avevamo otto anni, per la miseria. –
-Eravate fatti l’uno per l’altra. Non puoi negarlo. Eravate stupendi. –
-Ok, adesso basta. Solo pensare di dover rivedere di nuovo tutti quanti mi mette un’angoscia pazzesca. Ripercorreremo il sentiero dei ricordi domenica prossima. –
Ridacchiai da sotto i baffi e mi alzai per sparecchiare.
-Vi va di uscire oggi? –domandai cambiando discorso. –Mi piacerebbe andare a fare una passeggiata tutti insieme. –
-Ah, Nina, scusa ma devo sistemare delle cose per il lavoro. -
Papà si rabbuiò. -Lavori anche di domenica adesso? –
-Aspetto una chiamata da dei fornitori, che sicuramente mi terranno al telefono come minimo due ore. Andate voi due! -
-E va bene. – sospirai io un po’ delusa.
La mattina passò tranquilla, fino all’ora di pranzo mi misi a lavorare sui libri di arte romana, concludendo più di quello che mi aspettavo. Mi sentivo stimolata nel proseguire, diversamente dagli altri compiti scolastici. Non ne ero sicura, ma la passione che Nathaniel mi aveva dimostrato il giorno precedente, doveva avermi dato una marcia in più. Mi aveva decisamente coinvolta!
Fino a qualche giorno prima ero terrorizzata di avvicinarmi a lui e invece ora non vedevo quasi l’ora che arrivasse mercoledì. Chissà… lui si sentiva allo stesso modo?
Impulsivamente mi dissi di no. Tuttavia potevo ancora avere il beneficio del dubbio.
Dopo pranzo Seline si ritirò in camera sua. Mentre lo squillo melodico del telefono di casa si diffondeva, io aiutavo papà a prepararsi.
-Tutto questo lavoro… -commentò lui cupo, quando mi accinsi infine a sistemarlo sulla carrozzina.
-Dai, papà, non ti preoccupare per Seline. –ribattei io cercando di rassicurarlo.
Non rispose, accennò un’espressione seccata ma la nascose immediatamente. Non voleva dare a vedere che stava male per non poter passare del tempo con sua figlia, anche se sapeva che quello di Seline era un obbligo con una priorità maggiore di una passeggiata per Roma. Il suo orgoglio non gli permetteva di mettere a nudo le sue emozioni, così come l’istinto di protezione che aveva nei nostri confronti non gli permetteva di tenere le apprensioni celate.
-Bene, andiamo! –esclamai, un certo brio nella voce per tentare di scacciare la malinconia dal viso di papà.
Uscimmo di casa avvertendo subito l’aria fresca travolgerci aprendo il portone. Strinsi la sciarpa attorno al collo e mi accertai che papà fosse coperto a dovere.
A volte mi preoccupavo per lui tanto che mi sembrava che i ruoli fossero invertiti, che io fossi il genitore e lui il figlio. E puntualmente mi prendeva bonariamente in giro.
-Che bella giornata. –dissi, guardando il cielo azzurro poco annuvolato.
-Pensa che peccato passarla in classe… - scherzò lui, girandosi verso di me per quanto gli era possibile.
Gli rivolsi una linguaccia. –Spiritosoni. –
-Beh, te lo sei meritato. –replicò papà con il mento alzato.
-E va bene, ma mica l’ho fatto apposta! –
-Devi esserti divertita abbastanza se non ti sei nemmeno accorta del tempo che passava. –osservò.
–Sì… abbastanza… -
-Quindi questo Nathaniel non deve essere poi male in fondo. –
-Abbiamo passato un bel pomeriggio. –precisai. Non ero ancora pienamente sicura di voler attribuire a Nathaniel certe qualità. Si era comportato benissimo, non c’era stata traccia di quella spavalderia che avevo visto in altre situazioni, mi ero trovata bene. Ciò nonostante, per il momento per me quello del giorno prima era stato solo un piacevole pomeriggio con qualcuno che potrebbe tornare ad atteggiarsi da perfetto sconosciuto in presenza dei suoi degni compari. Non mi sarei stupita se quell’indomani mi avesse bellamente evitata per non far scendere la propria “popolarità” e mantenere la sua reputazione con gli altri. Ci sarei rimasta malino, dovevo ammetterlo, ma non sarebbe stata una sorpresa.
-Beh, raccontami no? –mi esortò mio padre. –A che punto siete con la ricerca di arte? -
Con un sospiro esordii: -Abbiamo appena cominciato, non abbiamo ancora nulla di concreto. –
-Lui si impegna? Si dà da fare? –
Inclinai il capo. –Sì, non… non mi è sembrato uno scansafatiche… poi sembra che gli piaccia l’argomento quindi… -
Ricordandomi di come gli occhi di Nathaniel avevano brillato durante la sua descrizione dell’Augusto di Prima Porta, dire che l’argomento gli piaceva era un eufemismo. Quella era passione.
