Lost Light 2.0
4 - Raptus
Il
parco giochi non sembrava esattamente un parco giochi.
Certo,
c’era l’erba verde appena tagliata e c’erano i giochi, dagli scivoli alle
altalene, c’era anche un gelataio che distribuiva gratis coni e coppette, senza
però neanche fingere allegria; c’erano bambini, alcuni dei quali si divertivano
e altri invece che se ne stavano per i fatti loro a giocare in silenzio. Ma una
cosa accomunava tutti, grandi e piccini: quel vago senso di malinconia
onnipresente.
La
luce splendeva, sì, ma si trattava di una luce artificiale, creata per emulare
in modo realistico quella solare. La stella che la nuova generazione forse non
avrebbe mai visto. Regnava una quiete che dovrebbe essere estranea a bambini così
piccoli.
Il
mondo era davvero cambiato. Così ragionava Leef, dieci anni, mentre si avviava
verso un angolino buio del parco; sottobraccio portava un libro intitolato
“Matematica per principianti”.
Leef
aveva già deciso la strada che avrebbe percorso: sarebbe divenuta una
scienziata ed avrebbe apportato un aiuto concreto alla sua razza in quella che era
la battaglia per la sopravvivenza. Non sarebbe rimasta a guardare: voleva
distruggerli tutti, dal primo all’ultimo, anche a costo della vita.
Erano
passati diversi anni dal giorno della morte dei suoi genitori naturali, ma la
bambina non si era ancora ripresa, e giorno dopo giorno assillava i genitori
adottivi perché la portassero in biblioteca o le insegnassero qualcosa di nuovo.
Era molto impegnativo, ma Antoine e Hélène Leroy erano felici che Leef studiasse
così tanto. Nonostante ormai non ci fosse molto da fare in quel mondo per gli
esseri umani, era difficile liberarsi dal desiderio di vedere il proprio figlio
crescere con un certo bagaglio culturale.
La
bimba si accomodò su quell’erba che sapeva di falso e aprì il libro, partendo
dalla premessa; i suoi vispi occhi azzurri cominciarono a vagare tra
lettere e numeri, mentre la mente assimilava informazioni come una spugna. Era
talmente tanto catturata dalla lettura che non si accorse che qualcuno le si
era avvicinato con passo quatto. Solo quando l’ombra dello sconosciuto non le
permise più di leggere alzò gli occhi, specchiandoli in due altri verde rame.
«Cosa
c’è?» chiese al bambino, visibilmente poco più grande di lei, che le si era parato
davanti. Vestiva di nero, come se fosse a lutto, e portava tra le mani una
pietra colorata con delle pennellate vivaci.
«Che
cosa stai facendo?» le chiese quello, senza però una reale curiosità.
La
bambina inclinò il capo, rispondendogli con un irritato «Leggo.»
Per
la sua felicità, quello le si sedette davanti. Il tentativo di allontanarlo era
miseramente fallito «Non giochi con gli altri?»
«E
tu?» ribatté lei, piccata; non aveva assolutamente voglia di stringere nuove
amicizie, ormai le reputava solo una perdita di tempo.
Il
bruno poggiò una guancia su una mano, sedendosi in modo disordinato. Scoccò
un’occhiata al tomo e un guizzo felino gli attraversò gli occhi «Hm… sei una
secchiona?»
«Come
ti permetti?!» esclamò arrabbiata Leef, chiudendo di scatto il manuale «Fatti
gli affari tuoi, saccente!»
«Hey
hey, calma! Non ti ho mica insultata! Scusa tanto, non so ancora bene il
francese!» provò lui, soddisfatto di aver ottenuto una reazione, quando poi lei
gonfiò le guance, rise di gusto e sinceramente «Allora in te c’è ancora
qualcosa di infantile!»
E
poi ci fu un sonoro pugno a un ginocchio! Il bambino gemette di dolore, mentre
Leef si metteva in piedi.
«Lasciami
in pace!»
Ma
ovviamente se lo ritrovò alle calcagna in pochi secondi «Mi hai dato un pugno!
… Uh, certo che sei lenta.»
«Forse
perché sono più piccola di te, genio?» Leef accelerò il passo, senza però
riuscire a raggiungerlo. Quel ragazzino le stava proprio dando su i nervi.
«Hai
ragione, scusami. Rallento e ti aspetto.» e così si ritrovarono presto nella
situazione opposta a quella che doveva essere: il bambino avanti e la bambina
indietro.
