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Autore: Willow Gawain    06/02/2016    0 recensioni
Parigi, anno 2070.
Leef Leroy, scienziata con un pessimo carattere, e Lance Langford, cacciatore di teste dal sorriso arrogante, sono tra gli ultimi sopravvissuti ad un esperimento genetico che nel 2048 ha segnato la fine della razza umana. La nuova razza in cima alla catena alimentare, gli Alpha Nominus, desidera solo una cosa: vivere. Il problema è che per farlo gli Alpha Nominus hanno bisogno di nutrirsi di specifiche parti del corpo umano. Ritrovarsi improvvisamente nel ruolo della preda ha convinto i sopravvissuti, comandati dall'agenzia militare Nemesi, ad asserragliarsi in una base sotterranea, mentre nel mondo di sopra si combatte una guerra per la supremazia.
In quanto membri della Nemesi, Leef e Lance ricevono l'incarico di indagare la veridicità di una leggenda, secondo cui uno specifico minerale ha il potere di uccidere gli altrimenti inscalfibili Alpha Nominus. Ma quando i due raggiungono la superficie rimangono coinvolti in una serie di avvenimenti che li condurrà ad un terribile destino...
Genere: Azione, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
Capitoli:
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Twilight

Lost Light 2.0

4 - Raptus

 

Il parco giochi non sembrava esattamente un parco giochi.

Certo, c’era l’erba verde appena tagliata e c’erano i giochi, dagli scivoli alle altalene, c’era anche un gelataio che distribuiva gratis coni e coppette, senza però neanche fingere allegria; c’erano bambini, alcuni dei quali si divertivano e altri invece che se ne stavano per i fatti loro a giocare in silenzio. Ma una cosa accomunava tutti, grandi e piccini: quel vago senso di malinconia onnipresente.

La luce splendeva, sì, ma si trattava di una luce artificiale, creata per emulare in modo realistico quella solare. La stella che la nuova generazione forse non avrebbe mai visto. Regnava una quiete che dovrebbe essere estranea a bambini così piccoli.

Il mondo era davvero cambiato. Così ragionava Leef, dieci anni, mentre si avviava verso un angolino buio del parco; sottobraccio portava un libro intitolato “Matematica per principianti”.

Leef aveva già deciso la strada che avrebbe percorso: sarebbe divenuta una scienziata ed avrebbe apportato un aiuto concreto alla sua razza in quella che era la battaglia per la sopravvivenza. Non sarebbe rimasta a guardare: voleva distruggerli tutti, dal primo all’ultimo, anche a costo della vita.

Erano passati diversi anni dal giorno della morte dei suoi genitori naturali, ma la bambina non si era ancora ripresa, e giorno dopo giorno assillava i genitori adottivi perché la portassero in biblioteca o le insegnassero qualcosa di nuovo. Era molto impegnativo, ma Antoine e Hélène Leroy erano felici che Leef studiasse così tanto. Nonostante ormai non ci fosse molto da fare in quel mondo per gli esseri umani, era difficile liberarsi dal desiderio di vedere il proprio figlio crescere con un certo bagaglio culturale.

La bimba si accomodò su quell’erba che sapeva di falso e aprì il libro, partendo dalla premessa; i suoi vispi occhi azzurri cominciarono a vagare tra lettere e numeri, mentre la mente assimilava informazioni come una spugna. Era talmente tanto catturata dalla lettura che non si accorse che qualcuno le si era avvicinato con passo quatto. Solo quando l’ombra dello sconosciuto non le permise più di leggere alzò gli occhi, specchiandoli in due altri verde rame.

«Cosa c’è?» chiese al bambino, visibilmente poco più grande di lei, che le si era parato davanti. Vestiva di nero, come se fosse a lutto, e portava tra le mani una pietra colorata con delle pennellate vivaci.

«Che cosa stai facendo?» le chiese quello, senza però una reale curiosità.

La bambina inclinò il capo, rispondendogli con un irritato «Leggo.»

Per la sua felicità, quello le si sedette davanti. Il tentativo di allontanarlo era miseramente fallito «Non giochi con gli altri?»

«E tu?» ribatté lei, piccata; non aveva assolutamente voglia di stringere nuove amicizie, ormai le reputava solo una perdita di tempo.

Il bruno poggiò una guancia su una mano, sedendosi in modo disordinato. Scoccò un’occhiata al tomo e un guizzo felino gli attraversò gli occhi «Hm… sei una secchiona?»

