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Autore: Stray_Ashes    05/02/2016    1 recensioni
"Hate me
Break me
I'm a criminal"
In città la gente mi indicava col termine di cacciatore di taglie, ma lo diceva con paura, perché nessuno voleva essere la mia prossima tela, su cui avrei appoggiato forse il pennello, forse il coltello. Ma andava bene, come nome, non era tanto male; il termine di cacciatore mi dava un’importanza che non avevo.
Guardai il nome della mia nuova tela, la mia nuova vittima: Frank Anthony Iero.
E il nome non mi comunicò niente.
Avrebbe dovuto..?
"What have I done?"
[Revisionato 04/07/16]
Genere: Avventura, Dark, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3. Losing Yourself



La consistenza del sangue tra le dita... viscido. Sporco. Rosso. Nero.

Il bambino fissava il sangue che gli macchiava le dita, come se quel cremisi intenso non se ne sarebbe andato mai più. E no, non se ne sarebbe andato. 
«Vieni via. » una voce alle spalle, roca e rimbombante, atona. «Ormai è morto»

Il bambino si morse il labbro inferiore, per bloccare i tremiti. Erano minuti che era inginocchiato lì, davanti a quel corpo abbandonato morto, a fissarsi il sangue sulla pelle chiara, come se potesse bloccare quel momento crudo e irreale. L'ultimo, con il suo mentore; l'ultimo, con il suo sangue tra le dita; l'ultimo, con i suoi occhi vitrei a fissare il cielo grigio. 

Il bambino non pensava più a niente. Non aveva paura, ora, di niente. Cosa si può pretendere da una mente vuota da ogni cosa? Perché non c'era più passato e non c'era più futuro; adesso, solo quel frammento di presente freddo, tinto di rosso. 

"Sei come un foglio bianco", erano state le prime parole con cui il suo tutore, un anno addietro, gli si era riferito. Ora, quel foglio bianco giaceva a terra, accartocciato, e si stava macchiando con la terra bagnata e col sangue che non voleva saperne di asciugare. Nessuno aveva ancora scritto niente, su quel foglio, e già era stato abbandonato. Di nuovo. 

Il bambino non versò una lacrima. Non gli sarebbe mancato il suo tutore... bisognava volere bene a qualcuno, per sentirne la mancanza. E il bambino non voleva bene a nessuno. 

Però adesso era solo, e non sapeva dove andare, e come fare. Si chiese perché fosse ancora così importante vivere. Si chiese perché non era possibile decidere di non voler più aria nei polmoni e andarsene così, con una scelta personale, naturale. Aveva fatto un esperimento, una volta, ma per quanta determinazioni ci si mettesse, i polmoni costringevano a riassorbire ossigeno. Era lì che si era del tutto reso conto di quanto fosse schiavo del suo corpo.

«Vieni via» Ancora quella voce raschiante. «Presto arriveranno degli animali, e prima di quel corpo mangeranno il tuo, vivo. Imparerai che la foresta è un posto crudele» 

Il bambino liberò dalla stretta dei denti il labbro inferiore, sentendo il sangue anche in bocca, adesso, oltre che sulle mani. Non capiva perché quell'uomo non se ne andasse e basta, lasciandolo solo con i suoi fantasmi. «Che vengano, gli animali... » soffiò, acido, fissando un punto indistinto in basso davanti a sé, forse lì dove il sangue colava e imbrattava l'erba giovane, attraversava lo stelo di un fiore dai petali caduti e incontrava pigramente la terra brulla. 

Non avrebbe voluto dire quella frase all'uomo, non avrebbe voluto parlare mai più, ma la lingua era un vizio. Strinse i pugni fino a sbiancare le nocche, nonostante la pelle fosse già al limite del pallore. 

L'uomo tacque per una manciata di lunghi minuti. «Posso offrirti un lavoro» disse infine. 

E il bambino ci pensò, lo fece davvero. Un lavoro... mh. I lavori lo distraevano dalla realtà, era una cosa positiva. 

Lentamente, alzò gli occhi del colore del muschio, su quella figura che si era presa la briga di parlargli nel nero del bosco. Per quello che poteva saperne l'uomo, l'assassino avrebbe potuto essere lui stesso, proprio quel bambino, dalle mani imbrattate di sangue viscido; ma la gente sottovalutava i bambini, sottovalutava lui, per meglio dire. Parlargli, era stato stupido, da parte dell'uomo: ma il tizio l'aveva fatto comunque. 

Ancor più lentamente, e arreso al lasciarsi soggiogare da quel insolito presente, il bambino si alzò.

