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Autore: _Frame_    07/02/2016    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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69. Inganno e Sacrificio

 

 

La ferita continuava a sanguinare. Fiotti caldi e densi schizzavano fuori dal polpaccio ogni volta che Italia premeva il piede a terra. Lo stivale affondava nel fango, le rocce aguzze salivano fino alla caviglia, la imprigionavano. Italia spingeva il peso sul ginocchio flesso in avanti e una violenta scarica di dolore fulminava il muscolo, dove il proiettile si spostava e batteva sulla carne bruciata e lacerata. Italia strinse i denti, la mandibola vibrò per lo sforzo, e strizzò gli occhi, cercando di non immaginarsi il fiume di sangue nero che colava dalla ferita e che tingeva la stoffa dei pantaloni, scivolando verso le rientranze di cuoio dello stivale e mescolandosi al lago di fango annacquato.

Altro passo. La gamba ferita cedette, Italia si inginocchiò in avanti, e il braccio del tenente stretto al suo gomito lo sostenne. Il tenente rallentò, si voltò, fece forza sul braccio e aiutò Italia a tirarsi in piedi. Italia zoppicò, trascinò il piede della gamba ferita, e riprese a correre sotto la pioggia.

Il rumore degli spari tornò a invadere il cielo, come il suono di un temporale che borbotta dietro le nubi. Italia strizzò gli occhi, sbatacchiò via la pioggia ghiacciata dalle ciglia, e puntò le pareti della montagna nascosta dalla nebbia. I lampi bianchi degli spari si alternavano proprio come fulmini. Gli scoppi echeggiavano rimbalzando nella valle e tornavano a schiantarsi contro le pendici dei monti. Italia arrancò ancora. Chinò le spalle, trascinò il piede, si spinse sulla gamba sana, e il braccio del tenente lo tirò in avanti, senza smettere di correre. Gli schizzi di fango si aprivano sotto di loro come spruzzi di onde schiumose che si infrangono sulla spiaggia.

Italia gettò lo sguardo dietro di sé, da sopra la spalla. La nebbia si stava dissolvendo. Un sottile velo grigio alternato alle gocce di pioggia galleggiava come una nuvola sopra il terreno, si spostava in un banco di fumo, disperdendosi e facendosi più trasparente.

Italia deglutì. Serrò una mano e strizzò le dita sulla stoffa bagnata della giacca, nella parte sinistra del petto. Il senso di oppressione stava svanendo come la nebbia. L’immagine del coltello che avvicina la punta scintillante e che buca la sua carne, incrinando le ossa e spruzzando sangue sulla lama piatta e lucente, si stava allontanando.

Grecia li stava davvero lasciando fuggire.

Il tenente disegnò un arco in aria con il braccio libero che non stringeva il gomito di Italia, e raschiò via uno strato di vapore bianco che si sciolse sotto il diluvio. Aprì la visione della stradina di montagna crivellata dalle pozzanghere e la parete del monte illuminata dagli spari lampeggianti.

Scoppi infransero l’aria, i suoni degli squarci erano come il chiasso provocato da un intero servizio di argenteria che precipita dalla credenza contro il pavimento di marmo. Gli echi dei tuoni si alternavano, diventarono brontolii, ruggiti di bestie feroci a cui gorgoglia lo stomaco affamato.

Ci fu uno scoppio più forte e vicino. L’aria vibrò, surriscaldandosi, e il suolo tremò sotto la loro corsa.

Italia sobbalzò, si morsicò un labbro per lo spavento, e trattenne un vagito. Le scosse di paura si trasmisero fino alla mano del tenente che si teneva aggrappata al suo braccio.

Il tenente voltò il viso. Gli scoccò uno sguardo da sopra la spalla, con gli occhi bagnati dalla pioggia che gli gocciolava dai capelli.

“Ce la fa a camminare?” gridò.

Italia raddrizzò lo sguardo. Sbatté le ciglia, gli rivolse due occhi lucidi e smarriti, la bocca socchiusa e il volto pallido, imperlato dalle gocce di pioggia che traballavano sulle guance e sotto il mento. Uno sguardo grigio, vuoto, di chi si è appena reso conto di dov’è e di cosa sta facendo.

Italia socchiuse di più il labbro inferiore. “Uh, s...” Gli occhi si abbassarono, inquadrarono la gamba ferita e annaffiata dal sangue che zoppicava nel fango. Italia deglutì un groppo di saliva che sapeva di bile, e accennò un sì con il capo. “Sì. Credo... di sì.”

Il tenente annuì schizzando altra pioggia dal capo, strinse di più il braccio attorno al gomito di Italia, e anche lui guardò la ferita alla gamba. Italia si era lasciato dietro un rigagnolo rosso che tingeva le rocce e il fango come un nastro largo e piatto che si è srotolato da una veste.

Il tenente raschiò via un’altra bracciata di nebbia, svelò la parete di roccia più vicina che si impennava verso il cielo, svanendo tra le nubi. Era scura. La pioggia scendeva in una serie di cascate trasparenti che lucidavano le pietre.

“Venga.”

Lo tirò più vicino a sé. Italia dovette di nuovo guaire a denti stretti per non farsi scappare un gemito di dolore. Ogni passo era un morso dato da una corona di denti aguzzi piantati nel polpaccio. Il proiettile pulsava nella carne. I raggi di dolore si gonfiavano e sgonfiavano come battiti cardiaci. L’anca e il piede cominciarono a fargli male assieme al polpaccio.

Le loro ombre si allargarono contro la parete di roccia. Fermarono la corsa e Italia esalò un lungo e profondo sospiro di sollievo. Rigettò l’aria dalla bocca e chinò il capo tra le spalle, lasciando grondare i capelli a terra. Spinse la mano sul ginocchio flesso in avanti, si piegò sulla pancia e respirò a boccate ampie e pesanti. Suoni rauchi e aspri passarono attraverso la gola e uscirono dalle labbra tremanti su cui scivolavano cascate di pioggia che erano colate dal viso rosso e rigido di freddo. Le guance però erano in fiamme tanto quanto i polmoni e i piedi.

Il tenente sfilò il braccio dal gomito di Italia, gli strinse le spalle, lo fece zampettare di due passetti verso la parete della montagna, e fece pressione con le dita per spingerlo a sedersi a terra.

“Mi faccia vedere,” disse con tono apprensivo.