«Come ti permetti?!» esclamò arrabbiata Leef, chiudendo di scatto il manuale «Fatti gli affari tuoi, saccente!»

«Hey hey, calma! Non ti ho mica insultata! Scusa tanto, non so ancora bene il francese!» provò lui, soddisfatto di aver ottenuto una reazione, quando poi lei gonfiò le guance, rise di gusto e sinceramente «Allora in te c’è ancora qualcosa di infantile!»

E poi ci fu un sonoro pugno a un ginocchio! Il bambino gemette di dolore, mentre Leef si metteva in piedi.

«Lasciami in pace!»

Ma ovviamente se lo ritrovò alle calcagna in pochi secondi «Mi hai dato un pugno! … Uh, certo che sei lenta.»

«Forse perché sono più piccola di te, genio?» Leef accelerò il passo, senza però riuscire a raggiungerlo. Quel ragazzino le stava proprio dando su i nervi.

«Hai ragione, scusami. Rallento e ti aspetto.» e così si ritrovarono presto nella situazione opposta a quella che doveva essere: il bambino avanti e la bambina indietro.

Leef si impose di non sferrargli un altro pugno, ma gli scoccò un’occhiataccia in cambio; camminava, sentendo l’erba sotto le scarpe, cercando di concentrarsi sull’andatura.

Manteneva una rigida e costante postura della schiena, cosa che non scappò all’occhio attento del bruno, che colse al volo l’occasione per stuzzicarla «Calmati, robot, o la schiena ti si spezzerà come una corda di violino.»

«No, genio. Si spezzerà a te se continui a camminare così curvo.»

«Io la schiena intendo spaccarmela solo per proteggere le persone a cui voglio bene. Quindi non ti preoccupare.»

Il brusco cambio di tono colpì Leef, che fermò la sua avanzata e lo scrutò sospettosa, mentre in sottofondo una radio riproduceva il canto di una cicala «Non hai qualcun altro da infastidire? Non so, una sorella?»

«Mia sorella è morta.» asserì il bambino con aria seria, che sorprese ancora una volta la bimba «È stata uccisa dagli Alpha Nominus mentre cercava di proteggermi.»

La sua voce era piatta, eppure velata di tristezza. Probabilmente era successo da molto tempo e ormai aveva somatizzato la tragedia.

Leef si fermò a guardarlo con intensità: non era raro trovare qualcuno col suo stesso tragico passato, ma lo era trovare qualcuno così caparbiamente deciso a conoscerla. Perché non dargli una possibilità? Al limite, se proprio si fosse rivelato insopportabile lo avrebbe fatto tornare a casa piangendo.

«Leef Leroy.» si presentò, porgendogli la mano.

«Leef? Come foglia? Carino.» il ragazzo le sorrise, stringendo vigorosamente la piccola mano dell’altra «Lancelot Langford.»

 

 

***

 

«Uh…» con un mugolio sommesso, gli occhi blu di Leef si aprirono.

La donna si prese qualche secondo per se stessa, cercando di muovere prima le braccia, poi le gambe. Sì, sembrava non mancare niente. Magnifico. La testa le doleva, ma a parte quello stava bene. Fortunatamente gli Alpha Nominus non l’avevano uccisa.

Udì a quel punto attorno a sé voci che sussurravano… voci umane.

“Che cosa…?” erano riusciti a tornare alla Nemesi? E allora perché sopra la sua testa scorgeva, seppure in modo sfocato, il cielo notturno? No, era sbagliato!

Aprì gli occhi, ritrovando coscienza di sé assieme a una paura che rasentava l’isteria che l’aveva accompagnata prima dello svenimento; si trovava davvero ancora all’aperto e quelle che sentiva erano davvero voci umane. Si issò sui gomiti, cercando di mettere a fuoco la scena, avvertì un capogiro che la costrinse a piegarsi di nuovo, sentendo i capelli sfiorarle fastidiosamente le palpebre «Dove sono?»

Presto un’ombra le fu accanto: si trattava di una donna bionda sconosciuta, dai tratti americani «Are you okay?» le chiese, preoccupata.

La mora strabuzzò gli occhi, incredula: attorno a lei c’erano almeno una trentina di persone, tra uomini, donne, bambini, uno diverso dall’altro. Una decina erano bianche e sembravano europei, poi c’era un esile numero di indiani, riconoscibili dai vestiti, alcuni afroamericani dall’aria particolarmente affaticata e molti orientali, con i loro tipici occhi a mandorla.