-Bene, è già un grande passo avanti. Tua sorella sarà felice di saperlo. –scherzò lui.
Sorrisi. -Seline lo dava già per spacciato. -
-E tu gli dai una chance? –
Esitai a rispondere. –Non lo so… penso di sì. –
Mio padre continuò a farmi domande sul mio pomeriggio con Nathaniel. Fui felice di rispondergli e conversare così un po’, cosa che non sempre avevamo occasione di fare in tranquillità. Gli raccontai della ricca e sofisticata casa di Nathaniel, di Paulina e della sua affabilità. Non tralasciai naturalmente nulla sui quadri della signora Søndergaard, che avevo ammirato con così tanta stupefazione in ogni loro minimo dettaglio. Gli dissi del nostro lavoro e della sintonia che non mi ero aspettata di avere con lui, senza soffermarmi più di tanto, invece, sull’ultima parte della serata per ovvi motivi. Tagliai corto dicendo che mi ero semplicemente accorta di essere in ritardo e di aver accettato il passaggio offertomi dal padre di Nathaniel, Stefano.
Mio padre mi ascoltò con attenzione com’era solito fare, intervenendo di tanto in tanto con qualche commento o quesito. Alla fine del resoconto, mi scoprii a sorridere senza alcun motivo e non potei che darmi della stupida.
Però non smisi di farlo.
-Nathaniel è l’unico compagno di classe con cui ti trovi il pomeriggio per studiare? –mi chiese papà, infine.
-Sì, papà. –
-Te lo chiedo perché finora non ricordo di averti mai vista uscire il weekend con i tuoi amici. –
E come spesso succedeva, il mio sorriso morì.
Ecco, quello era ciò di cui speravo di non dover mai discutere con mio padre. Non mi aveva mai vista uscire con gli amici per il semplice fatto che questi amici non esistevano. Non avevo rapporti con nessuno nella nostra classe, se c’era qualcuno che mi rivolgeva la parola quelle erano Annamaria e le sue suddite quando dovevano levarsi lo sfizio di farmi sentire uno schifo.
Sai, papà, tua figlia non ha nessun amico con cui parlare, nessuno con cui scherzare o uscire nei weekend. Anzi, la evitano tutti, tranne quei pochi che le parlano, la chiamano “palla di grasso”, “stupida” e chi più ne ha più ne metta.
Suonava decisamente male come cosa da dire a un genitore. Infatti non avevo mai detto nulla e mai l’avrei detto.
-Non esco perché nel weekend non mi piace uscire. –buttai lì, non sapendo cosa dire. –Lo sai, non sono una che ama queste cose. –
-Beh, non dico che tu debba andare in discoteca e bere superalcolici, però un’uscita di tanto in tanto non fa male. Mica vorrai essere la scansafatiche del gruppo. –
Mi lasciai sfuggire una risata nervosa. –No no… -
L’aria frizzante mi sferzò le guance tutt’a un tratto, come per rimproverarmi di quelle bugie costruite su fondamenta di sabbia. Ma erano a fin di bene, dopotutto.
Mi sistemai meglio la sciarpa con un sospiro, dopodiché istintivamente controllai che papà fosse coperto, ma lui allontanò la mia mano.
-Elaine, le braccia le so ancora muovere, non ho dimenticato come si fa. –mi redarguì. Mentalmente non potei fare altro che inveire contro me stessa.
-Ma dimmi, questo Nathaniel… è un bel ragazzo? –
La domanda, di primo impatto, mi colse impreparata e così su due piedi non seppi collegare il cervello per dire nulla di razionale.
-I-in che senso? –
-Come in che senso? –chiese papà perplesso, mostrandomi il profilo. -È bello o non è bello? –
-Ma… ma non lo so! –squittii messa alle strette. –Che vuoi che mi interessi!? –
Mio padre non si scompose nemmeno un po’. Cadde in un mutismo indecifrabile e improvviso, facendomi agitare senza che mi rendessi conto di come il mio umore fosse cambiato da un momento all’altro. Perché tutt’a un tratto ero così alterata?
C’era da dire che sapeva come farmi perdere la calma. Perché cavolo mi chiedeva se Nathaniel era carino o no? Non poteva chiedermi, che so… se praticava qualche sport nel tempo libero!?
-Insomma, che domande… -borbottai, prima di sbuffare contro la barriera di lana che avevo creato con la sciarpa. Il calore del mio fiato non fu l’unica cosa che mi riscaldò le guance: stavo arrossendo. Ma perché?
-Gira di qua, per favore. –mi esortò papà. -C’è un nuovo negozio che vorrei vedere. –
Confusa dalla situazione, evitai di fare ulteriori domande o affermazioni. Con aria scompaginata imboccai la via indicata da mio padre. L’ingresso nel negozietto mi permise di distrarmi da quelle congetture e abbandonai il frastuono dei pensieri per dare un mio giudizio su dei capi molto semplici che papà aveva adocchiato.
