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Autore: Eiko Quinn    06/02/2016    1 recensioni
Modern!AU, principalmente incentrata sui Gold Saints.
ATTO PRIMO- Nell'Atene dei giorni nostri, Mu offre aiuto ad una sconosciuta ferita, sotto la pioggia. La sua vita, e quella dei suoi fratelli, si incastra come un mosaico attorno ad un'umila e disperata richiesta d'aiuto.
"Noi dobbiamo rimanere nascosti. Loro non possono sapere di noi. Forse, un giorno, avremo un compito, e un destino. Ma, per ora, siamo solo fanciulli abbandonati, orfani e perduti. Nessuno ci guarderà in volto, loro eviteranno i nostri occhi. Guardate sempre in alto, fratelli, perché noi siamo nel giusto."
Genere: Angst, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Eagle Marin, Gold Saints, Saori Kido, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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ATTO II, CAPITOLO IV

Panta Rei


 

Non riesco a vedere proprio niente nel cielo, sai”.

Ma sì, guarda: proprio lì, davanti a te! Devi osservare nel modo giusto”.

E qual è il modo giusto di osservare?”

Non posso insegnartelo, Aiolia: dovrai capirlo da te”.


 

A distanza di più di dieci anni, Aiolia si ritrovava a guardare in alto, verso il cielo stellato; avvertì quegli astri riflettersi nei suoi occhi, e adesso sapeva. A differenza di allora, adesso sapeva distinguere le figure delle costellazioni, sapeva dove e quando trovarle, e, soprattutto, sapeva sentirle. Le percepiva, brucianti, sulla pelle e dentro al sangue, percorrergli tutto il corpo, e risuonare con esso: questo era il Cosmo.

Nel perdere lo sguardo in quel mare di stelle, spilli di nostalgia gli punsero gli occhi. Realizzò, improvvisamente, di nuovo, che suo fratello non sarebbe mai più stato lì per esserne fiero; mai più, neanche una volta, avrebbero potuto perdersi insieme nell’oceano del cielo, beandosi della reciproca e comprensiva presenza. E mai, mai più avrebbe potuto volgere lo sguardo al ragazzo, all’uomo, che l’aveva cresciuto, che più di tutti aveva creduto in lui, che aveva suscitato in lui ammirazione e infantile e splendente invidia verso le sue incredibili capacità. Da bambino, Aiolia non si era mai chiesto se anche lui, un giorno, sarebbe stato come Aiolos: ne era convinto. Ne era profondamente, assolutamente convinto, poiché mai avrebbe tollerato di divenire un uomo diverso da quello.

Chiuse gli occhi per pochi secondi, e quando li riaprì, si rese conto di quanto Atene fosse quieta, quella notte; era una notte di mezza estate, poco poetica, a discapito del momento, ma lui, in fondo, di poesia non ne sapeva molto.

La quiete prima di una tempesta.

Sospirò lievemente, amaro. Non voleva ammetterlo, ma sapeva che la tempesta era già esplosa, ed era successo tredici anni fa.

Sussultò quando una vibrazione improvvisa gli pervase il corpo. Si sentì ridicolo nell’accorgersi che non era altro che il suo telefono. E, senza bisogno di guardare lo schermo, sapeva perfettamente chi lo stava cercando; in fondo, il Cosmo era anche quello.

Saga…”

Attese diversi squilli prima di decidersi a rispondere.

“Dimmi”.

“Aiolia del Leone”.

Trattenne il respiro. Non sapeva spiegarsi perché, ma, a volte, la sola voce di Saga era sufficiente ad intimorirlo. La risposta più logica che era riuscito a darsi, negli anni, era che fosse a causa del fortissimo Cosmo emanato da quell’uomo, anche se sapeva che non poteva essere solo quello: dopotutto, per come lo conosceva lui, il Cosmo era benevolo, per quanto intenso, e, pur vergognandosi della sua mancata fiducia verso chi avrebbe dovuto essere una guida per lui e per i suo Fratelli, non riusciva a percepire quel preciso Cosmo come fidato.

Sapeva che Saga non poteva vederlo, ma chinò il capo, in segno quasi automatico di sottomissione.

“Hai bisogno di me, Saga?”.

Sentì, dall’altro capo del telefono, una sorta di ringhio di disapprovazione.

“Lo sai che non voglio che usi quel nome con me, Aiolia”.

Il Leone trattenne un sospiro di stizza, perché sapeva che a… lui non sarebbe piaciuto.

“Perdonami, Ares. Ero distratto, lo ammetto”.

Un sogghigno. Lo distinse chiaramente. “E cosa ti ha distratto, Leone, in questa bella notte?”.