Italia si aggrappò alle spalle dell’uomo, sollevò la gamba ferita, tenendola sospesa, poi piegò quella sana spingendo le forze solo sul piede e sul muscolo del polpaccio integro, e strusciò la schiena contro le rocce appuntite. Toccò terra. Il suolo di fango si aprì sotto il suo peso e finì per imbrattargli l’uniforme già lercia, pesante e fredda. Italia piegò la gamba sana, tirò il ginocchio vicino al petto e sentì il suono scricchiolante dello stivale che gemeva sotto la pressione. Storse leggermente la gamba ferita. Il polpaccio sfiorò una roccia, la stoffa bagnata e pregna di fango aderì alla ferita aperta e frustò il muscolo in una flagellata di dolore che arrivò fino alla punta dell’alluce.

Italia gettò il capo all’indietro, sbiancò, e schiacciò il palmo bagnato di acqua, fango e sangue contro la bocca per non urlare. Le guance si riempirono di un sapore metallico.

Il tenente si accovacciò davanti a lui, gli mise delicatamente una mano sotto il ginocchio e l’altra sotto la caviglia.

“Stia fermo. Faccio più piano che posso.”

Un’esplosione lontana espanse un boato che ruggì tra le nuvole.

Italia e il tenente sobbalzarono, chiusero gli occhi e si coprirono le teste.

Qualcosa franò, il suono prolungato della slavina scrosciò lungo la valle e si dissolse. Spari secchi e più deboli si sovrapposero al frastuono dell’acquazzone.

Italia socchiuse gli occhi, batté i denti, il corpo tremava a rapidi e profondi spasmi. A ogni brivido, il proiettile batteva sul muscolo scaricando altre scosse di dolore. Sciami di scintille bianche volteggiarono davanti ai suoi occhi come nuvole di lucciole. Italia vedeva le stelle.

Il tenente sollevò di poco la mano che gli aveva appoggiato dietro il ginocchio, piegò le dita avvolte attorno alla caviglia e gli flesse il piede di lato, esaminando la bruciatura dello sparo che continuava a lacrimare sangue. Il fluido rosso e caldo gli scivolò tra le dita, tinse la pelle, e colò a terra, mescolandosi alla pioggia.

Il tenente fece schioccare la lingua tra i denti. Aggrottò la fronte, fissò la ferita con una buia espressione di disapprovazione. “Maledizione, speriamo che non abbia colpito l’osso.”

Dalla bocca di Italia fuoriuscì un guaito di sofferenza che finì soffocato dalle dita ancora schiacciate contro le labbra.

Il tenente tenne la caviglia ferma con una mano, tolse l’altra mano da dietro il ginocchio e posò i polpastrelli vicino alla parte ferita, dove la stoffa era zuppa, appiccicosa, e calda di sangue. Fece una leggera pressione. Il muscolo lacerato si strinse attorno al proiettile, il metallo colpì la carne, si mosse, e un violento spasmo di dolore fece sobbalzare la gamba.

Italia urlò. “Ah!” Il dolore arrivò secco e luminoso come un fulmine che si schianta alla base della sua nuca, trafiggendogli il cranio. La gamba tremò come se le avessero dato la scossa con un pungolo elettrico. Rimbalzò e tornò ferma.

Sudori ghiacciati invasero il corpo di Italia, le scintille davanti agli occhi aumentarono, lo sciame di lucciole si ingrossò, luccicò in mezzo alla pioggia grigia. I suoni fischiarono, le orecchie si tapparono, Italia ebbe un capogiro. Stava per perdere i sensi.

Scrollò il capo scacciando via le vertigini dalla testa.

Il dolore al polpaccio, le scosse che si arrampicavano sulla gamba, il sapore e l’odore del sangue, la consistenza del fango che si squarcia sotto di lui, lo fecero tornare a qualche istante prima.

Gli occhi di Grecia, placidi e socchiusi, ma che irradiavano quell’aura aggressiva e ostile. La pioggia che scendeva dai suoi capelli e che scorreva sul viso disteso, i rigagnoli trasparenti che lacrimavano dalle palpebre e dalla bocca di fuoco del fucile puntata contro di lui. Una bocca larga, nera e profonda, che lo aveva già morsicato.

Il cuore di Italia riprese a martellare come quando era immerso con il fango fino ai denti, accovacciato ai piedi di Grecia.

Socchiuse le labbra e respirò a bocca aperta e vibrante. Il fiato bruciava nei polmoni, lo stomaco si strinse di paura, ondate di terrore ghiacciato risalirono la schiena mordendolo alla base del collo.

Italia boccheggiò. “Voleva uccidermi?”

Gli affanni furono così secchi, rauchi e profondi, che Italia non si accorse delle esplosioni che fecero tremare le pareti di roccia contro la sua schiena. Gli echi svanirono come le nuvole di polvere.

“Potevo...” Si strinse una mano sopra il cuore. Il muscolo martellava contro le sue dita, Italia lo sentì gonfiarsi in gola, bloccargli la voce e il fiato. “Potevo morire?” stridette. La mano libera risalì il viso, toccò le labbra lucide di pioggia, le guance gelide e brucianti, e le dita si infilarono tra i capelli, strizzando le ciocche all’altezza della tempia. “Cos’ho fatto?” Le lacrime gli riempirono la vista. Un velo appannato gli gonfiò gli occhi, le gocce di pianto bruciarono le palpebre, si sciolsero e si unirono ai rivoli di pioggia che rotolavano dagli zigomi al mento. “Cos’ho fatto?” singhiozzò. “È tutta colpa –”

“Signore, dobbiamo portarla via da qui.”

Italia sentì una fitta pressione all’altezza del polso. Abbassò lo sguardo appannato di lacrime, altri due goccioloni rotolarono sulle guance e si confusero con la pioggia. La mano del tenente gli teneva il polso stretto. Il braccio dell’uomo tremava, le nocche e le unghie erano bianche, le dita bagnate grigie per il gelo.

Una fitta di paura strinse il cuore di Italia, come se il tenente gli avesse passato tutta la sua ansia attraverso la stretta. Italia ingollò tre respiri profondi attraverso le labbra. Si bagnò il palato che sapeva di ferro, di polvere e di pioggia. Riguadagnò aria, il laccio di paura stretto attorno al cuore si sciolse lentamente, e Italia sollevò lo sguardo verso il viso del tenente.

