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Autore: Aurelia major    19/03/2009    1 recensioni
L’osmosi può essere fisica o psicologica. Una consiste nel passaggio e la fusione di due liquidi di diversa concentrazione, la seconda invece, avviene attraverso l’influenza tra persone, modi, stili di vita e culture. Nei brevi racconti qui presentati tento di sviscerare entrambe, poiché, incidentali oppure metafisici che siano, questi trattano di frammenti di vita diretta, ma anche ipoteticamente vissuta. Ché per osmosi chiunque potrebbe essere contemporaneamente sé stesso e mille altri.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Un’ottava sotto

 

 

  

 

 

Che brano ridondante, zeppo d’acuti e acciaccature, come può esserlo solo un panettone di canditi. Infatti, proprio come quello, lo trovo pesante, indigesto al punto da darmi  la nausea.

Vorrei essere altrove, distante dal leggio dove incombe e m’attende, come una maledizione biblica, questa esecrabile partitura punteggiata di trilli. Mio dio, mi riporta alla mente immagini  di bambole di porcellana e melodie di carillon veneziani, di damine vezzose e cicisbei compiti.

Detesto tutto questo e, sopra ogni cosa, vorrei correre all’aperto, lontano dagli stucchi che mi limitano il perimetro e dai velluti che ammorbano l’aria già stantia di questo salotto. Qui ho l’impressione che corra il rischio di diventare parte integrante del perenne immobilismo che lo satura. Pure mi costringo ad accomodarmi e aprire il coperchio, liberando il tenue lucore dei tasti ovattati dal panno.

Ed eccomi qua, alle prese col mio personalissimo minuetto tra la noia e l’insofferenza, ché non c’è una sola nota moderata nell’intero spartito, è il festino dell’esibizionismo, la gioia del pianista in vena di virtuosismi, st’accidenti stracarico di semicrome. Non c’è un basso neanche a pagarlo oro.

Guardo le note alte e veloci, più adatte ad un esecutore dalle mani di farfalla, che non a me, e mi chiedo perché la checca isterica che mi fa da maestro insista ad impormi un brano che non è assolutamente nelle mie corde.

Poggio le dita sulla tastiera ed eseguo qualche fraseggio per scioglierle. Ho le mani quadrate, ma agili, dotate di una forza che compensa la mancanza di estensione. Purtroppo però mi manca del tutto quel che si suppone essere il tocco delicato, la levità adatta all’alta quota. In effetti danno il meglio di sé nell’abisso della scala di bemolle, solo là si trovano veramente a loro agio.

 

Voglio suonarlo un’ottava sotto.

 

Dico con decisione e, per tutta risposta, mi arriva una bacchettata sulle nocche. Questo bastardo ha una mira incredibile quando si tratta di gonfiarmi le falangi.

 

La vedi la chiave? E’ una partitura in violino, mica la puoi eseguire in contralto!

Replica stizzito sia dai miei quotidiani dissensi, che dall’inefficacia delle sferzate che dovrebbero estinguerli.   

 

Che mi aspettavo da sto vezzoso amante di Hendel? Lui adora questi pezzi pieni d’infiorettature, la sobrietà non sa manco dove sta di casa e mi costringe ad esercitarmi su suoni barocchi, quando tutto quello che vorrei è percuotere con insistenza i tasti alla mia sinistra. Magari velocemente, con una partitura complicata sì, come pare a te maestro, ma che siano note basse.

Ma non si può, lo stampato parla chiaro e le curve giunoniche della chiave di violino, nonché dei quattro diesis piazzati al suo fianco come altrettanti mosconi,  sembrano farsi beffe di me.

E così reprimo le mie naturali doti e m’impongo d’eseguire quest’armonica che per me d’armonico non ha assolutamente niente. Dopo qualche incertezza le mani cominciano a piroettare sulla tastiera, ma è tutta tecnica, non c’è cuore in questa sonata, ché volontariamente o no, non ci sto mettendo un briciolo d’espressività.

Niente da eccepire in tutto ciò da parte di chi dall’alto mi osserva, evidentemente  il conformismo della tecnica per costui è di gran lunga più importante della personale interpretazione. Quanto a me, suono e penso con malevolenza all’insieme, cadenzato dal timbro del metronomo e, soprattutto, mi domando perché mi assoggetti a questo strazio. Lo faccio perché lo devo fare, perché la chiave è alta e le note pure, oppure perché, quando l’indicazione è nero su bianco, mica ti puoi ribellare?

Cantabile cita la dicitura sul pentagramma.

Cantabile, devi cantarlo, ordina l'artiste accanto a me.

E io canto, modulo i suoni di questo pezzo pomposo, sebbene l’abbia in antipatia ancor più che suonarlo. Canto e porto la croce, quando st’imbecille da anni avrebbe dovuto capire lo spreco di tempo e tecnica operato nell’impormi acuti vocalizzi. Il mio registro è spiccatamente tenorile, ma per dispetto mi fa solfeggiare sempre quelli, perché non sta bene e la tradizione è tradizione.

Soprano sì, tenore mai.

 

Devi imparare, mi dice, è nel costante esercizio la strada verso la perfezione.

 

E io m’esercito, canto e mantengo l’intensità, persino quando so che non riuscirò affatto a reggere una legatura così lunga. E nelle pause, quel benedetto segno di sospensione che giunge sospirato a liberarmi di tanto in tanto, continuo a pensare che posso star qui ad intonare fino a che pare a lui, ma la perfezione non esiste e non potrò mai emettere un Mi tale da spaccare i vetri. Ci devi nascere per riuscire, è una dote che non s’acquisisce questa e se ti ritrovi con una voce d’un ottava sotto, è inutile insistere o essere costretti a cantare un’ottava sopra.

Termina l’esecuzione, incasso le veementi critiche e qualche modesta lode, piazzata ad arte qua e là, perché comunque rappresento per quest’esaltato una pingue entrata mensile.

M’appresto ad andarmene, lancio un’ultima occhiata all’odiato spartito e  chiudo il pianoforte. Strano, non ne ho sbatacchiato la sponda, tuttavia la cassa risuona d’un rumore cupo, quasi avessi sigillato un sarcofago. E il vibrare tetro delle corde, che dai martelletti inerti, gli stessi che fin qui avevano saltellato festosi, va propagandosi per tutto il corpo ligneo,  ha il potere di ripagarmi di tutti quelli sopraelevati che ho appena  prodotto.

Una volta a casa l’eseguo esattamente come avrei voluto io,  d’accordo, non cambia molto e mi fa schifo lo stesso. E allora?

Per come la vedo io, è un filo meno insopportabile ed è già tanto.

 

   
 
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