Perlomeno, ora sembrava soddisfatto.

“Nulla. Solo il cielo”.

Ares rise, un riso baritonale che riuscì a colpire tutte le sue estremità nervose. “Distogli la tua attenzione dall’affascinante volta stellata, regale predatore: mi servono le tue zanne”.

Aiolia tacque, attendendo.

“Vieni da me. Ho qualcosa di molto importante da chiederti”.

E, senza aspettare una risposta, riagganciò, lasciando Aiolia pensieroso e cupo.


 

Aiolos, quando sarai il Successore posso essere ancora tuo fratello?”

Che domande sono? Non si smette mai di essere fratelli”.

Ma se diventerai il nuovo Padre, non potremo esserlo, no?”

Una carezza sul capo.

Tutto scorre, Aiolia; tutto è in costante mutamento. Ogni giorno ci svegliamo diversi da ieri, e così sarà per sempre. Eppure, così come la Terra orbita intorno al Sole, deve esistere qualcosa che faccia da nucleo anche a noi, così che non ci smarriamo nel cambiamento: quel nucleo è l’amore che provo per te, e tu sei mio fratello, e questo è incancellabile dalla corrente di qualsiasi fiume”.


 

“Eccomi, al servizio tuo e dei Fratelli”.

Ares sorrise, e Aiolia si chiese se la sua bocca fosse sempre stata così arcuata.

“Per questa volta, solo al mio, Aiolia. Seguimi”.

L’appartamento era piuttosto ampio, e la zona del salotto, dove tutti loro usavano riunirsi, durante il giorno era sempre luminosa grazie alle grandi vetrate che occupavano un’intera parete, e, solitamente, anche durante le ore notturne era ben illuminata, da come ricordava Aiolia. Tuttavia, in quel momento gli sembrò di entrare in un inquietante maniero, dimora di un signore cupo e infernale: le tende erano, ovviamente, tirate a coprire le finestre, e solo una scarsa fonte di luce era presente, e riempiva a stento l’ambiente. Fortunatamente, per giungere dove il padrone di casa lo stava conducendo, non era necessario salire le scale, poiché temeva di non vedere i gradini.

“Entra”.

Aiolia si fermò, perplesso. Non era mai stato nello studio, Saga non faceva mai entrare nessuno, lì, tanto che tutti loro si erano spesso svagati immaginando cosa mai vi nascondesse.

Mai come in quel momento si pentì di esserselo domandato. Mai come in quel momento una porta socchiusa l’aveva turbato tanto.

Eppure, non disse nulla. Varcò la soglia, e attese in mezzo al buio finché la porta non fu richiusa.

“Siediti, Aiolia”.

Aiolia esitò. “Dove?”.

Un altro sorriso nel buio. Si sentì sfiorare un avambraccio, e avvertì un tocco gelido, seguito dal fruscio della vestaglia di seta che Saga indossava.

Trattenne il fiato, senza quasi rendersene conto. Perché il suo Cosmo gridava?

“Muovi tre passi avanti a te”.

Aiolia obbedì, e, al terzo passo, urtò quella che gli parve la gamba di una sedia. Cercò di definirne forma e posizione sfiorandola con le mani, e, proprio quando giunse alla conclusione che si trattava di una piccola poltrona di velluto liso, una luce ancora più fioca di quella che c’era nell’altra stanza gli permise di vedere.

Vide Saga –Ares-, accomodarsi su di una poltrona simile alla sua, ma più regale.

Aiolia lo imitò, sedendosi. “Cosa posso fare per te?”, ripeté, quel fastidioso tremito sul fondo della gola che lo perseguitava.

“Innanzitutto, puoi farmi la giusta domanda”.

“Perdonami, ma non capisco”.

Lui sorrise, di nuovo. Era nero, incredibilmente nero: neri gli abiti, quella leggera seta che riluceva pallidamente, apparendo ancora più nera, neri gli occhi, in quella luce, neri i capelli che gli coprivano il petto, nera la pelle sotto l’ombra di quella notte.

Aiolia sentì freddo. Aveva sempre avuto così tanto nero addosso? Aveva sognato tutti quei ricordi di bambino in cui Saga aveva gli occhi del mare turchese e i capelli color della sabbia? Aveva sognato quei giorni in cui non provava alcun timore nei suoi confronti, se non la stessa reverenziale ammirazione che meritava Aiolos?

“Non mi sorprende, Aiolia: voi sapete ancora troppo poco”. Si alzò, volgendo le spalle al giovane Leone. “Gradisci bere qualcosa?”.