Due occhi grigi, ristretti e vacillanti lo imploravano da dietro le perline di pioggia che filavano tra di loro, giù dai capelli e dalle ciglia.

Italia sentì un’altra fitta di paura colpirgli lo stomaco.

La mano del tenente tremò, strinse sul polso di Italia e tirò il suo braccio più vicino al petto, come per spingere Italia a rialzarsi. Aprì l’altra mano in mezzo al fango, già pronto a darsi la spinta verso l’alto.

“Dobbiamo immediatamente portarla lontano dal pericolo e trasferirla alla Divisione Julia, il più lontano possibile da qui.”

“Ma...” La gola di Italia bruciava. Aveva inalato troppa polvere e troppo zolfo. Italia si bagnò il palato con le gocce di pioggia entrate dalle labbra, spinse il peso sul piede sano, schiacciando il ginocchio al petto e le spalle alla parete. Fece resistenza. “Ma io... voi mi avevate detto che qui non c’era pericolo, che sarei stato...”

“Lo so, lo so.” Il tenente strinse i denti e Italia vide dell’acqua piovana lucidargli le gengive arrossate. “Non lo avevamo previsto nemmeno noi.” Fece correre una mano tra i capelli, dalla fronte alla nuca, e scrollò le ciocche dietro l’orecchio come se si stesse grattando. “Merda,” ringhiò. “L’attacco greco doveva essere tutto concentrato in Epiro, e non sul Pindo, tantomeno in Macedonia.”

“In Epi...” Italia sbatté le palpebre. Occhi affogati dalle lacrime, pioggia e confusione vagarono a vuoto, smarriti. Sollevò un braccio e con la manica raschiò via i residui di lacrime dalle palpebre, tirò su col naso aspirando l’odore del diluvio, e la vista tornò limpida. “Vuole...” Boccheggiò ancora. La bocca aveva un sapore cattivo e le labbra erano pesanti, non riuscivano a mettere insieme le parole. “Vuole dire al sud?” Continuava a girargli la testa.

Il tenente sfilò la mano dal polso di Italia lasciandogli un bracciale di calore sulla pelle. L’ufficiale serrò il pugno che si fece solido come una roccia e lo pestò a terra, aprendo una corona di spruzzi di fango attorno al braccio. “Sì, maledizione.”

Ci fu un’esplosione lontana. Una nuvola nera si gonfiò dietro il picco della montagna ma nessuno dei due la notò.

Il tenente inspirò dai denti e rigettò l’aria in uno scatto d’ira. “Se c’era qualcuno che doveva prenderle quello era...”

L’eco dello scoppio sembrò rimangiarsi le sue parole. Il vuoto d’aria le risucchiò direttamente nello stomaco, si spensero e si ritirarono come un’onda d’urto che si dissolve nell’aria.

La bocca del tenente rimase aperta, a raccogliere tutte le gocce di pioggia che gli scivolavano tra le labbra. Una scintilla d’allarme balenò in mezzo agli occhi, lo sguardo divenne vacuo, poi di nuovo carico di timore.

Italia sbatacchiò le ciglia, restò in silenzio, a guardare gli occhi del tenente che annegavano nel panico. Piegò lievemente il capo di lato, storse un’occhiata interrogativa, e ritornò l’espressione di chi spera di aver sentito male. “Co...” Scosse di nuovo il capo. Slargò gli occhi, inarcò le sopracciglia. Dalle palpebre non scendevano più lacrime, solo pioggia. “Cosa?”

Il tenente si posò il dorso della mano sulla bocca, come sperando di rimangiarsi e inghiottire le parole appena dette. “Non... non importa.” Gettò lo sguardo lontano da quello di Italia, parlò tra le dita a sfioro della bocca. “Dimentichi quello che ho detto, lo dimentichi.”

L’esplosione tuonò sopra di loro, come il fulmine di un temporale. La luce lampeggiante abbagliò il viso di Italia, lo scoppio si specchiò nei suoi occhi larghi e allucinati, e la pioggia batté incessante sulle guance, sul collo, contro i capelli e le orecchie.

Italia non sentì più freddo. Il dolore al polpaccio era svanito, il proiettile scomparso, e l’eco dello scoppio lo fece sobbalzare.

Realizzò.

Sud, sud, sud... Se c’era qualcuno che doveva prenderle, quello era...

Le parole lo trafissero alla nuca come un ramo elettrico.

Il tenente ruotò lo sguardo con un gesto restio, timido. Guardò Italia da sotto i capelli gocciolanti.

“Ora pensi solo a...”

“Voi.” Uscì in un sospiro dalle labbra di Italia.

Rigirò il ginocchio sano, affondò il piede dentro il fango e i sassi, e si spinse con la gamba e con i palmi schiacciati nel pantano, strisciando all’indietro, lontano dal tenente. La paura lo aveva travolto in una marea più grossa e violenta di quando si era ritrovato davanti a Grecia.

Italia ricominciò a tremare. “Voi volevate tenere me al sicuro solo per...” Sbatté la schiena alla parete. Due rocce aguzze lo punsero ai fianchi, e il dolore gli strozzò la voce. Italia allargò le palpebre e gli occhi di panico assunsero una vena di incredulità. “Solo per sacrificare Romano al posto mio?”

Il tenente chiuse gli occhi, corrugò le sopracciglia, gettò il capo a ciondolare tra le spalle, e si resse la fronte con la mano infangata. Non disse niente.

Il terrore che riempiva il cuore di Italia ribollì in indignazione. Indignazione e ribrezzo fluirono attraverso le vene, facendo crescere una cascata di brividi lungo tutto il corpo.

Italia sollevò di più lo sguardo. Abbassò di poco le palpebre, gli occhi rabbuiarono, la frangia andò a coprirli. Italia abbassò la voce. Era un mormorio nel diluvio.

“Ci avete ingannati.”

Il tenente scosse il capo. Si tolse la mano dalla fronte e la allungò verso Italia, per toccargli il braccio. “Signore, non è come sembr –”

Italia si retrasse. Richiamò il braccio al petto come per non farsi bruciare da una lingua di fuoco. “No,” pianse. “Voi...” Una maschera di paura tornò a coprirgli il viso, fece tremare gli occhi. “Voi volevate far del male a mio fratello.”