Con il consiglio di una commessa, optò per un maglione grigio. Non guardava mai al bello, ma solo a quello che gli occorreva. Non potevamo permetterci di fare shopping una volta alla settimana, quindi le poche volte che acquistavamo qualcosa da vestire, era sempre qualcosa di sobrio ma che potevamo mettere tutti i giorni.
-Ti sta molto bene. –dissi.
-Non costa nemmeno tanto. –affermò papà dando un’occhiata al cartellino.
-Vuoi vedere altro? –
-No, no… -scosse il capo e aggrottò la fronte. –Mi basta. Tu vuoi prenderti qualcosa? –
La commessa mi guardò disponibile, pronta ad essere d’aiuto.
-Beh… magari se aveste un maglioncino anche per me… -
-Che taglia porti? –mi domandò sorridente.
-Ehm… una xxl… -balbettai. L’imbarazzo salì con la stessa velocità di uno shuttle sparato in orbita.
Il viso angelico della commessa si dipinse prima di tenerezza, poi di dispiacere. –Mi spiace, ma arriviamo solo alla xl. –
Annuii accennando un sorriso indulgente, mentre la mia autostima veniva schiacciata senza che lei se ne rendesse nemmeno conto. –Non fa nulla. Grazie lo stesso. –
Uscii dal negozio con l’umore a terra. Quanto poco ci voleva per farmi abbattere. In fondo erano solo dei cavolo di vestiti, che senso aveva stare male?
Solo dei vestiti. Sono solo dei vestiti.
Dei vestiti che mi stavano troppo stretti.
Come tutto il resto.
-Nina. –
-Sì, papà? –
-Tu sei felice? –
Lo guardai a occhi sbarrati. –Cosa? –
Lui cadde nel silenzio per lunghi secondi, incurvato leggermente su sé stesso e con le mani aperte sulle ginocchia. Alla fine, scosse la testa.
-Nulla, non importa. –
Rimasi immobile per un tempo indefinito. Le mie dita fredde, strette attorno le maniglie di spinta della sedia a rotelle, non si mossero di mezzo millimetro, così come il resto del corpo e forse anche del mio cuore.
Dopo un po’ mi resi conto di aver smesso di respirare.
Quando rivolsi gli occhi all’asfalto e notai i segni scuri delle gocce di pioggia, capii che la passeggiata finiva lì. Strano come in pochi minuti il tempo fosse cambiato.
-A-andiamo… a casa. –mormorai. La mia voce troppo bassa sicuramente non aveva raggiunto mio padre, il quale continuò a non fare nulla e guardarsi le mani.
Che stava succedendo?
All’improvviso sembrava tutto così vuoto.
Dov’erano la pace e la leggerezza dei minuti precedenti? Che fine aveva fatto il tranquillo umore di poco fa?
Ritrovai la mobilità del corpo e guidai la carrozzina sotto un porticato, improvvisamente debole per colpa di una strana angosciante sensazione che mi intorpidiva.
Lungo la strada, gli ombrelli iniziarono ad aprirsi e quei pochi che non ne erano muniti si affrettarono verso i luoghi riparati, fatta eccezione per qualche caso noncurante che sfidava la pioggia di intensità crescente con un semplice cappuccio.
Quanto a noi, corremmo verso casa e in poco tempo fummo al coperto.
Appena sia io che mio padre ci fummo liberati dei cappotti e delle sciarpe, mi offrii di preparare due tazze di tè caldo. Lui amava berlo e lo avrebbe riscaldato dopo la nostra camminata al freddo.
Mentre armeggiavo con bustine, zucchero e pentolini in cucina, sentivo le parole di mia sorella provenire dalla camera accanto. Doveva essere al telefono con i fornitori.
Avrei voluto chiederle se voleva anche lei unirsi a noi per un tè, ma non volevo disturbarla. Gliene avrei lasciato un po’ nel pentolino.
-Papà, vuoi anche del latte? – gli chiesi dalla cucina. Non ottenendo risposta, mi diressi in salotto.
-Papà? –
Lo trovai già pronto davanti alla tavola con il capo chino, lo sguardo pensieroso perso nel vuoto, mentre si accarezzava il mento con un dito con fare distratto.
Lo chiamai un’altra volta. Lui alzò gli occhi su di me e mi disse un asciutto:
-Sì. –
-Tutto bene? –indagai, consapevole che qualcosa non andava quel giorno. Eravamo passati dal chiacchierare spensieratamente al silenzio carico di cose inespresse.
-Sì, sì, tutto a posto. –rispose sospirando.
Non insistei oltre e mi concentrai sul tè. Una volta pronto, gli portai la tazza fumante con il bricchetto di latte e mi sedetti al suo fianco con la mia tazza.
Ad un tratto la voce attutita di Seline provenne dall’altra stanza, attirando l’attenzione di entrambi.