Sopravvissuti? Dopo tutto quel tempo? Era possibile?

Cercando di riprendere voce, la ragazza mormorò alla donna che le era accanto, col suo inglese dall’accento esageratamente francese «Sì… sì, vi ringrazio. Ma chi siete, voi? Sopravvissuti?»

«Mi fa piacere… comunque sì, siamo appena arrivati a Parigi.» le rispose la donna con un sorriso mesto; le avvicinò poi una borsa, dalla quale estrasse un vecchio asciugamano bucato che le passò sul viso, cercando di pulire i residui di sangue «Mi chiamo Lucy, vengo da New York, assieme alla mia famiglia laggiù. Li vedi? Siamo un piccolo gruppo che è andato ingrandendosi durante il viaggio. Come ti chiami?»

«Leef Leroy. È una fortuna che siate riusciti ad arrivare fin qui. Vi porterò alla Nemesi.» rispose la ragazza, riconoscendo che il suo inglese non era dei migliori. Avrebbe voluto porre tante domande a quella gente, ma non riusciva a trovare i vocaboli adatti. In quel momento però un pensiero le attraversò la mente e la fece sobbalzare, esclamando «L’uomo che era con me?!»

La donna si fece improvvisamente titubante; torse il capo di lato, chiamando un uomo seduto alle sue spalle «Jonathan…»

Quest’ultimo si alzò, rivelando un fisico molto robusto, che lasciava però a intendere anche quanto l’uomo fosse avanti con gli anni; sembrava reduce da dure lotte per la sopravvivenza, e forse era proprio lui il capo di quella strana comitiva. Portava una barba bionda e incolta, aveva gli occhi stremati di chi ha visto troppo.

Si avvicinò alla ragazza e le fece cenno di seguirlo «Seguimi.» le disse, rivelando un forte accento del sud degli States.

Leef annuì, lasciandosi guidare nella notte attraverso quelle persone che la guardavano con sguardi pieni di speranza. Povera gente, pensò lei, attraverso quanti orrori dovevano essere passati…

L’uomo chiamato Jonathan la condusse fino ad un angolo appartato, dove riposava sotto un mucchio di coperte Lance, febbricitante.

La ragazza si catapultò accanto a lui per accertarsi delle sue condizioni ed abbracciarlo con slancio. Posò la mano sulla sua fronte, scoprendo che aveva la febbre alta, poi sistemò piano le coperte, cercando di non fargli prendere freddo. La spalla rotta era stata fasciata, così come una gamba, la cui benda era completamente colorata di rosso. Come si era procurato quella bruttissima ferita? La ragazza sentì una lacrima scendere lungo la guancia.

Si accovacciò vicino a lui, prendendogli la mano tremante «Lance… ti avevo detto di scappare, incosciente…» ma non poteva ottenere risposta.

Lance dormiva sonni violenti, e di tanto in tanto gli scappava dalle labbra qualche mugolio per il dolore.

«Ha perso molto sangue, ma ce la farà… credo.» disse alle sue spalle l’uomo.

«Non so come ringraziarvi…» mormorò Leef; nonostante le cure dei profughi, era però chiaro che Lance sarebbe peggiorato velocemente senza l’aiuto della Nemesi.

Doveva sbrigarsi e portare tutti quei poveracci in salvo.

Tornò per la strada per la quale era venuta, fino al luogo in cui si era svegliata. Fortunatamente avevano raccolto la sua borsa. Nell’aprirla trovò il cristallo di Berg e la cartina dove erano segnati tutti i punti d’ingresso della Nemesi; che fortuna, pensò, avevano raccolto proprio tutto senza rubare niente!

«Tu ci porti da Nemesi?» una vocina piccola e gentile colse Leef impreparata.

La ragazza si voltò, incontrando le iridi nere e spaventate di una bambina con le trecce disfatte; la scienziata sentì un colpo al cuore, rivedendo in quella bimba se stessa dopo il suo primo incontro con gli Alpha Nominus. Che ironia. Adesso era lei il membro della Nemesi che andava a salvare bambini dall’animo a pezzi.

Cerco di calmare i battiti troppo forti del cuore e, quando finalmente riuscì ad alzare lo sguardo, si accorse di aver catalizzato l’attenzione. La risposta che aveva inseguito per anni adesso le si palesava davanti agli occhi: il vero motivo per cui era entrata nella Nemesi non era sterminare gli Alpha Nominus, ma aiutare gli umani come lei.

Tornò a guardare la bambina con sguardo determinato ed un sorriso sicuro di sé, annuendo «Ci andiamo subito.»