La suddivisione, la distribuzione delle divisioni in tre blocchi. ‘Nord e sud’, continuava a ripetergli la voce del generale che aveva esposto il piano d’attacco. Nord e sud. Salvezza e morte.

Italia guardò in basso.

Il fango liquido scorreva tra le rocce e un filo del suo sangue si unì al flusso, srotolandosi come un nodo.

“Avevate pianificato tutto,” mormorò Italia, “in modo che fosse lui quello più in pericolo.”

Il pugno del tenente spremette un grumo di fango. L’ufficiale strinse i denti, aspirò una boccata d’aria, e rigettò la voce. “Come avremmo potuto fare, altrimenti?”

Italia tornò a guardarlo.

Il tenente tornò a ficcarsi una mano inzaccherata di fango tra i capelli, tenne coperto il viso contratto da spasmi. “Era chiaro che i greci non se ne sarebbero rimasti a guardare, ed era...” Lo smalto dei denti stridette. “Era anche ovvio che sarebbero stati infinitamente più preparati di noi. Se c’era un modo per poter avere una minima speranza di vincere...” Abbassò la voce, il rossore sul viso si ritirò, le guance sbiancarono. Il tenente lasciò scivolare le dita dai capelli, la mano dal viso, e affondò il braccio nel fango. Restò a capo chino, come un cane che si ripresenta davanti alla porta di casa dopo aver divorato il salame della cantina. “Se c’era un modo per vincere, era solo quello di lasciare che i greci scaricassero la loro furia su uno di voi due per permettere all’altro di avanzare e di impadronirsi della nazione.”

Italia tornò a spalancare gli occhi. Rivoletti di pioggia scesero lungo il viso, disegnarono il profilo delle palpebre, si inspessirono sui rigonfiamenti delle guance, e colarono dal mento e dal ciuffo arricciato sulla spalla.

“Siamo l’unico paese che può permettersi un simile sdoppiamento, non facciamoci sfuggire questa preziosa occasione.”

Gli occhi di Italia, larghi, lucidi e smarriti, vagarono sul terreno.

“Ecco perché ci avete divisi,” sospirò.

Il tenente tornò a scuotere il capo con aria mortificata. “Non era un inganno, signore. Era...” Si strinse nelle spalle. Stropicciò la fronte, arricciò un angolo delle labbra. Cercò una valida scusa tra i sassi. “Strategia.”

L’aria attorno a Italia divenne di ghiaccio.

Un silenzio ovattato gli riaprì le orecchie, la testa.

Il cuore divenne un enorme grumo di dolore incastonato nel petto.

“Stra...” Italia scivolò ancora più indietro. Spinse anche sulla gamba ferita. Non sentiva più dolore. “... tegia?”

Il silenzio proseguì.

Il tenente non mosse muscolo, tornò ad allontanare lo sguardo dai tristi occhi accusatori di Italia.

Italia piegò gli angoli delle labbra verso il basso. Trattenne un lamento ondeggiante, risucchiò le lacrime dentro gli occhi brucianti.

“Uccidere mio fratello è strategia?”

Spari e mitragliate lontani fecero tremare il suolo e l’aria.

Le scosse della terra risalirono il corpo di Italia, gli trasmisero profonde vibrazioni di energia che ribollirono nel sangue, fino ad arrivare al cuore e pulsare fino alle tempie.

Italia chiuse la bocca, deglutì.

Tornò lucido.

“Voglio andare da lui.”

Il tenente esalò un sospiro sconsolato. “Signore, la nostra intenzione non è mai stata quella di mandarvi a morire. Ma cerchi di capire...” Riprovò ad allungare il braccio verso Italia. “Ormai non...”

“No.” Italia sgusciò via dalla presa, tornò a schiacciare tutto il peso contro la montagna alle sue spalle. Premette i palmi, le scapole e la nuca sulle rocce. Negli occhi ricomparvero i lampi di panico che accompagnarono un’abbondante discesa di lacrime. Gli occhi erano due cubetti di ghiaccio che si scioglievano sopra una fiamma rovente. “Portatemi da mio fratello. È...” Richiamò i pugnetti al petto. Spremette gli occhi, si chiuse nelle spalle, e per la prima volta decise di comportarsi come Germania. Esplose di rabbia. “È un ordine, fatemi andare da lui!”

“Non possiamo!”

Questa volta gli strinse davvero il braccio. Scattò, gli prese il polso con una stretta salda, ma senza fargli male, e si tirò più vicino a Italia. Lo guardava di nuovo negli occhi.

“Signore, adesso tutto quello che possiamo fare è portare lei al sicuro, presso la Divisione Julia. Là non c’è pericolo, i greci si sono concentrati qui.” Il tenente prese un respiro tremante e profondo. Dovette stringere le dita per non far scappare Italia dalla presa. “Guidi la Julia,” gli disse con tono più pacato. “Attraversi la Catena del Pindo.” Sollevò lo sguardo. Ora le sue parole erano scure e basse come i rombi delle esplosioni che brillavano lontane. “E vedrà che si ricongiungerà presto a suo fratello, oltre il confine.”

Lo sguardo di Italia non mutò. Pelle bianca, occhi lucidi e grigi di paura. Tremò, e la sua voce lo fece assieme a lui. “Come faccio a fidarmi di voi, adesso?”

Il tenente scosse il capo. “Non le sto chiedendo di fidarsi.” Sciolse le dita dal polso di Italia, ritirò il braccio. “Ma di fare la cosa giusta. Sia per lei che per suo fratello.”

Italia abbassò gli occhi. Altre lacrime fluirono aprendo cerchi concentrici sulla superficie delle pozzanghere in cui era immerso.

Pioveva, faceva freddo, Romano era in pericolo, e adesso non sapeva se avere più paura di Grecia o dei suoi stessi militari.

 

.

 

I passi di Grecia divisero il fumo grigio che galleggiava ai suoi piedi. La nebbia si spezzò in tanti tentacoli arpionati che si srotolarono in mezzo al fango, si contorsero, ed evaporarono, svanendo come ombre. Grecia continuò a camminare. Lento, placido, mentre la pioggia continuava a martellare da sopra, da dietro e di fronte. Spazzolò la spallina della giacca adagiata sulla schiena, quella su cui il gattino non si teneva aggrappato. Diede un colpo con la scapola al fucile, lo fece rimbalzare sulla schiena, e aggiustò meglio la manica dell’uniforme che ricadeva sul braccio. Spolverò di nuovo il tessuto, schizzando goccioline di pioggia.