-Lavoro, lavoro, sempre lavoro… - sospirò papà scuotendo la testa scontento. –Ha preso tutto da sua… -
La sua frase si interruppe lì. Il volto di papà si rabbuiò e sembrò staccarsi dalla realtà nel giro di un attimo. Capii che si riferiva alla mamma, perché non era mai stato più capace di nominarla da quando se n’era andata.
E così la mia giornata era rovinata irreparabilmente. Se prima mi sentivo triste, adesso mi sarei tumulata nella mia depressione.
Mi alzai con la tazza in mano, ancora piena di tè. Balbettai che avevo finito anche se non era vero. Me ne andai in cucina, appoggiai la tazza e mi coprii la bocca con la mano, prima che calde lacrime si riversassero sulle mie guance come fiumi.
È colpa tua, Elaine.
-Perché… -fiatai. Le spalle tremanti, il volto stravolto da una smorfia di dolore, la testa che esplodeva, il mondo che esplodeva, il mio cuore che sanguinava di lancinanti sensi di colpa.
 
------------------------------------------------------------------------------------------------ 

-Ciao, Elaine! –
Alzai gli occhi come un automa verso la voce che mi chiamava. Nathaniel. Nathaniel mi stava di fronte. Perché mi stava di fronte?
Guardai oltre lui. Perché la Dolotti era in classe? Dov’era Castelletto?
-Ciao… -risposi inespressiva, senza capire.
-C’è supplenza con la Dolotti. Non lo sapevi? –mi informò.
Improvvisamente ricordai: sabato era entrata la bidella per annunciare qualcosa, che però, a causa dell’agitazione per l’incontro con Nathaniel quello stesso pomeriggio, mi era letteralmente entrata da un orecchio e uscita dall’altro. Evidentemente era per dirci che Castelletto non sarebbe stato presente oggi e che avremmo avuto supplenza di storia dell’arte.
Mannaggia a me e alla mia ansia. Guardai velocemente nello zaino per vedere se per pura fortuna i libri della biblioteca fossero lì o se invece li avessi lasciati a casa. E per fortuna c’erano. In effetti c’erano solo quelli: non avevo messo altri libri nella cartella, se non il quaderno di scienze, che il lunedì non avevamo neanche in programma.
Elaine, ma che combini?
Per quel poco che avevo dormito quella notte, era strano, se non straordinario che fossi riuscita ad alzarmi dal letto, arrivare a scuola e rimanere sveglia fino a quell’ora. Mi sentivo come un buco, anzi no una voragine, nella testa.
-Tu come facevi a saperlo? Non c’eri quando l’hanno detto. –osservai.
Nathaniel scrollò le spalle. –Me l’hanno detto gli altri per telefono. –
-Oh, ok. –
-Ah, sono occhiaie quelle! Da lontano sembrava che ti avessero presa a pugni. –commentò sedendosi di fronte a me.
-Sì, molto spiritoso… -mormorai, per poi lasciarmi andare a uno sbadiglio poco elegante.
-Non siamo in vena di scherzi, ah? –
Scossi il capo lentamente. I libri praticamente li lanciai sul banco per svogliatezza.
-È tutto ok? –
-Lascia stare. – risposi secca. –Hai portato il computer? –
-Sì. –
Prontamente, sollevò una borsa sottile e rettangolare di colore grigio. Posizionò il computer sul banco e sollevò lo schermo.
-Posso mettermi anch’io dalla tua parte così ti mostro le immagini che ho scelto? – mi chiese.
Non ci pensai più di tanto, non mi interrogai su cosa sarebbe significato stare vicino a lui. Ero talmente presa da mille pensieri, tanto per cambiare, che risposi con un semplice “Ok”.
Ecco, un consenso dato così a cuor leggero, col senno di poi, indica che non avevo ancora idea a cosa stessi acconsentendo realmente. Perché io non avevo ancora idea di cosa volesse dire avere Nathaniel Søndergaard così vicino.
Appena lui si fu seduto accanto a me, dopo aver trascinato la sedia ed aver girato il computer, un’ondata di profumo mi avviluppò come la più calda delle coperte, lasciandomi piacevolmente scompaginata. Nathaniel appoggiò i gomiti al banco, si riavviò il ciuffo, tossicchiò e rivolse i suoi occhi azzurro mare allo schermo in accensione. Mentre schiacciava qualche tasto in velocità, facendo non so cosa per dar vita a quell’affare, ebbi tutto il tempo per ammirare il suo profilo. La luce della classe a poco a poco si offuscò, i rumori di fondo scemarono e rimasero solo quei lineamenti forti, quella marcata mandibola, quelle labbra sottili e cesellate ad opera d’arte.
Mormorò distrattamente qualcosa su come fosse lento ad accendersi e forse buttò giù anche un’invettiva contro il computer, ma per qualche arcano sortilegio le mie orecchie sentivano solo la sua voce bassa e avvolgente. E ne volli di più.