E io, dal buio del mio angolo, accanto ad un albero nero come il resto, lo fissai avanzare con il sangue sulle mani che alla fine cominciava a rapprendersi; lo vidi imboccare una strada che, come tutte le strade, non avrebbe portato a niente. Si alzò il vento, e spostò le chiome e le foglie secche, muovendo pigramente i ciuffi di capelli neri dagli occhi del ragazzino, e dai miei. 

Fissai quel giovane, senza sapere perché, e non appena quello sparì nella vegetazione senza voltarsi indietro, un dolore lancinante mi colpì come un pugno allo stomaco, violento e improvviso: eppure, ero ancora solo. Sentii il sangue arrivarmi in gola e colarmi dalle labbra, e portandomi le mani al petto e di nuovo sotto gli occhi, vidi il rosso sui miei palmi brillare alla luce color latte della luna. 

Poi, mi sentii cadere. 

 

Il ricordo di quel sogno mi colpì all'improvviso, come una sberla, e mi rimase incastrato in gola, amaro. Eppure, non annebbiò la mia mente, mentre sentivo l'aria sul volto e vedevo, nella mia caduta, il pavimento impolverato della strada avvicinarsi.

Accompagnato dal rumore del lungo cappotto che sferzava l'aria alle mie spalle, atterrai molleggiandomi sui piedi, una mano in avanti, e liberai la forza d'inerzia facendo leva con le caviglie e saltando in avanti. In qualche modo, mi ritrovai, dalla finestra tre, forse quattro metri più in su, alla strada, tra il corpo del cane e quello del ragazzo, in mano un pugnale che non ricordavo di aver estratto. 

Fu tutto molto veloce: la mia schiena inarcata, il mio ginocchio che incontrò la stabilità del terreno, il lieve scarto a destra, la mano avvolta  sull'impugnatura, gli stessi precisi e professionali movimenti, eseguiti come fossi un automa, nato per quello, e poi l'elettricità di quella frazione di secondo, e l'urlo isterico alle mie spalle.

«No!! Non ucciderl... » 

La lama incontrò la carne, e lacerò quel fascio teso di nervi e muscoli, ubbidiente ai miei comandi. Sentii la scarica e la forza del contraccolpo vibrarmi prepotente nei muscoli del braccio, abbastanza potente da scaraventarmi all'indietro, sotto il peso di quel sacco di carne morta, ma il mio ginocchio rimase saldo a terra, garantendomi equilibrio. Ogni mio movimento era inconsciamente studiato, impeccabile, elegante. L'arte della morte era mia, ormai mi apparteneva. 

Sentii un dolore risalirmi lungo il braccio sinistro, ma non ci feci caso, mi limitai soltanto a far cadere il corpo esanime dell'animale accanto a me, e liberai i muscoli del polso, vibranti sotto il notevole sforzo. Da sotto, gli occhi vitrei e ancora iniettati di sangue dell'animale, mi fissavano con un astio che non avrebbe mai sfogato: altro non erano che biglie di vetro, imprigionate in un corpo molle. 

Sentii il sapere del sangue in bocca, e mi accorsi di essermi spaccato un labbro; sputai sangue e saliva al suolo, accanto al cane, poi mi alzai, accompagnato dal suono frusciante del cappotto contro le mie gambe, e mi voltai, sentendomi addosso gli occhi del ragazzo, a cui avevo appena salvato la vita, intento a divorarmi la nuca a sguardi.

Ci provai, ma non potei trattenere un ghigno notando l'espressione del giovanotto, che variava dall'allibito, alla sorpresa, allo scandalo, al terrore. Era una bella espressione, per me, soprattutto regalatami da quel piccolo viso dalla pelle chiara, quasi porcellana, in netto contrasto con la zazzera di ribelli ciuffi neri. 
Spensi il ghigno e spostai lo sguardo piatto dal ragazzo, al cane, e poi di nuovo sul ragazzo, e infine sulla lama insanguinata stretta nella mia destra. Non mi piacevano le armi sporche.

Mi godetti l'espressione del tipetto mentre, con calma glaciale, mi avvicinavo, l'arma stretta tra le dita, finché non me lo trovai a pochi centimetri. Era bassino, il suo naso mi arrivava giusto giusto all'altezza delle clavicole. 

Indovinai che fosse impietrito da chissà che tipo di sorpresa, perché nei suoi panni, trovandomi uno come me così pericolosamente vicino, me la sarei data a gambe fino a slogarmi le caviglie. Beh, poco male, lui non era me. 

Sollevai le sopracciglia e arricciai le labbra. «Prego. » sentenziai, come rispondendo a un grazie che non ci sarebbe stato. Gli afferrai il bordo della maglietta e la sollevai un poco, poggiando quindi la lama sulla stoffa e pulendola dal sangue, lentamente, come se fosse una cosa del tutto normale. Osservai freddamente l'arma: adesso brillava, intonsa, catturando i raggi del sole della prima mattina. Sorrisi, compiaciuto, e lasciai andare la maglietta al ragazzo, i cui occhi rischiavano di saltare fuori dalle orbite da un momento all'altro. 