“No, ti ringrazio. Vorrei essere lucido”, aggiunse, pentendosene subito dopo.

Ares rise.

“Sei così bambino, Aiolia. Capisco perché Milo ama prenderti in giro su questo”.

“Sai che ho molto rispetto di lui, ma mi permetto di affermare che dovrebbe guardare anche a se stesso, su quest’argomento”.

Non ebbe alcuna risposta. Solo il tintinnio del bicchiere di cristallo contro il bracciolo della poltrona, simile ad uno scranno. “Non mi hai ancora risposto”.

“Dimmi a cosa, Ares”.

“Mi hai chiesto cosa puoi fare per me, ma non cosa vuoi fare per me”.

Aiolia soppresse un rantolo di disapprovazione; quella conversazione, quella situazione si era fatta surreale, e non erano cose per lui. Ciò che più lo impensieriva, però, era il buio; non c’era mai stato così tanto buio, intorno a lui.

“Ciò che posso fare è ciò che desidero fare, te l’assicuro; noi Fratelli serviamo gli uni gli altri, e serviamo te. Dimmi, sono qui per Noi”.

Di nuovo quel sorriso. Insopportabile, doloroso, infernale.

“Ricordami, perché servi me?”

“Servo, serviamo te perché sei la nostra guida”.

“E attraverso cosa vi conduco?”

“Ci conduci oltre al mondo, attraverso il Cosmo, diretti verso colei che ci salverà”.

“Pronuncialo”.

Aiolia sussultò. La voce di Ares soffiò direttamente nel suo orecchio. Quando si era alzato? Quando era arrivato così vicino? Perché era così freddo?

“Cosa devo pronunciare?”

“Il Suo Nome. Il Nome di Lei. Della Speranza”.

Aiolia deglutì.

“Elpis”.

Un lieve riso di pietà gli carezzò l’orecchio, paralizzandolo,

“No”.

Aiolia sospirò, piano, senza farsi sentire.

“No, è… è proibito pronunciarlo”.

“E chi lo proibì?”

“Tu lo proibisti”.

Fredde dita strinsero la sua spalla. “No”, udì, secco. “Non fui io”.

“A…Ares, te ne prego, smettila. Io lo ricordo bene!”.

“Ricordi anche il Suo nome?”, ringhiò, gutturale.

“Sì, lo ricordo!”.

Pronuncialo!”.

Entrambi smisero di respirare. Aiolia non desiderava altro che calciarsi via di dosso la presenza di Ares, chiuderlo per sempre in quella stanza e tornare all’aria aperta, libero.

“Athena”.

Nessuno dei due disse altro per lunghissimi minuti, minuti in cui Ares allentò la presa sulla spalla di Aiolia solo per rafforzarla sul suo polso sinistro, le dita che premevano sulla vena pulsante. Non poteva nascondere il battito forsennato del suo cuore, ma ciononostante non si scompose mai.

“Dov’è, ora, costei?”.

“Morì tredici anni fa.”

“E chi le tolse l’ultimo fiato di vita?”

No, non farlo, Ares. Non farlo, Saga.

“Un traditore del sangue”.

CHI, Aiolia?”

Il suo corpo gridava, il suo Cosmo ribolliva. La sua lingua si sciolse.

“Aiolos del Sagittario”.

Un altro riso. Poi, la mano libera di Ares gli sfiorò la tempia.

Fu doloroso, tanto intenso da causargli una nausea terribile.

Lo vide. Aiolos. Per un istante, lo vide fuggire sotto le stelle. Era stata quella notte, l’ultima in cui s’incontrarono.

“Esigo la tua sincerità, Aiolia. Quella notte, sei certo che Lei fosse morta?”.

Un’altra scossa, un’altra immagine. Aiolos, dilaniato, insanguinato, con le mani libere stese verso l’acqua.

“Era morta…”

Un vagito. Un solo, tenue vagito che si allontanava nella volta stellata. Le mani di bambino di Aiolia che stringevano quelle gelide di suo fratello, ormai privo di vita.

Aiolia… Le vedi, adesso, le stelle, Aiolia?”

Aiolos, Aiolos! Non vedo niente, non vedo senza i tuoi occhi!”

Guarda in alto, Aiolia! Guarda il cielo, guarda il Cosmo! Lassù troverai anche i miei occhi”.

No, no! Mi servono quaggiù, accanto a me, insieme a te!”

Guarda le stelle, Aiolia. Le vedi, ora?”

E, guardando il cielo specchiato negli occhi ormai spenti di Aiolos, Aiolia le vide. Vide quelle costellazioni che non riusciva a distinguere, vide l’intensità del Cosmo.