La fanciulla sorrise.

 

 

***

 

“Manca poco…” pensava Leef mentre guidava la folla tra il buio degli edifici.

Avevano preferito muoversi immediatamente, di notte, in quanto gli Alpha Nominus, proprio come gli esseri umani, cacciavano di giorno e dormivano la notte.

L’entrata della Nemesi più vicina si trovava in una cabina telefonica a tre isolati dalla loro posizione, ormai mancava poco e già riusciva a vedere in lontananza il rosso della struttura, anche se non era ancora chiaramente visibile.

«Avanti!» spronò sottovoce quelli dietro di lei, indicando la cabina «Siamo arrivati!»

Diversi volti si colorarono di una meravigliosa speranza che Leef non vedeva da anni, poiché tutti alla Nemesi l’avevano persa. Diede un rapido sguardo alla coda della fila, dove stavano gli uomini più forti, imbracciando fucili e altre armi; uno di loro portava sulle spalle Lance ancora senza forze, con la gamba avvolta nelle garze ormai completamente bagnate di sangue.

La febbre si era alzata e le sue condizioni erano peggiorate, così come quelle del cuore di Leef, che si spezzava ogni volta che lo vedeva in quello stato.

Aveva scoperto che oltre Lance c’era anche un altro ferito: un uomo del gruppo, il quale aveva avuto un incontro troppo ravvicinato con un Alpha Nominus un’ora prima del loro ritrovamento. Aveva perso un braccio.

Si era posta diverse domande da allora: perché questa nuova tecnica di mordere invece che uccidere direttamente, così da dare la possibilità alle vittime di scappare? Solitamente un Alpha Nominus attaccava e o sbranava sul momento o assorbiva, così da riempirsi la pancia. Anche i suoi genitori erano stati assorbiti. Ma questo nuovo atteggiamento sembrava quasi marchiare le vittime come proprietà privata. E in tutta sincerità non le piaceva pensare che Lance era ora proprietà privata di uno di loro.

“Ci siamo” fortunatamente nessun mostro era in giro quella notte, dunque la ragazza poté aprire lentamente la porta della cabina, senza far rumore; entrò veloce e digitò sulla tastiera il numero segreto che attivava il pavimento sotto i suoi piedi, che in realtà era un ascensore.

Si fece poi da parte, spiegando sommariamente di entrare a coppie il più in fretta possibile. La folla si accalcava nella frenesia del momento, creando qualche rumore, ma sorprendentemente mostrarono un’ottima capacità di gestione del panico: prima furono messi in salvo donne e bambini, poi i feriti, poi i vecchi, infine gli uomini.

Pian piano tutti furono mandati giù, ma Leef volle essere l’ultima a scendere. Scoccò uno sguardo preoccupato a Lance agonizzante, mentre il suo profilo spariva con l’ascensore.

Quando rimase sola, si guardò intorno per un tempo indefinito, scrutando la notte alla ricerca di qualsiasi segnale: nessun rumore, nessun Alpha Nominus. Solo il silenzio di una città devastata.

Sospirò e finalmente entrò nella cabina, chiuse la porta, voltandosi verso il ricevitore. L’ascensore discese. Proprio nel momento in cui il profilo della strada spariva, due bagliori gialli illuminarono la notte, incontrando il suo sguardo.

A stento Leef trattenne un urlo spaventato, ma ormai era già sotto terra. Poggiò una mano contro il vetro dell’ascensore, mentre la terra scorreva intorno a lei. Aveva gli occhi sgranati e il cuore che batteva forte, il respiro affaticato. Dovevano distruggere quell’entrata, ora gli Alpha Nominus sapevano che quello era un punto di passaggio.

Quando finalmente giunse tra le bianche e rassicuranti pareti della Nemesi, andò subito alla ricerca di un membro della sicurezza. Lo trovò dopo pochi minuti: un vecchio soldato che imbracciava un kalashnikov.

«Ah, signorina Leroy. Ce ne sono altri?» si affrettò questo; era un uomo molto alto e ben impostato, vestito di blu, con la tipica divisa delle forze dell’ordine. Dietro di lui vi erano i profughi, salvi e sorridenti. Quella visione però non riuscì a rilassarla.

«No, io sono l’ultima. Gli Alpha Nominus ci hanno visti.» spiegò con una certa trepidazione, ma non ebbe bisogno di finire la frase.

L’agente annuì e s’incamminò verso il commando «Ostruiremo subito l’entrata.»