«...e grazie» dissi ancora, allargando il sorriso a labbra chiuse, riponendo il pugnale nel fodero senza più degnare di uno sguardo la macchia di sangue scuro sulla maglia color crema del ragazzo. 

Vidi il suo labbro tremare leggermente nel tentativo di articolare una parola, e sollevai un sopracciglio. 

«I-io.. uhm.. » balbettò, senza diminuire la dimensione degli occhi. Poi, fissò lo sguardo su di me, sulla lama, e sul cane morto dietro di noi, e la sua espressione si alterò d'un tratto, aggrottando le sopracciglia e stringendo la mascella. Sollevò le mani e le premette contro il mio petto, spingendomi all'indietro con rabbia, o forse lo fece solo per sfogare l'immobilità che fino a quel momento l'aveva intrappolato. Non feci più che un passo indietro, non ci aveva messo molta forza in quella spinta. 

«Perché l'hai ucciso?! » esclamò il ragazzo, gesticolando in direzione del cane. 

Sgranai gli occhi: tra le cose, non mi sarei aspettato proprio una lamentela del genere. Che problemi aveva questa specie di bambino?

Mi obbligai a restare calmo, infilando le mani nelle tasche del cappotto nero, e sostenendo un'espressione di sufficienza, forse anche un po' altezzosa. «Perché sennò saresti morto, piccolo ingrato» 

Il ragazzo incrociò le braccia. «Non puoi saperlo! Sarei riuscito a scappare, senza uccidere un povero cane» ringhiò.

Sì, era proprio un ingrato. Ma che mi aspettavo? Avrei dovuto girare i tacchi e basta, non mi ero mai aspettato un grazie da nessuno. Ma d’altronde, non avevo mai neanche difeso nessuno di spontanea volontà, né avrei mai dovuto farlo. Idiota.

Mi lasciai scappare una breve risata secca, di scherno. «Ah! Forse avrei dovuto lasciarti fare, e vederti continuare a gironzolare per la città, infilato a brandelli, tra le unghie del tuo cane»

Il ragazzo aprì la bocca per ribattere, ma le sue labbra rimasero schiuse a mezz'aria, un risposta sospesa in gola, e sentii i suoi occhi, di un colore indefinito, studiare i miei. Socchiuse le palpebre e piegò di un poco la testa, l'espressione indagatrice che cominciò a tubarmi, spingendomi a spostare lo sguardo di lato. 
 
«P-per caso ci conosciamo...? » azzardò. Il ragazzo si avvicinò di un passo, e io ne feci uno indietro, improvvisamente a disagio. 

Non mi piacevano quelle parole... sotto-intendevano qualcosa di pericoloso. E no, io non conoscevo proprio nessuno. 

«Ho già visto i tuoi occhi… » osò ancora il giovane, e sentii il sangue diventare ghiaccio quando sollevò una mano, quasi a sfiorarmi il viso.

Mi ritrassi arricciando le labbra e rabbuiando lo sguardo. «No. Credo proprio di no. Non ci conosciamo affatto… non dovrei essere qui, anzi…» sibilai, ma neanche a metà frase, la voce mi si ruppe in gola. Ecco, ecco cosa avevo scordato… non eravamo soli lì.

Con il terrore che mi strisciava nella gola, suscitandomi la nausea, spostai gli occhi sulla gente che, a debita distanza, ci fissava sussurrando, indicando, o voltandosi e andandosene, o arrivando. Merda. Sono un idota.

Idiota.

Non dovevo mai dare nell’occhio, era una regola che mi accompagnava da sempre: e invece adesso, chissà quanti occhi erano puntati su di me, e mi guardavano il volto, le mie cicatrici, i miei capelli scuri, la mia pelle chiara, le mie armi, il mio sangue, che sentivo lungo il braccio e sul labbro. Non potevano guardarmi, solo con lo sguado potevano prendersi qualcosa di me… e io appartenevo solo a me stesso.

Dovevo fare il mio lavoro, e poi sparire, come un’ombra, e basta, e basta, e basta. La mia vita era quella, uccidere e sparire, quindi fanculo quel vecchio, fanculo il cappotto, ed il cane, ed il ragazzo. Stavo diventando debole.

Bloccai di colpo il respiro e mi afferrai con uno scatto felino il cappuccio del cappotto di pelle, portandomelo sul volto, fino agli occhi, e incassando la testa fra le spalle. Senza dire nulla mi voltai e presi ad allontanarmi a passo svelto, desiderando solo sparire.