Vide suo fratello, e i suoi occhi rimasero impressi nel cielo dei suoi, le lacrime stelle morenti che lasciavano l’Universo per riposare eroiche.

Era morta, Lei, Aiolia?

“…no”.

Una terza scossa, una pressione più forte.

“Molto bravo, Aiolia del Leone. Ora, voglio sentire un ultimo fiato uscire dalla tua bocca”.

Le labbra di Ares gli sfiorarono l’orecchio, gelide come la notte in cui Aiolos morì.

“Di’ il mio nome”.

Un sussulto gli contorse le viscere. Perché Saga aveva gli occhi del demonio? Perché era nero e scarlatto? Perché quel rosso era identico a quello sulle mani di Aiolos?

Perché Shion aveva i capelli macchiati dello stesso rosso?

Perché Saga era scomparso dai suoi ricordi, lasciando il posto al nero Ares?

“Perché…?”

“Dillo.”

“Tu...”

Sentì una mano che gli afferrava i capelli, tirandoli e stringendoli. Sentì risuonare le galassie, e le lacrime gli sgorgarono dal cuore.

“Guardami, Aiolia”.

E lo guardò, e finalmente lo vide: non era Saga. Non aveva i suoi occhi. Saga aveva gli occhi del mare dopo la pioggia, aveva i capelli del colore di quella spiaggia che amava da bambino, aveva il calore di Atene in estate. Quello non era Saga. Saga non aveva gli occhi opachi, stanchi e arrossati. Saga non aveva i capelli tinti di nero.

Saga non aveva ucciso la Speranza.

“Ares”.


 

Aiolia uscì dall’appartamento di Saga. L’aria era tiepida, la notte ancora tenera.

Aveva un gran mal di testa, ma la mente sorprendentemente sgombra e in ordine. Parlare con Saga gli aveva fatto bene: dopotutto, lui sapeva come districare lui e gli altri dai dubbi, quando ne avevano bisogno. Era proprio il degno successore di loro Padre.

“Perché ti nascondi come facevi da bambino? Non ne hai mai avuto bisogno”, disse, accorgendosi degli stessi occhi che lo osservavano silenti quando erano al Santuario.

Kanon distolse lo sguardo. “Forse sei tu che non mi vedi, non io che mi nascondo”.

“E’ difficile vederti, se resti nell’ombra”.

“All’ombra nessuno si accorge dei piccoli dettagli, sai. L’ombra non nasconde le persone, ne cela le imperfezioni”.

“Ti ho sempre visto uguale sia sotto al sole che in mezzo al buio”.

Kanon si scostò dal muro, affiancando Aiolia. “Allora non hai mai guardato bene, Leone dorato”, soffiò, greve, prima di sorpassarlo e riaprire la porta che Aiolia aveva appena chiuso. “Dopotutto, non ti sei neanche accorto della mia assenza”.

“Credi? Invece sono stato sollevato nello scoprirti ancora vivo, sai”.

“Immagino quanto tu abbia sofferto la mia morte”, replicò l’altro, aspro, cercando di far girare la chiave.

“Me ne sono dispiaciuto molto, in realtà. Tuo fratello ne era distrutto”.

Kanon bloccò la propria mano a metà di un gesto tanto rabbioso che rischiò di spezzare la chiave nella serratura. Dovette mordersi la lingua per non replicare.

“Sai”, proseguì Aiolia, “da quando ti credemmo scomparso, lui non è più stato lo stesso”.

Kanon rise. Aiolia pensò che non aveva mai udito una risata tanto triste e cupa.

“Sei davvero un coglione, Aiolia”, lo apostrofò, un gran sorriso sardonico dipinto sulla bocca. Aiolia pensò che somigliava davvero tanto a Saga, ma Kanon aveva qualcosa di profondamente diverso, qualcosa che lo inquietava. Qualcosa come…

Venne scosso da un fremito. Cos’era stato? Sentì il suo Cosmo in allerta, come se l’avesse protetto da un pericolo. O avvisato di un altro.

“Buona serata, Aiolia. Che gli dèi ti restituiscano il senno, perché in questo momento sei talmente cieco che rischi di perdere il culo per strada”, fu il congedo di Kanon. Dopodiché, la porta gli sbatté alle spalle.

Aiolia restò fermo per qualche minuto, ripensando alla conversazione avuta con Saga quella sera. Alzò automaticamente lo sguardo verso il cielo. Solo allora si rese conto di quanto fosse stanco, spossato, come se avesse combattuto una battaglia durata mille giorni.

“Le vedo, Aiolos… riesco a vedere tutte le stelle.”

   
 
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