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Autore: carachiel    31/01/2016    1 recensioni
Una fanfic che tratta la morte di Kite analizzando pensieri e reazioni della persona che teneva di più a lui, ossia Five.
Probabilmente la What if più triste mai uscita dalla mia penna, adesso privata di ogni errore.
Tratto dal testo:
Più sentiva i suoi battiti rallentare più gli sembrava che gli stessero strappando via l’ anima dal petto.
Cercò di comprimere il dolore in un angolo, perché non voleva che l’ ultima cosa che il suo amico vedesse fosse la sua sofferenza.
Ad un certo punto Kite gli sussurrò all’ orecchio poche parole, come a volergli dire addio, poco più di un sussurro, per poi esalare l’ ultimo respiro.
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Ogni riferimento, ogni speranza, ogni sogno era scomparso, inghiottito da quel bianco che lo circondava.
Nulla, neppure le tecnologie più avanzate, né filtri e pozioni avrebbero potuto riportare in vita Kite.
E niente avrebbe potuto porre rimedio a quel grande buco nero che gli si era formato nel petto, ingoiando ogni illusione e ogni speranza, lasciando posto solo ad una lacerante disperazione.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Christopher Arclight/ Five, Kaito Tenjo/Kite Tenjo
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2: Tutto quel che è in un abbraccio.

Nda: Byron è tornato con le sembianze originali

Una volta varcata la porta di casa Four lo aggredì: “Ma si può sapere dove sei stato? E’ tutto il giorno che ti aspettiamo! Accidenti, eravamo preoccupati ! 
…O meglio, quei due lì” disse indicando con un cenno Three e il padre “erano preoccupati. A me se ci sei o non ci sei non fa né caldo nè freddo.” chiarì, come a voler rimarcare la distanza che lo separava dal fratello. 

Five lo scansò, oltrepassandolo, per poi dirigersi verso la propria camera. 
Una volta lì si lasciò cadere sul letto, esausto, sprofondando in un sonno senza sogni. 

“Cioè, mi ha ignorato? Mi ha ignorato! Appena esce di lì giuro che lo faccio pentire di avermi trattato così !” esclamò Four, ancora arrabbiato per il trattamento ricevuto dal fratello maggiore. 
“Thomas, è ovvio che sia sconvolto. Tu come ti sentiresti se ti fosse appena morto il tuo migliore amico ?”replicò calmo Byron guardandolo in tralice 
“…Che cosa ??” 
“E’ così. Ed è assolutamente naturale che tuo fratello sia distrutto. Me l’ ha comunicato ieri mattina Faker.” spiegò piatto l’ uomo, lasciando Four per la prima volta nella sua vita, senza parole. 

“Accidenti, perché nessuno mi ha detto nulla ? Gli avrei potuto dire qualcosa ! 
Ora capisco perché aveva quello sguardo stravolto quand’è uscito…” esclamò il diciassettenne gettando occhiatacce infuocate al padre. 

“Perché quando qualcuno soffre si tende, anche solo involontariamente, a lasciare sola quella persona. 
Il dolore è qualcosa che va superato individualmente e, per quanto tu possa dare conforto, non basterà mai a colmare il vuoto che si crea nel cuore, come una voragine o un buco nero, che inghiotte tutto. 
Se ci pensi bene è molto più facile dire “Il mio dente fa male” che dire “Il mio cuore è spezzato”. Eppure negare non può essere una soluzione, sebbene quando si soffre si faccia di tutto pur di non farlo pesare agli altri.” 

E Byron sapeva fin troppo bene quello che stava dicendo. 
Senza saperlo, stava ripetendo quello che gli aveva detto suo fratello, molti anni prima, quando si era ritrovato con tre figli da crescere e un senso di abbandono crescente nel petto.


La lucida spiegazione del padre lasciò Four di nuovo senza parole: il diciassettenne, scioccato e confuso, biascicò un veloce “a dopo” per andarsi a chiudere nella propria stanza, col rumore di quelle parole che gli rimbalzavano nel cervello come un'eco impazzita. 

Passarono tre giorni e la situazione non migliorò affatto. 
Il ventenne si presentava solo ai pasti, senza dire una parola. 
Mangiava e sparecchiava, per poi andarsi a rinchiudere nella propria stanza a pensare a chissà cosa. 
Era diventato un fantasma, una muta presenza, un estraneo persino per la propria famiglia. 