Chissà perché avevo sperato che il ragazzino mi lasciasse andare…

Infatti, si gettò in avanti provando ad afferrami per il braccio, ma non mi sfiorò nemmeno, non glielo permisi. «A-Aspetta! Dove stai andand-- »

«Vattene» intimai, la voce resa vibrante dai miei denti serrati, e dal cappuccio che mi nascondeva già metà volto. Con sollievo, notai che nessun altro a parte il giovane aveva l’intenzione di seguirmi, perché sapevo di avere poca pazienza; non mi andava di sporcare ancora una volta la lama, richiamandomi addosso null’altro che altra attenzione.

Ometterò le imprecazioni varie che mi attraversarono la mente in quel momento, la maggior parte riferite a me stesso, oltre che a tutti i presenti… dovevo smettere di sbagliare così, o la mia vita sarebbe durata anche meno di quello come avevo programmato. Essere visibile significava essere esposto, e debole.

Imboccai il primo sentiero stretto  che mi si presentò, velocizzando ancora il passo, le mani schiacciate nervosamente fino in fondo alla tasche, il mio labbro, già tagliato e dolorante, stretto tra i denti, che ne stuzzicavano la carne, in una specie di perverso antistress; neppure mi accorsi di aver davvero seminato il ragazzino. Non ci avrei mai davvero sperato…

Fu così, quindi, che mi trovai fuori dalla città, solo. Intorno a me, cassette rotte, alberi storti, da una parte un orto trascurato, dall’altra una casetta modesta. Davanti a me, della ghiaia e alla fine l’inizio della foresta… la mia foresta, casa mia, la mia pace, la mia solitudine, la mia autodistruzione…

Finalmente mi lasciai il labbro. Faceva male, ma non ci badai. Anche il braccio faceva ancora male, d’altronde. Sentii la tensione piano piano scemare, e la sentii tramutarsi in debolezza, che mi strisciò dentro, velenosa eppure morbida, liscia, tentatrice. Mi diceva… cedi.

E io cedetti. Con un brivido ad attraversarmi la schiena, caddi in ginocchio. Mi presi la testa tra le mani, perché non riuscivo a reggerla più, e mi strinsi fra le dita ciuffi di capelli corvini.

Perché? Perché mi sentivo così solo? Così… abbandonato, tutt’a un tratto? Sentivo ancora la presenza opprimente di quel sogno, le sensazioni bollenti eppure fredde, il sentimento di vuoto e perdizione, del mio…. ricordo? Per la prima volta, la mia mente registrò quella scena come un ricordo, anziché come un incubo, frutto della mia mente spezzata.

Ma io non avevo ricordi. Non di questo genere. Non potevo.
Non dovevo.
 
"We’re crawling back
from our dreams
We’re breathing in
mud, blood and fear
We’re crying out
all the memories
that at night
don’t let us sleep. "
 
Cantilenai lentamente quelle parole, come se a loro volta venissero dal passato. Anche le note le sapevo, forse le ricordavo, e le sentii vibrarmi sulle labbra umide, e venire distorte dalle mie mani premute sul volto, e dai ciuffi di capelli sudati, ancora intrappolati fra le mie dita.

Non piansi. Ne l’avevo mai fatto, da quando ne avevo memoria… ma avevo visto molta gente farlo. Mi ero chiesto spesso come si stesse, ad avere un oceano sopra il viso, a vedere i colori del mondo sfibrati dalle lacrime, fino ad addormentarsi.

Però rimasi lì, a sussurrare parole per calmare quel momento stranamente emotivo, lasciandomi cullare fino in fondo al baratro, che d’altronde, era parte integrante di ogni giorno della mia vita, ma che ogni tanto tornava su, e bussava alla porta della mia coscienza.

Ciò nonostante, era tutto ciò che avevo, tutto ciò che potevo avere. Quindi sì, rimasi lì, chiuso su me stesso, per proteggermi da qualcosa che non c’era, abbandonato sulla ghiaia, alle spalle una città, e davanti solo il bosco.

Era così che funzionava. Perdevo me stesso, nella speranza di potermi ritrovare.





                                                                                            
 

Mmmh eccoci, se qualcuno sta davvero leggendo, con il terzo capitolo. E' un po' una schifezza, lo so.. mi sono già un po' bloccata... è anche piuttosto corto.
 Il personaggio di Gerard si sta rivelando difficile da usare, ma mai quanto quello di Frank.. ho paura di starlo rendendo più bambino di quello che è, perché credetemi, non è solo il ragazzo col viso di porcellana. Ho paura di quello che questa storia si stia tramutando nella mia mente... beh, sappiate che riutilizzerò questa storia per un fumetto, se mai un giorno qualcuno volesse leggerlo, anche se ovviamente cambierò delle parti e sopratutto i nomi u-u

_Ashes
  
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