 

 

***

 

Erano passati tre giorni da quella notte, ma ancora la notizia dell’arrivo dei profughi era sulla bocca di tutti. Il gruppo era stato diviso, ognuno aveva ricevuto le giuste cure mediche e assistenza: per loro l’incubo era finito. Almeno per il momento.

L’entrata, la quale quella stessa notte era stata distrutta, non rappresentava più un pericolo. Jonathan, il capo dei profughi, stava pian piano imparando qualche parola di francese per comunicare con gli altri.

Lancelot Langford aveva sfiorato la morte più e più volte, ma l’aveva scampata; giaceva nel suo letto d’ospedale finalmente salvo, la sua vita non più in pericolo. Ora sorrideva a Leef e parlava con lei come se tutto non fosse mai accaduto.

«Questo pollo fa schifo!» si lamentava del cibo dell’ospedale ad ogni pasto.

«Mangia, devi recuperare le forze.» lo rimbeccò la ragazza, imboccandolo «Biasima te stesso! Guarda a che punto ci ha portati il tuo complesso dell’eroe.»

Lance sorrise e scosse la testa «Veramente… se qui c’è un eroe, sei tu! Io ho solo provato che il cristallo di Berg funziona eccome, ma tu hai salvato tutte quelle vite.» le sorrise con la bocca piena, ingurgitando tutto di forza. Sapeva che era cibo selezionato, tutto merito di una dieta per farlo guarire prima, ma ciò non toglieva che il pollo degli allevamenti bui della Nemesi facesse davvero schifo.

«No. Tu hai dimostrato che il cristallo funziona, mi hai salvato la vita, poi loro hanno salvato le nostre e infine io le loro.» come sempre Leef faceva della logica il suo marchio di fabbrica, ma quando non teneva in mano due pistole calibro 36 era anche una donna che si avvicinava alla definizione di femminile; aveva raccolto i capelli in una lunga treccia con cui litigava in continuazione. Sapeva però che Lance amava le trecce, quindi… perché non farlo felice?

Spostò lo sguardo preoccupato verso la gamba di lui e chiese piano «Come va la gamba?»

«Benissimo!» mentì lui, ricevendo in cambio un’occhiataccia.

Eppure cercava di non farla preoccupare, o almeno non troppo; era stato uno sprovveduto a mettersi in quella situazione, si sentiva molto in colpa anche se non lo dava a vedere «Beh, meglio di prima. Anche se ho uno strano gonfiore…» lasciando cadere la cosa, prima che Leef chiamasse a raccolta l’intero staff medico, dirottò l’argomento su ben altro «Ah! Non ho avuto la possibilità di parlartene prima. A casa nostra, sul tavolo della cucina, ho lasciato un regalo incartato con una bustina blu. È per te, mon amour.»

«Un regalo?» lo guardò di sbieco Leef, la facciata di dura crollò all’istante e si concesse un sorriso «Non... me lo aspettavo. Grazie…»

Che cosa carina. Così carina ma anche così improvvisa che…

«Ah! Non penserai di distrarmi dal farti pranzare, eh!?»

«Nooooo! Ti prego! Basta!» che misero fallimento, Lance!

Mentre Lance si agitava, cercando di evitare la forchetta di lei che doveva imboccarlo, la porta della stanza si aprì, sbattendo contro il muro.

Jonathan del gruppo di profughi entrò trafelato, con gli occhi sgranati, pallido e madido di sudore; era talmente terrorizzato che la coppia per un attimo temette che gli Alpha Nominus fossero riusciti a penetrare nella sede, ma quando parlò il messaggio fu ben diverso «Signorina Leroy! Il mio amico! Presto, mi segua!»

Lance e Leef si scambiarono un’occhiata stranita, quindi la donna si alzò ed abbandonò sul tavolino il pranzo. Quando Leef fu fuori, Lance cacciò un’occhiata disgustata al pollo.

«Aaah… questa dannata gamba fa davvero un male cane…»

 

 

***

 

Leef venne condotta tre corridoi accanto, dove riposava il paziente che aveva subìto lo stesso trattamento di Lance; già avvicinandosi poté sentire urla disumane che provenivano da lì. Urla che le fecero gelare il sangue nelle vene.

“Come ha fatto un Alpha Nominus ad entrare?!” si chiese sbalordita, accelerando il passo.