Three, una volta trascorsi cinque giorni, iniziò a preoccuparsi seriamente. 
Five non era mai stato molto loquace ma adesso era diventato talmente silenzioso da essere inquietante.
I tre decisero di fare una riunione per cercare di trovare una soluzione.
“Non possiamo andare avanti così! Sono cinque giorni che Five ci ignora! Dobbiamo fare qualcosa !” sbottò Three, che non riusciva proprio a tollerare quella situazione innaturalmente tesa. 
“Beh, se ti vengono in mente idee brillanti proponi pure, signor “Dobbiamo fare qualcosa”! Io credo che andrò a farmi un panino.” disse Four alzandosi dal divano e dirigendosi verso la cucina. 
“Non pensarci proprio !” lo riprese il padre “Tu rimani qua e insieme cerchiamo una soluzione.” 
“Insieme? Scusa, mi vuoi spiegare da quando in qua in questo “noi” saresti incluso anche tu?” 
“Five è anche mio figlio, potrò nutrire almeno un briciolo di preoccupazione nei suoi confronti?” 
“Se permetti, Christopher Arclight era tuo figlio, dopo quello che gli hai fatto dubito che lui ti consideri ancora come parente o parte integrante di questa... “famiglia”, se così si può chiamare.” replicò Four guardandolo con aria di sufficienza.

"Esattamente come me e Three... A volte fatico a credere davvero che lui ci consideri effettivamente parte di uno stesso nucleo.” pensò amaramente il Puppet Master ripensandoci.

“Non lo saprò mai se continuo ad ignorarlo, esattamente come fai tu, che lo fuggi come la peste.” 

“Non sono stato io ad evitarlo, è lui che mi ha scansato.” Disse a mo’ di scusante.
“Già, ma siamo stato tu a permetterglielo.” intervenne Byron. 
“L’ho già perso una volta, non posso permettermi di perderlo di nuovo.” pensò dirigendosi verso la camera del figlio maggiore.
Una volta davanti alla porta di mogano esitò un istante, vedendola accostata. Sapeva che se essa era aperta si poteva entrare liberamente, mentre quando era chiusa stava a significare che era meglio non disturbare. Aspettò un secondo per poi bussare delicatamente. 
Un leggero “Toc toc” ruppe l’opprimente silenzio che regnava nella camera di Five, spezzando l’atmosfera gelida. Il ventenne, seduto sul bordo del letto e lo sguardo perso nel vuoto, voltò appena la testa per poi mormorare “Avanti.” 
“Ti posso parlare ?” esordì Byron entrando. 
“Va bene.” L’uomo si sedette accanto al figlio, un po’ distante 
“Come stai ?” 

“Non faresti prima a chiedermi come non sto? Non felice, e questo dovresti poterlo intuire da te.” pensò con amara ironia 
“Bene.” 
“Chris, non mi mentire. Te lo leggo negli occhi che non è così.” 
“Quando la smetterai di chiamarmi con quel nome? Lo sai anche tu che quella persona che era Christopher Arclight è morta e non potrai riportarla indietro.”rispose, irritato dal suono di quel nome che gli riportava alla mente troppi ricordi sgradevoli 

“Non mi importa poi molto. Che tu ti faccia chiamare Five o Christopher Arclight non cambia nulla. Non è il nome a determinare chi siamo, sono le nostre azioni e le nostre scelte.” 
“Ah, non sapevo che per te questo discorso non valesse. Non puoi ripresentarti qui dopo cinque anni e pretendere di fingere che non sia cambiato nulla, pur di recuperare uno straccio di rapporto con noi. 
Le persone cambiano, il tempo passa.” disse Five con un tono tagliente come il ghiaccio dell’ artico. 

Non era mai riuscito a perdonare del tutto al padre quei cinque, lunghi anni di assenza e, sebbene il padre cercasse di riavvicinarsi, da lui non avrebbe ricevuto altro che fredda indifferenza. 
Serviva ben altro che delle belle parole a farlo sciogliere.

“Sarà come dici tu, ma mi sembra che il tuo rapporto con Kite non sia cambiato, a giudicare da come hai reagito.” “Non nominarlo. Tu non hai neppure il diritto di pronunciare il suo nome, soprattutto dopo quello che mi hai ordinato di fare ad Hart.” replicò il ventenne trattenendo a stento uno scatto d’ ira.
“Io…”
“Vorresti non averlo mai fatto, vero? Eppure l’hai fatto, e io ti ho obbedito, come un bravo soldatino. 