-Ripetilo… -
-Come? –
Finì tutto nell’arco di due secondi. La luce ritornò di colpo e il brusio della classe mi investì spietato. Ritornai in me appena mi resi conto di aver parlato. Scossi il capo, le guance in fiamme e guardai di scatto lo schermo.
-N-nulla, nulla… -
Dio, spero che non abbia davvero capito!!
-Ehm… ok. Beh, questo è quello che ho trovato. Dimmi che ne pensi. –
Raccolsi tutte le mie poche forze per catalizzare la mia attenzione sul computer e non distrarmi. Osservai le immagini da lui scelte con interesse, per lo meno così tentai di dare a vedere. –Sì, sì, v-vanno bene… -
-Davvero? Io per l’ara pacis ero indeciso tra questa e… questa. –
Indicai la foto migliore e senza nemmeno guardarlo mugugnai: -Questa. –
-Ok… Elaine, sicura che sia tutto a posto? –
Annuii con vigore. Mi sembrava di essere una bambina che cercava di nascondere il biscotto rubato dallo sguardo indagatore della madre.
-Beh… vuoi farmi vedere cosa hai fatto tu? – propose Nathaniel con un sospiro.
Feci un respiro profondo e mi dissi “Va bene, basta delirare. Al lavoro!”
Da lì in poi cercai di non pensare ad altro che alla ricerca. Lavorammo tutta l’ora, quasi con lo stesso zelo che avevamo impiegato due giorni prima a casa sua. Mi distesi a poco a poco, mettendo da parte i timori e gli imbarazzi e dando il meglio di me nel lavorare e nell’aiutare Nathaniel dove era necessario.
A un certo punto, un’ombra oscura calò su di noi. Alzai gli occhi solo io, perché lui era impegnato a scrivere qualcosa al computer. Dietro le spalle di Nathaniel, vidi Lucia, la quale mi lanciò un’occhiataccia che lì per lì non compresi. Restai a guardarla perplessa e un po’ intimorita per alcuni secondi, domandandomi cosa avessi combinato. Ma forse era solo uno dei tanti momenti in cui manifestava il suo odio gratuito nei miei confronti. Quindi decisi di lasciar perdere e di tornare alla ricerca.
Nathaniel non si accorse di nulla, mi interpellò per un parere sulla costruzione di una frase e persi in un batter d’occhio ogni interesse per Lucia e il suo sguardo malefico.
Proseguimmo nel nostro lavoro fino a che la campanella non suonò con insistenza e la professoressa De Angelis non comparve sulla soglia.
-Cavolo, è già finita l’ora? –commentò Nathaniel stupito. Racimolò le sue cose e mi salutò. –Continuiamo mercoledì, allora? -
Esitai un attimo ma poi annuii e gli sorrisi.
L’ora di matematica scivolò via veloce, la professoressa si perse a spiegare con i suoi soliti paroloni altisonanti l’utilizzo dell’operazione matematica che cercava invano di farci imparare. In venti minuti di discorso, tutto ciò che ottenne fu una classe sonnolenta che teneva gli occhi aperti a fatica solo per non farsi buttare fuori dall’aula a suon di invettive.
Dopo l’ora di matematica, fummo liberi di uscire. Nathaniel si soffermò sulla porta prima di andarsene con lo zaino in spalla, si girò verso di me e mi salutò con un cenno.
Io mi ritrovai a sorridergli come una povera demente e ricambiare con la mano.
Appena lui fu uscito dall’aula, qualcuno mi si parò davanti.
Con un vago presentimento di chi potesse essere, alzai lo sguardo per incontrare gli occhi di Lucia, iniettati di astio.
Mi ritirai istintivamente aggrottando la fronte. Ma che diavolo le avevo fatto?
Lei, tuttavia, non disse nulla, ma si voltò e se ne andò come nulla fosse.
-Mallori? –mi richiamò la De Angelis perplessa.
Mi sbrigai a riempire lo zaino e ad uscire.
Raggiunsi casa con un passo quasi allegro, poco ci mancava che non mi mettessi a saltellare come un puledro. Passai vicino a una pizzeria al taglio, ci pensai un po’ su e decisi di entrare. Per qualche pezzo di pizza non ci saremmo rovinati, soprattutto adesso che le finanze di casa andavano un po’ meglio, no?
Poco dopo, aprii la porta dell’appartamento esclamando: -Ciao papà, sono a casa! –
La risposta non si fece attendere.
-Ciao, tesoro! Sei arrivata in anticipo oggi! –
Gli sorrisi. Lui mi sorrise di rimando.
Non avevo dimenticato il perché quella mattina era iniziata male, le lacrime della sera precedente e la marea implacabile di tristezza che mi aveva fatto compagnia quella notte. Ma adesso per qualche strana ragione mi sentivo un po’ sollevata.
Se ci pensavo non sapevo perché mi sentissi così, ma mi piaceva e questo mi bastava.
-Oggi pizza! –annunciai posando il pacco caldo sulla tavola da pranzo.