Rumori più secchi e cadenti dell’acquazzone che mitragliava le rocce e il fango infransero il silenzio ovattato che si era creato quando Grecia si era battuto contro Italia. Ombre larghe e scure si gonfiarono in mezzo alla nebbia, i passi degli uomini divennero più forti e rigidi, le loro sagome accelerarono e si allungarono verso la cima del banco di nebbia che li divideva da Grecia.

Il primo degli ufficiali fuoriuscì dal muro di fumo, i vapori si aprirono attorno a lui, scivolarono lungo i fianchi, e l’uomo resse il copricapo sulla fronte per non farlo cadere sotto il getto d’acqua.

“Signore!” Una nube di condensa si gonfiò fuori dalle sue labbra.

Sentendosi chiamare, Grecia si fermò.

Tutti e tre gli uomini si piazzarono davanti a lui. Solo il primo si mise rigido sull’attenti, respirando affannosamente. Gli altri due si piegarono sulle ginocchia, reggendosi la pancia all’altezza della milza, e boccheggiando a spalle gobbe.

“Sta bene, signore?” Gli occhi dell’ufficiale sull’attenti percorsero il corpo di Grecia da capo a piedi. “È ferito?”

Grecia sbatté le palpebre, ruotò gli occhi verso il basso, sollevò un braccio e lo rigirò. “Mhm.” Si guardò alle spalle, una mano risalì il busto e toccò il petto. “Credo...” Voltò il viso, tornò a incrociare gli occhi con quelli dell’ufficiale. Grecia scosse le spalle. “Credo di stare bene.”

L’ufficiale si mise una mano sul cuore e sospirò. Un profondo sentimento di sollievo gli tinse le guance di rosso.

Il suo viso tornò rigido, l’ufficiale tossicchiò, e gli altri due uomini scattarono sull’attenti respirando più lentamente.

L’ufficiale batté un saluto sotto la frontiera del copricapo gocciolante. Il suo viso si ingrigì come il cielo.

“La Venezia è stata travolta, signore. Siamo riusciti a creare una barriera di difesa e a spingere gli italiani verso le retrovie.” Restrinse le sopracciglia, gli occhi brillavano già di vittoria. “Ormai gli sarà impossibile raggiungere Salonicco.”

Grecia annuì. “Bene.” Sollevò il braccio e carezzò il gattino schiacciato contro l’incavo del suo collo. Il micio fece le fusa. I baffi vibrarono facendo tremare le gocce di pioggia simili a perline di rugiada. Grecia voltò lo sguardo alle sue spalle, dietro il profilo del fucile che sbucava dalla sua schiena, squadrò la spuma di nebbia che prima lo aveva avvolto assieme a Italia. “Se qui non c’è più niente da fare, allora mi trasferirò sulla Catena del Pindo, a difendere il Nodo di Furka.” Sfilò le dita dalla pelliccia bagnata del micio, lasciò ciondolare il braccio a terra e le dita grondarono acqua come stalattiti sotto il sole di agosto. “Pensano di tenerlo lontano da me semplicemente facendolo scappare.” Gli occhi di Grecia si persero in un vuoto grigio, come se stessero guardando da un’altra parte, in un’altra dimensione. Le goccioline scendevano dalle ciglia e lucidavano quegli occhi larghi e tranquilli, ma vivi. “Stanno giocando a nascondino con me nel mio stesso territorio.” Le dita sul fianco si mossero. Grecia le strinse in un soffice pugno che fu attraversato da una sottilissima scarica di nervosismo. “Che stupidi.” Lo disse pianissimo, nemmeno gli ufficiali capirono.

I tre uomini si guardarono scambiandosi occhiate perplesse da sotto la pioggia.

Grecia levò gli occhi al cielo. Il musetto del gatto seguì la stessa direzione, ed entrambi fissarono le cime dei monti che emergevano da dietro le nubi gonfie di pioggia.

Io ho molta pazienza, Italia.

Aprì e chiuse il pugno. Un lieve formicolio gli pizzicò il palmo e le dita.

Ti inseguirò, aggrottò le estremità delle sopracciglia, fino a che non mi dirai quello che voglio sentirmi dire da te.

 

♦♦♦

 

1 novembre 1940

Divisione Julia, Battaglione Tolmezzo

Passo del Pindo

 

Cristalli di neve ghiacciata soffiavano lunghe e profonde ventate contro il viso e il corpo di Italia. Gli intorpidivano il naso, le orecchie, e le mani strette entrambe alla cinghia del fucile che gli attraversava il petto. La pioggia picchiava sull’uniforme della Divisione Alpina Julia, imbeveva lo stemma dell’aquila dorata ad ali spiegate rattoppata sulla spalla, e incollava la giacca alla pelle. Italia chiuse gli occhi per non far entrare l’acqua.

I suoni si intensificarono.

Passi e brusii di voci confuse lo seguivano alle sue spalle. La fila della compagnia di fanti procedeva lungo la stradina del tornante, a due a due, e le rocce scivolavano da sotto i loro stivali, franando verso valle, fino ai piedi della montagna.

Italia riaprì gli occhi e li sollevò al cielo. Pochi spicchi grigi tamponati da sbuffi di nuvole plumbee si aprirono tra i picchi delle montagne che si innalzavano fino a toccare il cielo. Italia inspirò dal naso. L’aria di montagna era più intensa, sapeva di neve sciolta, di roccia bagnata dalla pioggia, di corteccia e di muschio umido. E faceva freddo. Italia mosse le dita sulla cinghia del fucile e dentro la punta dello stivale. Non sentiva più né quelle dei piedi né quelle delle mani.

Premette un passo con più forza, il piede affondò in uno specchio di fango acquoso mescolato a rocce appuntite. Lo stivale sprofondò fino alla caviglia, il ginocchio si flesse. Non provò dolore. La ferita alla gamba era già guarita e rimarginata.

Italia scollò il piede dal fango, lo scosse sotto il getto di pioggia, e tornò a premerlo a terra. Trovò un punto più solido. La marcia avanzò guidando la compagnia del battaglione che procedeva dietro di lui.