Leef
si impose di non sferrargli un altro pugno, ma gli scoccò un’occhiataccia in
cambio; camminava, sentendo l’erba sotto le scarpe, cercando di concentrarsi
sull’andatura.
Manteneva
una rigida e costante postura della schiena, cosa che non scappò all’occhio
attento del bruno, che colse al volo l’occasione per stuzzicarla «Calmati, robot,
o la schiena ti si spezzerà come una corda di violino.»
«No,
genio. Si spezzerà a te se continui a camminare così curvo.»
«Io
la schiena intendo spaccarmela solo per proteggere le persone a cui voglio
bene. Quindi non ti preoccupare.»
Il
brusco cambio di tono colpì Leef, che fermò la sua avanzata e lo scrutò
sospettosa, mentre in sottofondo una radio riproduceva il canto di una cicala «Non
hai qualcun altro da infastidire? Non so, una sorella?»
«Mia
sorella è morta.» asserì il bambino con aria seria, che sorprese ancora una
volta la bimba «È stata uccisa dagli Alpha Nominus mentre cercava di
proteggermi.»
La
sua voce era piatta, eppure velata di tristezza. Probabilmente era successo da
molto tempo e ormai aveva somatizzato la tragedia.
Leef
si fermò a guardarlo con intensità: non era raro trovare qualcuno col suo
stesso tragico passato, ma lo era trovare qualcuno così caparbiamente deciso a
conoscerla. Perché non dargli una possibilità? Al limite, se proprio si fosse
rivelato insopportabile lo avrebbe fatto tornare a casa piangendo.
«Leef
Leroy.» si presentò, porgendogli la mano.
«Leef?
Come foglia? Carino.» il ragazzo le sorrise, stringendo vigorosamente la
piccola mano dell’altra «Lancelot Langford.»
***
«Uh…»
con un mugolio sommesso, gli occhi blu di Leef si aprirono.
La
donna si prese qualche secondo per se stessa, cercando di muovere prima le
braccia, poi le gambe. Sì, sembrava non mancare niente. Magnifico. La testa le
doleva, ma a parte quello stava bene. Fortunatamente gli Alpha Nominus non
l’avevano uccisa.
Udì
a quel punto attorno a sé voci che sussurravano… voci umane.
“Che
cosa…?” erano riusciti a tornare alla Nemesi? E allora perché sopra la sua
testa scorgeva, seppure in modo sfocato, il cielo notturno? No, era sbagliato!
Aprì
gli occhi, ritrovando coscienza di sé assieme a una paura che rasentava
l’isteria che l’aveva accompagnata prima dello svenimento; si trovava davvero
ancora all’aperto e quelle che sentiva erano davvero voci umane. Si issò sui
gomiti, cercando di mettere a fuoco la scena, avvertì un capogiro che la
costrinse a piegarsi di nuovo, sentendo i capelli sfiorarle fastidiosamente le
palpebre «Dove sono?»
Presto
un’ombra le fu accanto: si trattava di una donna bionda sconosciuta, dai tratti
americani «Are you okay?» le chiese, preoccupata.
La
mora strabuzzò gli occhi, incredula: attorno a lei c’erano almeno una trentina
di persone, tra uomini, donne, bambini, uno diverso dall’altro. Una decina
erano bianche e sembravano europei, poi c’era un esile numero di indiani,
riconoscibili dai vestiti, alcuni afroamericani dall’aria particolarmente
affaticata e molti orientali, con i loro tipici occhi a mandorla.
Sopravvissuti?
Dopo tutto quel tempo? Era possibile?
Cercando
di riprendere voce, la ragazza mormorò alla donna che le era accanto, col suo
inglese dall’accento esageratamente francese «Sì… sì, vi ringrazio. Ma chi
siete, voi? Sopravvissuti?»
«Mi
fa piacere… comunque sì, siamo appena arrivati a Parigi.» le rispose la donna
con un sorriso mesto; le avvicinò poi una borsa, dalla quale estrasse un
vecchio asciugamano bucato che le passò sul viso, cercando di pulire i residui
di sangue «Mi chiamo Lucy, vengo da New York, assieme alla mia famiglia laggiù.
Li vedi? Siamo un piccolo gruppo che è andato ingrandendosi durante il viaggio.
Come ti chiami?»