-Uuh, addirittura? –esclamò papà ridendo. –Dobbiamo festeggiare qualcosa? O semplicemente non avevi voglia di cucinare? –
Gli feci la linguaccia divertita. –Per una volta posso permettermi di far felice il palato, invece della solita triste pastasciutta. –
-Ci sta, ci sta. – convenne lui annusando deliziato l’aroma diffuso nell’aria. –Dai, prepariamo la tavola. –
In una ventina di minuti, tra una chiacchiera e l’altra sulla giornata, spazzolammo tutta la pizza, tranne un pezzo, che decidemmo di mettere da parte per Seline, la quale sarebbe tornata a casa un po’ tardi. Papà mi informò di questo con volto cupo, ma cercai di rasserenarlo.
Dopodiché, sparecchiammo; papà si sistemò davanti al televisore, intanto che io lavavo i piatti, canticchiando con un’insolita allegria.
Una volta finito, aiutai mio padre a mettersi a letto e me ne andai in camera a studiare. Non ero de tutto concentrata, avevo un non so che che mi frullava in testa e che mi distraeva. Sentivo una strana eccitazione che non sapevo spiegare né definire. Era quasi stupido, essere così contenta per un motivo sconosciuto.
Tuttavia dovevo fare qualcosa di produttivo prima di andare al lavoro, pertanto cercai con tutte le mie forze di concentrarmi e di impegnarmi e per fortuna riuscii a studiare bene bene fino a che non arrivò l’ora di andare.
Quatta quatta, mi vestii e uscii di casa.
Arrivata al supermercato, mi misi a lavorare con energia, salutando i clienti con un sorriso un po’ più grande e una gentilezza più marcata del solito. Quando un ragazzino fece accidentalmente crollare l’espositore di caramelle, il mio buonumore calò un po’ ma tutto sommato la giornata proseguì bene, anche quando, per il gran numero di clienti, le file alla cassa si allungarono e dovetti accelerare.
Continuai più o meno con lo stesso ritmo fino a sera. Ero stanca, la schiena mi faceva male e le braccia anche, ma mi sollevava sapere che di lì a poco sarei tornata a casa.
A quell’ora la gente era poca per fortuna, visto che era quasi ora di cena.
Salutai una ragazza in uscita con l’ennesimo “Arrivederci e grazie!” e mi voltai verso il nuovo cliente.
-Oh, buonasera! –salutò una voce familiare.
La vecchietta che avevo aiutato! Un sorriso spontaneo mi nacque sulle labbra appena la riconobbi, con quegli spessi occhiali e quel giubbotto marroncino.
-Buonasera, signora. – risposi cordiale. –Come sta? –
-Oh, benissimo, ti ringrazio. –rispose lei con un sorriso. –Niente bestioline affamate stasera. –
-No, per fortuna. – sospirai, pensando alla pestifera Cecilia.
-Meno male. Tu come stai, cara? – mi chiese.
-Non c’è male, grazie. –risposi facendo spallucce. Guardai il carico di prodotti che si portava dietro e notai che aveva preso molta roba anche questa volta.
-Spesa leggera anche oggi? – scherzai.
-Oh, beh, sai… non si sa mai cosa può mancare a casa. Non ho mai molto tempo né voglia per fare la spesa. Quelle poche occasioni in cui riesco a passare per di qua faccio un rifornimento abbondante. –
-Certo, capisco. –annuii, iniziando a passare tutto sulla cassa.
-Poi con quello che mangiano i miei nipoti quando sono da me, se non comprassi così tanta roba mi ritroverei a vivere di aria. – Sorrisi. –Sono due macchine da guerra quei due. –
-Quanti anni hanno, se posso chiedere? –domandai, tanto per conversare un po’.
-Dieci anni tutti e due. Sono gemelli. –disse con occhi quasi sognanti. –Sono la mia gioia. Ma come quei due, non ho mai visto nessuno mangiare… -
Ridacchiai. Dopo un po’, terminai di passare la spesa e le comunicai il prezzo.
-Posso darle una mano, se vuole. Senza problemi. –mi offrii, valutando che con tutta quella roba, avrebbe riempito sì e no quattro borse almeno.
-Beh, stavolta non posso nemmeno permettermi di rifiutare per educazione. Ho una schiena che mi fa vedere le stelle. –ammise lei imbarazzata. Le sorrisi intenerita.
-Mi faccia fare l’ultima persona e sono da lei. –
Lei mi ringraziò e continuò con calma a racimolare i prodotti e a infilarli nei sacchetti.