Altri passi affiancarono quelli di Italia. L’uomo restrinse la camminata, gli sfiorò la spalla, e si portò lontano dalla parte scoscesa. Il tornante era stretto, si poteva marciare solo a coppie. Sull’uniforme dell’uomo risaltavano i gradi da maggiore a comando del battaglione, l’aquila dorata sulla spallina della giacca contrassegnava l’appartenenza alla Divisione Julia. Il maggiore abbassò gli occhi verso il viso di Italia, ma lo trovò sepolto dai capelli bagnati e dalle gocce di pioggia cristallizzata. Piegò le sopracciglia, mimò espressione preoccupata.

“Tutto bene, signore?”

Italia sbatacchiò le ciglia, alzò di poco la fronte, i suoi occhi ruotarono verso quelli del maggiore. Riflessi opachi e spenti avvolgevano le iridi, colorandole di un grigio smorto e cupo. Gonfiori neri e sciupati ingrossavano le pieghe delle palpebre. Italia annuì debolmente. “Mhm.” E tornò a guardare in basso.

Sentiva la testa pesante, gonfia di brutti pensieri. Le nuvole che brontolavano in cima alle montagne volteggiavano anche dentro la sua mente.

“Resista solo un altro po’,” disse il maggiore. Sistemò il copricapo sulla fronte, e l’acqua grondò giù dalla visiera. “Siamo quasi arrivati al fiume Sarandaporos, da lì potremo congiungere il nostro battaglione al resto della Divisione Julia e continuare ad avanzare sul Pindo.” Tolse la mano dalla visiera del copricapo e toccò la spalla di Italia. Gli diede una soffice pacca di incoraggiamento che lo fece sussultare dalla sorpresa. “Ormai è fatta, signore, siamo in pieno Nodo di Furka.” Il maggiore accennò un fioco sorriso. “Con il nostro Tolmezzo a nord, il Gemona a est e il Cividale a sud, conquisteremo le intere pendici dello Smolika in meno di una giornata.”

Italia restrinse di poco il labbro inferiore, sentendo il sapore della pioggia scivolargli in gola. Una stretta gli spremette il cuore, il battito che premeva sul petto fu doloroso.

Socchiuse la bocca. La voce uscì qualche istante più tardi. “A sud,” mormorò, stando a capo basso. “Cioè, in Epiro, come...” La voce tremò. “Cosa sta succedendo?” Tornò a sollevare gli occhi. Due rigagnoli d’acqua scesero dalle ciocche di capelli, corsero lungo il viso, imbevettero le ciglia, e scivolarono dalle palpebre come lacrime, depositandosi agli angoli della bocca. “Mi...” Un brivido lo scosse. La voce era un pugno di sabbia incastrato in gola. Aveva paura di quelle parole. “Mio fratello è...”

Il maggiore tenne gli occhi aperti, la pioggia picchiò sul suo viso sfumato da un alone di confusione. Capì, e tornò a guardare dinnanzi a sé, compiendo un passo più lungo per schivare una pozzanghera. “Abbiamo ritenuto opportuno annullare l’occupazione dell’Isola di Corfù.” Il piede atterrò. Il terreno emise un suono secco e acuto, un sonoro schiaffo dato a una guancia paffuta. Il viso del maggiore rabbuiò. “Su richiesta dei comandanti della Divisione Venezia, abbiamo concentrato la difesa esclusivamente in Epiro.”

Italia allargò le palpebre. La manciata di sabbia che gli stringeva la gola si sciolse.

Aumentare la difesa in Epiro? Ma allora Romano sarà più al sicuro!

“Da...” Un soffio di sollievo gli carezzò il cuore, scaldò il petto. Italia tirò verso l’alto un insicuro sorriso tremolante. “Davvero?”

Il maggiore annuì. “La Divisione Bari è già stata inviata come rinforzo.” Innalzò gli occhi al cielo. Fiocchi di pioggia cristallizzata si depositarono sulla sua giacca e sulle sue labbra, e si sciolsero. “Suo fratello è completamente al sicuro e protetto, almeno fino al raggiungimento del fiume Kalamas.”

“Quindi...” Italia fece tre passi più rapidi, andò vicino al maggiore e si tirò sulle punte dei piedi, ignorando il dolore alle ossa e ai muscoli delle gambe. “Starà bene?” chiese con occhi imploranti. “Non gli succederà niente, vero?”

 Il maggiore abbassò la fronte e chiuse gli occhi. Sul suo volto apparve un’espressione triste, quasi mortificata. “Signore.” Voltò lo sguardo verso quello di Italia, lo guardò con occhi umili e intensi, occhi di scuse. Si posò la mano sul petto, toccando l’uniforme con le punte delle dita. “Le porgo ufficialmente le nostre più profonde e sentite scuse, da parte di tutti i ranghi dell’esercito.”

Italia sollevò le sopracciglia, stupito. Per un attimo, non capì.

“Quello che abbiamo fatto sia a lei che a suo fratello è stato...” Il maggiore abbassò la fronte, scosse la testa reggendosi la frontiera del copricapo. “Altamente imperdonabile da parte nostra.”

Lo stupore sbiadì dal viso di Italia. Le guance tornarono pallide, gli occhi grigi e vuoti. “Non...” Scosse a sua volta il capo e guardò il terreno che si sfaldava in mezzo ai suoi piedi. “Non importa. Voi non potevate farci nulla.” Si strinse nelle spalle. Un brivido risalì la schiena, e gli fece abbassare la voce. “Stavate solo eseguendo gli ordini.”

“Signore,” si affrettò a rispondere il maggiore. “Se ci sono di mezzo la sicurezza e l’onestà,” sottolineò le due parole, “nei confronti del proprio paese, gli ordini valgono meno di niente.” Si fece silenzioso, lasciò spazio allo scrosciare della pioggia e ai passi del battaglione che marciava alle loro spalle. Il maggiore sospirò. “Non capiterà più.”

Italia annuì con un gesto debole. “Mhm.” Il petto faceva ancora male. Italia strinse la giacca, spremette due volte la stoffa dentro il pugno come sperando di raccogliere il dolore nel palmo, e continuò ad avanzare di fianco al maggiore. “Adesso...” Deglutì. Un formicolio gli pizzicò lo stomaco. “Adesso la Divisione Venezia come sta?” Rivolse gli occhi speranzosi al maggiore. “È riuscita a mettersi in salvo anche dopo che sono andato via?”