Neppure le tue belle parole adesso serviranno a qualcosa. 
Le tracce restano.” disse Five senza nascondere il pungente sarcasmo nelle sue parole. 

Poi si alzò e si diresse verso la finestra. 
Oltre le finestre la neve aveva cessato di cadere e un forte vento faceva ondeggiare i rami spogli degli alberi, tesi come braccia scheletriche a ghermire l’aria, mentre la flebile luce che riusciva a perforare le spesse nubi grigie trafiggeva i vetri resi opachi dal calore che aleggiava nella stanza. 

Sospirò pesantemente per poi mormorare a bassa voce: “Ti prego, non lo nominare. Tu non hai idea di quanto mi sia costato dirgli addio.” 

Byron rimase per un attimo scioccato dalla risposta del figlio. “Ti prego” erano due parole che Five usava molto raramente, ed era la prima volta che ammetteva apertamente quanto gli mancasse l’ amico. 
L’ uomo si alzò e gli si avvicinò, fino quasi a toccarlo per poi carezzargli affettuosamente i lunghi capelli argentei. 
“Posso fare qualcosa per te ?” gli domandò dolcemente 
“No, a meno che tu non possa cambiare il passato, ma non credo che tu possa.” replicò il ventenne chiudendo gli occhi, mentre la rabbia e il rancore che gli avvelenavano il sangue scemavano. 
“Neppure potendo vorrei farlo. 
Il passato costituisce ciò che siamo, nel bene e nel mare e cambiare ciò che è stato equivarrebbe a distruggere una parte di noi stessi. Converrebbe davvero farlo?” 

“Cambiare il passato forse cambierebbe ciò che è stato.”

“Lo so, non è bello e non è giusto ciò che ho fatto, e se ancora adesso pago lo scotto delle mie azioni vuol dire solo che è giusto così.” disse. 

Five sollevò appena la testa per andare ad incrociare gli occhi verde chiaro del padre e vi lesse solo un disperato bisogno di amore, al di là del prezzo da pagare pur di ottenerlo. 

No, non sarebbe bastato chiudergli una porta in faccia per lasciarlo fuori dalla sua vita. 
Lui sarebbe rimasto lì, con quella sua dolce insistenza.

Byron prese un respiro profondo per poi avvicinarsi al figlio e attirarlo a sé cingendogli le spalle. 
Gli passò una mano tra i morbidi capelli e ne respirò il profumo, trattenendolo più che poteva, come se fosse un prezioso incenso d’Oriente. Dopo qualche istante percepì che l’ altro si irrigidiva e allentò la stretta, affinchè potesse andarsene, se voleva. 

Non se ne andò. 

Five rimase lì, fermo, lasciandosi stringere dolcemente, ripensando all’ultima volta che suo padre l’aveva stretto così.
Quando erano ancora una famiglia.

Sebbene quei tempi sembrassero talmente lontani da appartenere a un’altra vita improvvisamente gli sembrava che fosse possibile ricominciare. Certo i rimpianti e i rimorsi sarebbero rimasti, ma sentiva prepotente il bisogno di tornare a vivere.
Era arrivato a un bivio, e da lì in poi si poteva solo andare. 

Ci pensò per un istante, poi finalmente trovò nel profondo di sé il coraggio per ricambiare l’abbraccio e azzerare la distanza tra di loro, mentre il muro che si era costruito nel cuore per proteggere quella parte di sé che ancora sperava, pian piano si sgretolava, mattone dopo mattone, lasciando libero sfogo al dolore che aveva trattenuto per troppo tempo. 
Appoggiò il capo sulla spalla del padre e chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dalla tenerezza di quel discorso così silenzioso eppure così eloquente. 
Si strinse un poco di più, mentre il calore di quel contatto così intimo lo avvolgeva e lo faceva sentire al sicuro, come se tutto il resto non fosse mai successo, come se fosse stato solo un brutto sogno, una realtà sospesa e illusoria. 
I loro due battiti si fusero in uno solo per un istante e i respiri risuonarono uno nell’altro, mentre ognuno trovava in quell’abbraccio caldo e sincero la certezza di essere amato. 

*Epifania: Manifestazione della divinità, illuminazione.

   
 
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