«Leef
Leroy. È una fortuna che siate riusciti ad arrivare fin qui. Vi porterò alla
Nemesi.» rispose la ragazza, riconoscendo che il suo inglese non era dei
migliori. Avrebbe voluto porre tante domande a quella gente, ma non riusciva a
trovare i vocaboli adatti. In quel momento però un pensiero le attraversò la
mente e la fece sobbalzare, esclamando «L’uomo che era con me?!»
La
donna si fece improvvisamente titubante; torse il capo di lato, chiamando un
uomo seduto alle sue spalle «Jonathan…»
Quest’ultimo
si alzò, rivelando un fisico molto robusto, che lasciava però a intendere anche
quanto l’uomo fosse avanti con gli anni; sembrava reduce da dure lotte per la
sopravvivenza, e forse era proprio lui il capo di quella strana comitiva.
Portava una barba bionda e incolta, aveva gli occhi stremati di chi ha visto troppo.
Si
avvicinò alla ragazza e le fece cenno di seguirlo «Seguimi.» le disse,
rivelando un forte accento del sud degli States.
Leef
annuì, lasciandosi guidare nella notte attraverso quelle persone che la
guardavano con sguardi pieni di speranza. Povera gente, pensò lei, attraverso
quanti orrori dovevano essere passati…
L’uomo
chiamato Jonathan la condusse fino ad un angolo appartato, dove riposava sotto
un mucchio di coperte Lance, febbricitante.
La
ragazza si catapultò accanto a lui per accertarsi delle sue condizioni ed
abbracciarlo con slancio. Posò la mano sulla sua fronte, scoprendo che aveva la
febbre alta, poi sistemò piano le coperte, cercando di non fargli prendere
freddo. La spalla rotta era stata fasciata, così come una gamba, la cui benda
era completamente colorata di rosso. Come si era procurato quella bruttissima
ferita? La ragazza sentì una lacrima scendere lungo la guancia.
Si
accovacciò vicino a lui, prendendogli la mano tremante «Lance… ti avevo detto
di scappare, incosciente…» ma non poteva ottenere risposta.
Lance
dormiva sonni violenti, e di tanto in tanto gli scappava dalle labbra qualche
mugolio per il dolore.
«Ha
perso molto sangue, ma ce la farà… credo.» disse alle sue spalle l’uomo.
«Non
so come ringraziarvi…» mormorò Leef; nonostante le cure dei profughi, era però
chiaro che Lance sarebbe peggiorato velocemente senza l’aiuto della Nemesi.
Doveva
sbrigarsi e portare tutti quei poveracci in salvo.
Tornò
per la strada per la quale era venuta, fino al luogo in cui si era svegliata.
Fortunatamente avevano raccolto la sua borsa. Nell’aprirla trovò il cristallo
di Berg e la cartina dove erano segnati tutti i punti d’ingresso della Nemesi;
che fortuna, pensò, avevano raccolto proprio tutto senza rubare niente!
«Tu
ci porti da Nemesi?» una vocina piccola e gentile colse Leef impreparata.
La
ragazza si voltò, incontrando le iridi nere e spaventate di una bambina con le
trecce disfatte; la scienziata sentì un colpo al cuore, rivedendo in quella
bimba se stessa dopo il suo primo incontro con gli Alpha Nominus. Che ironia.
Adesso era lei il membro della Nemesi che andava a salvare bambini dall’animo a
pezzi.
Cerco
di calmare i battiti troppo forti del cuore e, quando finalmente riuscì ad
alzare lo sguardo, si accorse di aver catalizzato l’attenzione. La risposta che
aveva inseguito per anni adesso le si palesava davanti agli occhi: il vero
motivo per cui era entrata nella Nemesi non era sterminare gli Alpha Nominus,
ma aiutare gli umani come lei.
Tornò
a guardare la bambina con sguardo determinato ed un sorriso sicuro di sé,
annuendo «Ci andiamo subito.»
La
fanciulla sorrise.
***
“Manca
poco…” pensava Leef mentre guidava la folla tra il buio degli edifici.
Avevano
preferito muoversi immediatamente, di notte, in quanto gli Alpha Nominus, proprio
come gli esseri umani, cacciavano di giorno e dormivano la notte.
L’entrata
della Nemesi più vicina si trovava in una cabina telefonica a tre isolati dalla
loro posizione, ormai mancava poco e già riusciva a vedere in lontananza il
rosso della struttura, anche se non era ancora chiaramente visibile.