Quando la raggiunsi, dopo aver finito con l’ultimo cliente ed essermi tolta la divisa, aveva appena finito di riempirli. Dovetti fare due viaggi per portare tutte e quattro le borse. Fuori il tempo era orribile: pioveva a dirotto, vari lampi illuminavano a intermittenza il cielo annuvolato e in lontananza si sentivano anche i tuoni. La signora spostò la macchina davanti all’entrata del supermercato per facilitarmi il compito e una volta sistemato tutto nel bagagliaio, mi chiese:
-Sei a piedi? – Considerato che Seline sarebbe arrivata tardi dal lavoro, di sicuro non sarebbe riuscita a passare a prendermi, perciò annuii. –Santo cielo, salta su allora, che ti porto a casa. –
-Grazie, ma non serve… -
-Oh, avanti. Devo ricambiare per l’aiuto che mi hai dato stasera. Ad ogni modo, non me lo perdonerei mai se ti lasciassi andare in giro con questo tempaccio. –replicò lei gentilmente. All’improvviso un violento tuono scosse l’aria facendo sobbalzare entrambe.
-Beh… magari per stavolta lo accetto un passaggio… -ridacchiai. Salimmo in auto e venni subito inondata da un terso profumo di vaniglia che mi avvolse i sensi. La signora squittì qualcosa mentre si sedeva e chiudeva la portiera, ma non la sentii.
-Mi rendo conto solo adesso che non mi sono nemmeno presentata. Mi chiamo Mariangelica Callisieri. –
Mi porse la mano rugosa con il volto vispo di chi si sente finalmente utile a qualcosa. Gliela strinsi con un sorrisone.
-Io mi chiamo Elaine Mallori. Piacere mio. –
Mariangelica… ripetei a mente. Era un nome importante, sapeva di regale e di dolce allo stesso tempo. Lo adoravo.
-Hai un nome straniero. Non sei italiana? – considerò la signora Callisieri nell’allacciarsi la cintura.
-Sono metà italiana e metà danese. Da parte di madre. – dissi.
-Oh, quindi ti hanno messo un nome danese. –
-Non è un nome danese in realtà, sarebbe inglese, ma era il nome della mia bisnonna materna. –spiegai.
-Oh, davvero? – Inarcò le sopracciglia incuriosita, mettendo in moto. –Ma dimmi, vai in Danimarca con la tua famiglia di tanto in tanto? –
-No, purtroppo no. –
Sa, in mancanza di mia madre…
La signora dovette avvertire il mio sottile cambio di tono, una reazione che mi sorse spontanea al pensiero di mia madre.
-Che peccato, è un paese meraviglioso. Sai, i paesi del nord Europa sono stupendi. Io ho sempre viaggiato molto in gioventù e ogni volta che ritornavo a Copenaghen, a Oslo o nella bellissima Rauma, in Finlandia. Ne hai mai sentito parlare? –
Scossi il capo interessata. La pioggia che colpiva il parabrezza con prepotenza faceva da sottofondo alla nostra conversazione, intanto che l’auto avanzava con cautela sulla strada, guidata dalla prudenza della vecchietta accanto a me.
-Quando avrai occasione di viaggiare, ti consiglio di andarci. È una città a dir poco magnifica. Ci abitano alcuni miei amici di vecchia data, i quali mi hanno ospitata molto volentieri per qualche tempo nel… fammici pensare, nel ’68, se non ricordo male. Per dove devo andare, cara? –
-Da quella parte. –le indicai con la mano la strada e proseguì. –Non si preoccupi, non abito lontano dal supermercato. –
-Oh, non sarebbe certo stato un problema, ti pare? –ribattè la signora accigliandosi. –Però devo dirtelo, uscire di casa con un tempo così instabile senza macchina è stata una mossa incosciente. –
-Purtroppo non ho nessuno a casa che mi possa venire a prendere, mia sorella è l’unica con la macchina e torna tardi dal lavoro. –spiegai.
-E tu non hai una macchina tua? –chiese. Scossi il capo con una certà ovvietà. –Beh, no, sono troppo giovane per avere la patente. –
La signora Calllisieri corrugò la fronte. –Ma scusami, cara… quanti anni hai? –
-Ne ho diciassette, signora. –
Mi guardò con stupore da sopra le spesse lenti. –Davvero!? –
Annuii. –Beh, lasciatelo dire, sembra che tu ne abbia almeno venti. –
Ridacchiai. Le diedi ancora indicazioni sulla strada arrivate a un semaforo che era già verde, guardò tre volte sia a sinistra che a destra, sembrò rimanere un po’ indecisa sul da farsi, finché non si decise ad attraversare l’incrocio. Guardai il tutto trattenendomi dal sorridere divertita.
-Ma sei giovane per lavorare. –commentò poi.
Mi strinsi nelle spalle. –Devo contribuire anch’io in casa. –
-Anch’io alla tua età lavoravo, quelli erano tempi duri. Mi ricordo quando… -
Non resistette a raccontarmi un po’ di vicende dei tempi che furono come ogni vecchietto che si rispetti; la ascoltai in silenzio, con una certa deferenza, e intervenni ogni tanto con qualche commento e qualche domanda.
Di tanto in tanto la fronte rugosa di quella simpatica vecchietta si corrugava per la concentrazione nel guidare. Passammo vicino alla fontana di Trevi, quasi del tutto vuota, resa luccicante dalla luce dei lampioni. Ero quasi arrivata.