Il maggiore inspirò dal naso, il petto si gonfiò, il viso divenne più bianco. “È...” Rilasciò la tensione, le pieghe del viso si distesero. “È stata travolta.”

Le orecchie di Italia divennero sorde. La testa ovattata, imbottita di un silenzio denso e pesante. Il rumore della pioggia e dei passi tornò lentamente, come una radio a cui hanno alzato il volume. Italia socchiuse la bocca, lasciò scivolare la pioggia tra le labbra, e disse l’unica cosa che gli venne in mente.

“Oh.”

Il maggiore proseguì a capo basso, spalle gobbe sotto il peso del suo fucile. “I superstiti sono riusciti a rifugiarsi nel confine jugoslavo, ma sarà impossibile proseguire le operazioni in Macedonia.” Scrollò le spalle, sbuffò con un’amara aria cinica. “La presa di Salonicco ormai è fuori discussione.” Guardò Italia da sotto l’ombra del copricapo. “Per fortuna che abbiamo fatto trasferire lei in tempo, signore.”

Il senso di colpa e di vergogna divennero una sorsata di liquido amaro che gli riempì le guance. Il fluido scivolò in gola, si raccolse nel petto.

No, io non sono stato trasferito.

Il capo ciondolò molle tra le spalle.

Io sono scappato e basta.

Strinse le mani tremanti attorno alla cinghia del fucile, le vibrazioni si trasmisero dalla sua presa fino al corpo dell’arma, lo scossero contro la sua schiena indolenzita dall’umido e dal gelo.

Qualcuno gridò.

L’urlo giunse alle sue orecchie prima del rumore dell’acqua in piena.

Il fiume!

Italia e il maggiore impennarono gli sguardi, tesero le orecchie, alzarono la vista oltre il tornante che sfociava nello spazio di rocce brulle immerse nella nebbia di pioggia.

La parete della montagna scomparve alla loro sinistra, si aprì come una mezza tenda spalancando la vista del fiume che muggiva contorcendosi lungo la piana. L’acqua si gonfiava, le creste delle onde schiumavano spuma bianca nell’acqua nera che si innalzava e sbatteva sulle rocce, sollevando spruzzi che volavano in aria confondendosi con il diluvio. Le onde si arcuavano, si univano, ingrandendosi, rotolavano lungo il profilo degli argini, e trascinavano strati di pietrisco scollandoli dal terreno come una crosta. I ruggiti del fiume sovrastarono lo scroscio della pioggia. Accompagnarono le contorsioni dell’acqua gonfia che scivolava a terra, svanendo in una linea nera all’orizzonte.

Il maggiore resse la frontiera del copricapo tra le dita e tese la vista. Un sorriso gli illuminò il volto umido di pioggia.

“Siamo arrivati, signore.”

Accelerò il passo, corse verso il fiume, e la sua immagine divenne una sagoma grigia sfocata e circondata da un alone di pioggia.

Italia si resse il capo, lo scosse. Le tempie pulsarono, un fastidioso ronzio gli fischiò dentro le orecchie e gli diede il capogiro, facendo risalire un senso di nausea dallo stomaco.

Il polpaccio che Grecia aveva colpito e che era già guarito tornò a pulsare. Una forte scarica elettrica si diramò lungo la gamba, penetrò nell’osso e gli paralizzò il piede a terra, nel gelo del fango. Italia strizzò gli occhi, prese la testa tra entrambe le mani e schiacciò le tempie.

Il mondo vorticò attorno a lui in una spirale grigia e nera. Il battaglione avanzava di fianco a lui, i soldati si muovevano come ombre fluttuanti, macchie nere in mezzo a un telo plumbeo.

Il ruggito del fiume gli tappò le orecchie chiuse dai palmi delle mani.

“A...” Sentì la sua stessa voce rimbombargli nel cranio. “Aspettate.”

La testa continuava a girare. Italia aveva un mulinello nel cranio che frullava come l’acqua rimestata dalle correnti del fiume che spaccava le pietre sotto i suoi getti.

Il terreno sotto di lui tremò.

I passi dei soldati accelerarono.

“Cominciamo a gettare le teste di ponte.”

“Presto, prima che si ingrossi troppo!”

Le voci sfumarono, divennero un rumore bianco, e scomparvero.

Il coltello avanzò nel buio, la punta della lama sventrò il panorama grigio slabbrandolo come una pagina di giornale, lacerò le sagome che si spostavano sullo sfondo, le ridusse a sbuffi di fumo evanescente, e avanzò verso il petto di Italia. Non indugiò. Una scintilla metallica nacque sulla punta, percorse il filo della lama e morì all’attaccatura del manico. Il coltello penetrò la carne, filò liscio fino al cuore, spaccandolo in due. Fu facile come dividere un blocco di cera tiepida.

Italia inspirò una violenta boccata d’aria, le mani scesero dalla tesa e si strinsero entrambe sul petto, strizzando la stoffa bagnata. Sudore e acqua uscirono scivolarono dall’attaccatura dei capelli, colando lungo le guance bianche come sale, ed entrarono nella bocca ancora spalancata per gli affanni.

“Non...” Italia si gettò con un braccio in avanti, spalancò le dita come per raccogliere i corpi dei fucilieri che avanzavano. “Non andate avanti, potrebbe essere...”

Un lampo lo accecò.

Le montagne brillarono sotto gli scoppi delle mitragliatrici, ondate di rocce si scollarono dalle pendici e rotolarono fino a valle, trascinando fiumi di acqua e arbusti sradicati dal terreno. Le luci scoppiavano nel cielo come fuochi artificiali, abbagliando l’intera divisione. Urla laceranti si unirono allo scroscio della frana, le figure dei soldati caddero a terra come foglie. Il sangue tinse di rosso il fango che scorreva lungo il tornante, seguì il flusso dei fiumi d’acqua che investirono i corpi che ancora tendevano le braccia al cielo, come per aggrapparsi alle nuvole di pioggia, e invase le gambe di Italia, schizzando spruzzi rossi che arrivarono alle ginocchia. Italia arretrò a fatica, premette entrambe le mani sulla bocca, e la vista si riempì di rosso. Un lungo fischio, come quello che esce dalle corde di un violino scordato, stridette nella sua testa, facendogli mancare i sensi. L’odore aspro del fiume di sangue arrivò come una martellata alla tempia. Il sapore gli entrò in gola, denso e ferroso, e gli ribaltò lo stomaco.