Lo spettacolo che si ritrovò davanti era a dir poco terrificante. Tre infermiere giacevano a terra in un lago di sangue, due col volto dilaniato e una ridotta a uno scheletro a cui non era stata assorbita solamente la testa. Due dottori cercavano scampo ammassandosi contro le pareti, mentre cinque agenti della sicurezza scaricavano cartucce su cartucce coi loro fucili.

Un Alpha Nominus si accasciò a terra nello stesso momento in cui Leef entrò.

«Ah! Cosa diavolo è successo qui…?!» esclamò la ragazza, facendo spontaneamente un passo indietro.

Il mostro era morto, lo avevano esposto alla luce del cristallo di Berg, il quale era stato clonato ed era pronto per essere trasformato in proiettili per uccidere i mostri.

Urlando, Jonathan si accasciò a terra accanto a lei; un atteggiamento che Leef non comprese e che la lasciò assolutamente sbigottita: perché stava piangendo per la morte di un Alpha Nominus? Gli aveva dato di volta il cervello?

Un dottore, uno dei pochi sopravvissuti, le si avvicinò; era coperto di sangue ma non sembrava aver riportato ferite gravi, tutto ciò che voleva era uscire da quell’inferno maleodorante. Le fece cenno di seguirlo, e Leef lasciò Jonathan solo assieme al suo inspiegabile dolore.

Cominciarono ad allontanarsi in silenzio, mentre sentivano ancora il capo dei profughi disperarsi.

«Cosa diavolo è successo qui dentro?» ripeté lei, aiutandolo mentre l’altro arrancava in direzione di una sedia.

«Quello che sto per dirle potrebbe scioccarla… lei ha condotto questi stranieri qui, giusto?» lo specialista vi si lasciò cadere sopra e trasse un profondo sospiro, pulendosi il sangue dal viso; i primi aiuti cominciavano ad arrivare e il corridoio a popolarsi, ma Leef aveva attenzione solo per lui. Annuì con convinzione.

«Solo quell’uomo era ferito, giusto? Nessuno ha riportato ferite abbastanza leggere da non esserci segnalate?» gli tremò la voce e si passò una mano sulla fronte, poi si sistemò gli occhiali e si passò di nuovo la mano sulla fronte. Stava per impazzire?

La donna annuì ancora, cominciando però a perdere la pazienza «No, nessun ferito stando a quanto mi è stato detto.»

«Signorina Leroy...» l’uomo a quel punto si fermò, voltandosi per fulminare Leef con gli occhi «Quell’uomo si è mutato davanti ai miei occhi in un Alpha Nominus.»

Leef pensò si aver sentito male, oppure di essere diventata pazza come Jonathan. Non poteva esserci altra spiegazione. A stento, con voce flebile e sconvolta, mormorò «Come, scusi?» e per poco non gli rise in faccia, tanto era assurdo quel discorso.

Le stava dicendo che gli Alpha Nominus adesso rinunciavano a un pasto fresco per… riprodursi trasformando gli umani? Come gli zombie o i vampiri delle leggende? Era un pessimo scherzo forse? La voleva prendere in giro?

«Non sappiamo come. Non ne abbiamo la minima idea.» confessò il dottore «Non è mai successo niente di lontanamente simile. Il paziente ha cominciato ad accusare dei dolori molto forti alla spalla. Sembra che gli abbiano iniettato qualcosa che i nostri strumenti non sono in grado di riconoscere.»

Ma Leef non lo ascoltava. La notizia l’aveva segnata dentro, nel profondo. Quell’uomo era stato morso un’ora prima di Lance.

«No…» Leef provava a trattenersi mentre su di lei scendeva un velo freddo.

La mente le si era di colpo fermata.

«Dannazione!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola.

Abbandonò il medico, correndo a perdifiato verso la stanza dove aveva lasciato Lance. Urtò innumerevoli volte contro i passanti che avevano deciso di farle da muro, imprecando e intimando di togliersi di mezzo.

Il cuore le salì in gola quando vide che la porta della stanza 24 era aperta.

Tutto il puzzle ora assumeva la sua vera forma, molte domande ottenevano risposta. Era un orrendo, disgustoso puzzle. La ragazza pregò una qualche assurda divinità che fosse tutto un incubo.

“No… non può essere vero…” sentì di star piangendo, una cosa così irrazionale per lei.

Finalmente giunse la stanza, col fiato mozzato e i polmoni doloranti.

Guardò dentro. Non c’era nessuno. Il letto era sotto sopra, le lenzuola strappate.

Leef si accasciò a terra, senza forze né pensieri «Lance…»

  
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