«Avanti!»
spronò sottovoce quelli dietro di lei, indicando la cabina «Siamo arrivati!»
Diversi
volti si colorarono di una meravigliosa speranza che Leef non vedeva da anni,
poiché tutti alla Nemesi l’avevano persa. Diede un rapido sguardo alla coda
della fila, dove stavano gli uomini più forti, imbracciando fucili e altre
armi; uno di loro portava sulle spalle Lance ancora senza forze, con la gamba
avvolta nelle garze ormai completamente bagnate di sangue.
La
febbre si era alzata e le sue condizioni erano peggiorate, così come quelle del
cuore di Leef, che si spezzava ogni volta che lo vedeva in quello stato.
Aveva
scoperto che oltre Lance c’era anche un altro ferito: un uomo del gruppo, il
quale aveva avuto un incontro troppo ravvicinato con un Alpha Nominus un’ora
prima del loro ritrovamento. Aveva perso un braccio.
Si
era posta diverse domande da allora: perché questa nuova tecnica di mordere
invece che uccidere direttamente, così da dare la possibilità alle vittime di
scappare? Solitamente un Alpha Nominus attaccava e o sbranava sul momento o assorbiva,
così da riempirsi la pancia. Anche i suoi genitori erano stati assorbiti. Ma
questo nuovo atteggiamento sembrava quasi marchiare le vittime come proprietà
privata. E in tutta sincerità non le piaceva pensare che Lance era ora
proprietà privata di uno di loro.
“Ci
siamo” fortunatamente nessun mostro era in giro quella notte, dunque la ragazza
poté aprire lentamente la porta della cabina, senza far rumore; entrò veloce e
digitò sulla tastiera il numero segreto che attivava il pavimento sotto i suoi
piedi, che in realtà era un ascensore.
Si
fece poi da parte, spiegando sommariamente di entrare a coppie il più in fretta
possibile. La folla si accalcava nella frenesia del momento, creando qualche
rumore, ma sorprendentemente mostrarono un’ottima capacità di gestione del
panico: prima furono messi in salvo donne e bambini, poi i feriti, poi i
vecchi, infine gli uomini.
Pian
piano tutti furono mandati giù, ma Leef volle essere l’ultima a scendere.
Scoccò uno sguardo preoccupato a Lance agonizzante, mentre il suo profilo
spariva con l’ascensore.
Quando
rimase sola, si guardò intorno per un tempo indefinito, scrutando la notte alla
ricerca di qualsiasi segnale: nessun rumore, nessun Alpha Nominus. Solo il
silenzio di una città devastata.
Sospirò
e finalmente entrò nella cabina, chiuse la porta, voltandosi verso il
ricevitore. L’ascensore discese. Proprio nel momento in cui il profilo della
strada spariva, due bagliori gialli illuminarono la notte, incontrando il suo
sguardo.
A
stento Leef trattenne un urlo spaventato, ma ormai era già sotto terra. Poggiò
una mano contro il vetro dell’ascensore, mentre la terra scorreva intorno a lei.
Aveva gli occhi sgranati e il cuore che batteva forte, il respiro affaticato.
Dovevano distruggere quell’entrata, ora gli Alpha Nominus sapevano che quello
era un punto di passaggio.
Quando
finalmente giunse tra le bianche e rassicuranti pareti della Nemesi, andò
subito alla ricerca di un membro della sicurezza. Lo trovò dopo pochi minuti:
un vecchio soldato che imbracciava un kalashnikov.
«Ah,
signorina Leroy. Ce ne sono altri?» si affrettò questo; era un uomo molto alto
e ben impostato, vestito di blu, con la tipica divisa delle forze dell’ordine.
Dietro di lui vi erano i profughi, salvi e sorridenti. Quella visione però non
riuscì a rilassarla.
«No,
io sono l’ultima. Gli Alpha Nominus ci hanno visti.» spiegò con una certa
trepidazione, ma non ebbe bisogno di finire la frase.
L’agente
annuì e s’incamminò verso il commando «Ostruiremo subito l’entrata.»
***
Erano
passati tre giorni da quella notte, ma ancora la notizia dell’arrivo dei
profughi era sulla bocca di tutti. Il gruppo era stato diviso, ognuno aveva
ricevuto le giuste cure mediche e assistenza: per loro l’incubo era finito.
Almeno per il momento.