-Ce l’hai il fidanzato, Elaine? –mi chiese di colpo la signora.
Presa in contropiede, esitai. Alla fine scossi il capo, con la solita malinconia che mi prendeva quando affrontavo quell’argomento.
-Nessuno? Mi sorprende! –
-Beh… in realtà a me no… - mormorai, sperando di non essere sentita, ma invano.
-Come mai dici questo, cara? –domandò infatti lei con aria perplessa.
Sospirai. –Non è evidente? –
-Non capisco cosa intendi dire. –
-Insomma, non ho esattamente ciò che si definisce un corpo da copertina… - mormorai stringendo le spalle. Ogni volta dirlo ad alta voce era difficile. Lo sapevo già cosa ero e cosa non ero, ma spiegarlo o pronunciare quella parola era come una stilettata al cuore.
Grassa. E la cosa peggiore era sentirsi rivolgere le solite consolazioni di circostanza: “Non è vero, non sei grassa!” oppure “C’è chi sta molto peggio, non ti preoccupare!”.
Mi facevano sentire forse peggio di quanto non mi sentivo quando Annamaria mi offendeva. Come se fossi un’idiota, come se fossi cieca… come se così mi potessi sentire meglio guardandomi allo specchio.
-E allora!? –squittì la signora Callisieri quasi scoppiando a ridere.
-Beh… limita parecchio. –
Stavolta la signora rise davvero e senza trattenersi. –Ragazza mia, ma che diavolo stai dicendo? –
Sentii improvvisamente un forte calore invadermi il viso.
-Mi ricordo quando ero giovane io. Se non avevi carne addosso non ti guardavano nemmeno, non piacevi. Essere grosse era segno di ricchezza. Adesso dicono che se non sei magra non puoi essere felice e allora tutte vogliono essere magre. Poi magari tra cent’anni diranno che sei felice solo se hai le gambe storte e allora tutte si faranno venire le gambe storte. – Ridacchiai a quella semplice constatazione. -Ma sei davvero convinta di essere brutta? –
Annuii senza alcun ripensamento.
-Se incontrassi un giovanotto per strada che ti ferma e ti fa un complimento, tu che penseresti? –
-Che ha perso gli occhiali da vista o che mi sta prendendo in giro. –affermai.
-E che faresti? –continuò.
-Mah… gli riderei in faccia e me ne andrei seduta stante. –buttai lì con una risata amara.
La signora Callisieri mi rivolse un sorriso. -Mia dolce Elaine, permetti a questa povera vecchietta ficcanaso di essere un po’ dura con te? –
Esitai per qualche secondo, temendo cosa mi avrebbe detto, ma alla fine acconsentii.
-Tu saresti interessata ad un ragazzo che cammina curvo su sé stesso, che risponde a un complimento con una risata e che ripete continuamente di essere orrendo? –
-Beh… no… -
-Complimenti, mia cara. Hai scoperto l’acqua calda. –sentenziò la signora con tono solenne. Le rughe intorno alle sue labbra si moltiplicarono quando trattenne un sorrisetto orgoglioso. Avevo capito il paragone, ma non ero del tutto certa di cosa intendesse dirmi. –Per dove adesso, cara? –
-Per di qua. È la mia via. –dissi, puntando a sinistra.
-Oh, bene. C’è qualcuno che ti aspetta a casa? –
-Sì, mio padre. – risposi. Sostò davanti al portone. –La ringrazio davvero tanto per il passaggio. –
-Non c’è di che, Elaine. –disse la signora Callisieri con un ampio sorriso. –Grazie di nuovo a te per la mano che mi hai dato. A presto! –
-A presto! –
Scesi dall’auto e corsi al coperto, voltandomi poi per salutare con la mano. Mentre l’auto ripartiva in tutta calma –il che mi sembrò un po’ comico -, qualcosa dall’altra parte della strada catturò il mio sguardo. Una sagoma umana immersa nell’ombra era appostata all’angolo del palazzo di fronte e mi fissava. Appena puntai gli occhi in quella direzione, la figura si ritirò immediatamente dietro il muro.
Perplessa mi rivolsi al portone, estrassi il mio mazzo di chiavi e mi misi a cercare quella giusta. Guardai di nuovo verso l’angolo del palazzo e vidi che la figura si era sporta di nuovo per guardarmi. Si nascose di nuovo.
Il mio cuore prese a correre. Perché mai qualcuno dovrebbe nascondersi quando viene notato? Mi stava… spiando? Non riuscivo a vederne il volto. Un’angoscia mi pervase e l’adrenalina provocata dalla paura mi spinse a precipitarmi dentro il mio condominio. Prima di chiudere il portone, lanciai un’ultima occhiata fuori, ma non c’era niente. Chiusi il portone di scatto, chiamai l’ascensore e mi ci lanciai dentro, in balìa del panico, ma felice di essere finalmente a casa.
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: WordsLuver