L’entrata,
la quale quella stessa notte era stata distrutta, non rappresentava più un
pericolo. Jonathan, il capo dei profughi, stava pian piano imparando qualche
parola di francese per comunicare con gli altri.
Lancelot
Langford aveva sfiorato la morte più e più volte, ma l’aveva scampata; giaceva
nel suo letto d’ospedale finalmente salvo, la sua vita non più in pericolo. Ora
sorrideva a Leef e parlava con lei come se tutto non fosse mai accaduto.
«Questo
pollo fa schifo!» si lamentava del cibo dell’ospedale ad ogni pasto.
«Mangia,
devi recuperare le forze.» lo rimbeccò la ragazza, imboccandolo «Biasima te
stesso! Guarda a che punto ci ha portati il tuo complesso dell’eroe.»
Lance
sorrise e scosse la testa «Veramente… se qui c’è un eroe, sei tu! Io ho solo
provato che il cristallo di Berg funziona eccome, ma tu hai salvato
tutte quelle vite.» le sorrise con la bocca piena, ingurgitando tutto di forza.
Sapeva che era cibo selezionato, tutto merito di una dieta per farlo guarire
prima, ma ciò non toglieva che il pollo degli allevamenti bui della Nemesi
facesse davvero schifo.
«No.
Tu hai dimostrato che il cristallo funziona, mi hai salvato la vita, poi loro
hanno salvato le nostre e infine io le loro.» come sempre Leef faceva della
logica il suo marchio di fabbrica, ma quando non teneva in mano due pistole
calibro 36 era anche una donna che si avvicinava alla definizione di femminile;
aveva raccolto i capelli in una lunga treccia con cui litigava in
continuazione. Sapeva però che Lance amava le trecce, quindi… perché non farlo
felice?
Spostò
lo sguardo preoccupato verso la gamba di lui e chiese piano «Come va la gamba?»
«Benissimo!»
mentì lui, ricevendo in cambio un’occhiataccia.
Eppure
cercava di non farla preoccupare, o almeno non troppo; era stato uno
sprovveduto a mettersi in quella situazione, si sentiva molto in colpa anche se
non lo dava a vedere «Beh, meglio di prima. Anche se ho uno strano gonfiore…»
lasciando cadere la cosa, prima che Leef chiamasse a raccolta l’intero staff
medico, dirottò l’argomento su ben altro «Ah! Non ho avuto la possibilità di
parlartene prima. A casa nostra, sul tavolo della cucina, ho lasciato un regalo
incartato con una bustina blu. È per te, mon amour.»
«Un
regalo?» lo guardò di sbieco Leef, la facciata di dura crollò all’istante e si
concesse un sorriso «Non... me lo aspettavo. Grazie…»
Che
cosa carina. Così carina ma anche così improvvisa che…
«Ah!
Non penserai di distrarmi dal farti pranzare, eh!?»
«Nooooo!
Ti prego! Basta!» che misero fallimento, Lance!
Mentre
Lance si agitava, cercando di evitare la forchetta di lei che doveva
imboccarlo, la porta della stanza si aprì, sbattendo contro il muro.
Jonathan
del gruppo di profughi entrò trafelato, con gli occhi sgranati, pallido e
madido di sudore; era talmente terrorizzato che la coppia per un attimo temette
che gli Alpha Nominus fossero riusciti a penetrare nella sede, ma quando parlò
il messaggio fu ben diverso «Signorina Leroy! Il mio amico! Presto, mi segua!»
Lance
e Leef si scambiarono un’occhiata stranita, quindi la donna si alzò ed
abbandonò sul tavolino il pranzo. Quando Leef fu fuori, Lance cacciò
un’occhiata disgustata al pollo.
«Aaah…
questa dannata gamba fa davvero un male cane…»
***
Leef
venne condotta tre corridoi accanto, dove riposava il paziente che aveva subìto
lo stesso trattamento di Lance; già avvicinandosi poté sentire urla disumane che
provenivano da lì. Urla che le fecero gelare il sangue nelle vene.
“Come
ha fatto un Alpha Nominus ad entrare?!” si chiese sbalordita, accelerando il
passo.
Lo
spettacolo che si ritrovò davanti era a dir poco terrificante. Tre infermiere
giacevano a terra in un lago di sangue, due col volto dilaniato e una ridotta a
uno scheletro a cui non era stata assorbita solamente la testa. Due dottori cercavano
scampo ammassandosi contro le pareti, mentre cinque agenti della sicurezza
scaricavano cartucce su cartucce coi loro fucili.
Un
Alpha Nominus si accasciò a terra nello stesso momento in cui Leef entrò.
«Ah!
Cosa diavolo è successo qui…?!» esclamò la ragazza, facendo spontaneamente un
passo indietro.
Il
mostro era morto, lo avevano esposto alla luce del cristallo di Berg, il quale
era stato clonato ed era pronto per essere trasformato in proiettili per
uccidere i mostri.
Urlando,
Jonathan si accasciò a terra accanto a lei; un atteggiamento che Leef non
comprese e che la lasciò assolutamente sbigottita: perché stava piangendo per
la morte di un Alpha Nominus? Gli aveva dato di volta il cervello?
Un
dottore, uno dei pochi sopravvissuti, le si avvicinò; era coperto di sangue ma
non sembrava aver riportato ferite gravi, tutto ciò che voleva era uscire da
quell’inferno maleodorante. Le fece cenno di seguirlo, e Leef lasciò Jonathan
solo assieme al suo inspiegabile dolore.
Cominciarono
ad allontanarsi in silenzio, mentre sentivano ancora il capo dei profughi
disperarsi.
«Cosa
diavolo è successo qui dentro?» ripeté lei, aiutandolo mentre l’altro arrancava
in direzione di una sedia.
«Quello
che sto per dirle potrebbe scioccarla… lei ha condotto questi stranieri qui,
giusto?» lo specialista vi si lasciò cadere sopra e trasse un profondo sospiro,
pulendosi il sangue dal viso; i primi aiuti cominciavano ad arrivare e il
corridoio a popolarsi, ma Leef aveva attenzione solo per lui. Annuì con
convinzione.
«Solo
quell’uomo era ferito, giusto? Nessuno ha riportato ferite abbastanza leggere
da non esserci segnalate?» gli tremò la voce e si passò una mano sulla fronte, poi
si sistemò gli occhiali e si passò di nuovo la mano sulla fronte. Stava per
impazzire?
La
donna annuì ancora, cominciando però a perdere la pazienza «No, nessun ferito
stando a quanto mi è stato detto.»
«Signorina
Leroy...» l’uomo a quel punto si fermò, voltandosi per fulminare Leef con gli
occhi «Quell’uomo si è mutato davanti ai miei occhi in un Alpha Nominus.»
Leef
pensò si aver sentito male, oppure di essere diventata pazza come Jonathan. Non
poteva esserci altra spiegazione. A stento, con voce flebile e sconvolta,
mormorò «Come, scusi?» e per poco non gli rise in faccia, tanto era assurdo
quel discorso.
Le
stava dicendo che gli Alpha Nominus adesso rinunciavano a un pasto fresco per…
riprodursi trasformando gli umani? Come gli zombie o i vampiri delle leggende?
Era un pessimo scherzo forse? La voleva prendere in giro?
«Non
sappiamo come. Non ne abbiamo la minima idea.» confessò il dottore «Non è mai
successo niente di lontanamente simile. Il paziente ha cominciato ad accusare
dei dolori molto forti alla spalla. Sembra che gli abbiano iniettato qualcosa
che i nostri strumenti non sono in grado di riconoscere.»
Ma
Leef non lo ascoltava. La notizia l’aveva segnata dentro, nel profondo.
Quell’uomo era stato morso un’ora prima di Lance.
«No…»
Leef provava a trattenersi mentre su di lei scendeva un velo freddo.
La
mente le si era di colpo fermata.
«Dannazione!»
urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
Abbandonò
il medico, correndo a perdifiato verso la stanza dove aveva lasciato Lance.
Urtò innumerevoli volte contro i passanti che avevano deciso di farle da muro,
imprecando e intimando di togliersi di mezzo.
Il
cuore le salì in gola quando vide che la porta della stanza 24 era aperta.
Tutto
il puzzle ora assumeva la sua vera forma, molte domande ottenevano risposta.
Era un orrendo, disgustoso puzzle. La ragazza pregò una qualche assurda
divinità che fosse tutto un incubo.
“No…
non può essere vero…” sentì di star piangendo, una cosa così irrazionale per
lei.
Finalmente
giunse la stanza, col fiato mozzato e i polmoni doloranti.
Guardò
dentro. Non c’era nessuno. Il letto era sotto sopra, le lenzuola strappate.
Leef
si accasciò a terra, senza forze né pensieri «Lance…»