Un secondo lampo di luce inghiottì il paesaggio. L’abbaglio risucchiò il suono assordante degli spari, della frana di rocce e delle grida dei soldati. Un silenzio ovattato tappò le orecchie. Il lampo bianco si ritirò, i raggi si restrinsero, concentrandosi in un unico punto, e scomparvero.

La pioggia cadeva dal cielo grigio, zaffate di vento gelido la soffiavano contro i corpi dei soldati che si misero davanti agli argini dei fiumi. Gli autocarri frenarono la marcia e disciolsero sotto le ruote grosse manciate di pietre che precipitarono tra le acque ruggenti. Il maggiore si avvicinò a uno dei gruppi che tiravano nel fango uno dei cannoni anticarro, disse qualcosa al fante che si era messo sull’attenti, indicò la riva opposta, allungando il braccio verso l’acqua, e tornò ad allontanarsi dal fiume, riparandosi il viso con il braccio per tenersi riparato dagli schizzi e dalle ondate di fango.

Tutto normale.

Niente spari tra le montagne, niente corpi che si contorcono sotto i colpi e che finiscono inghiottiti dal fango, mescolando il loro sangue al corso del fiume.

Si udiva il suono insistente del fiume che macinava le rocce sotto i suoi ruggiti da belva feroce, delle voci dei soldati che si spostavano lungo il campo, e il clangore metallico delle artiglierie che venivano mosse, smontate e rimontate per estrarle dal fango.

Italia abbassò gli occhi. I pugni stretti sui fianchi tremavano assieme a tutto il corpo. I denti battevano e dalla bocca usciva un lieve mugugno sofferto a ogni brivido.

La paura che era salita alla testa durante la visione gli era rimasta incollata addosso come pece.

Se vado a combattere...

Sollevò il piede della gamba colpita, lo tirò fuori dal fango, lasciando scivolare la poltiglia lungo il profilo dello stivale, e tornò al momento in cui aveva udito lo sparo esplodergli nelle orecchie e trapassargli la carne. Il dolore arrivava come una saetta elettrica, trafiggeva il muscolo e ingabbiava il polpaccio in una guaina di dolore pulsante.

Italia deglutì.

Raggelò di paura, il suo viso si stropicciò in un’espressione grigia e sofferente, gli occhi si annacquarono.

Sentirò ancora più male di così. Soffrirò tantissimo. Però, se non lo faccio...

Al dolore subentrò la paura.

Nella sua mente si materializzò l’immagine di Romano, sotto il cielo grigio, investito anche lui dalle ventate di pioggia che lo facevano piegare come un fuscello. Il corpo tremante, la pelle bianca per il freddo, le labbra grigie, gli occhi scuri sotto l’ombra dei capelli incollati al viso. E l’acqua che scorreva lungo le guance e la bocca, grondando dentro lo strato di fango che lo teneva imprigionato fino alle ginocchia.

Se davvero il mio stesso esercito voleva sacrificare Romano al posto mio, ma adesso il pericolo è qui, davanti a me...

Italia inspirò una sorsata di coraggio. L’aria gli riempì i polmoni, scaldò il petto avvolgendolo in un piacevole tepore.

Non posso tirarmi indietro. Se voglio davvero impedire che a Romano venga fatto del male, adesso ne ho la possibilità, proprio qui.

Strinse i pugni. Le braccia tremarono, le scariche di coraggio pulsarono, gli fecero vibrare il respiro.

Non posso aver paura. E devo farlo per Romano, non per me.

Dei passi si avvicinarono a lui, ma Italia non li notò. Sentiva solo la sua voce.

Lui ha deciso di sacrificarsi per venire dietro di me e proteggermi. Gli avevo promesso che anche io avrei fatto lo stesso, che lo avrei protetto, e adesso lo farò.

Sciolse un pugno, la mano risalì il petto e si posò sul tessuto della giacca. Italia chiuse gli occhi, un’espressione malinconica e rassegnata gli piegò gli angli delle labbra verso il basso, gli fece sollevare le sopracciglia e il suo viso si trasformò in una maschera di rassegnazione.

Anche se dovrò morire.

Il respiro del maggiore che era tornato ad avvicinarsi a lui lo strappò dai suoi pensieri. “Signore, credo che...”

“Io...” La voce di Italia uscì in un singhiozzo impaurito. Interruppe la frase del maggiore. Italia riaprì le palpebre, sollevò lo sguardo di lato, evitando gli occhi dell’uomo, e stette a spalle gobbe, facendosi ancora più piccolo. “Io devo andare,” pigolò.

Il maggiore sobbalzò sul posto. Storse un sopracciglio, piegò verso il basso un angolo della bocca. “Signore?” Occhi sconcertati lo guardavano da dietro lo strato di pioggia.

Italia inspirò forte. L’aria ristagnò nel petto, intensificò la voce, trasmise calore a tutto il corpo. Italia sollevò il mento e strizzò gli occhi. Stava mostrando il suo stesso cuore. “Io devo andare a combattere.” Socchiuse le palpebre e incrociò lo sguardo del maggiore. “Se Grecia si trova qui,” aggrottò lievemente la fronte, “allora devo sconfiggerlo prima che possa andare a far del male a mio fratello.”

Le pieghe sul viso del maggiore si torsero in una maschera di sconcerto e incredulità. Il maggiore scosse la testa, si resse il copricapo con una mano e aprì il palmo verso Italia. “Ma signore, non...”

“Se...” Italia lo interruppe. “Se non ce la farò...” A occhi socchiusi e lucidi, Italia sollevò gli angoli delle labbra, piegò un piccolo e triste sorriso che gli ingrigì il volto come le acque del fiume. Uno spasmo di paura gli attraversò le ossa. “Almeno proverò a indebolirlo e voi potrete passare il fiume.”

Il maggiore slargò gli occhi. Un barlume di paura abbagliò anche il suo sguardo, lo impietrì come una statua di granito.

Italia chinò la fronte. Il pallido sorriso vibrò come la sua voce. “Devo andare.”

Rigirò i piedi rimestando il fango in mezzo agli stivali, e allungò un primo pesante passo verso il suo campo di battaglia.

“Signore.”

Si fermò. Non si girò, voltò solamente una guancia lanciando uno sguardo al maggiore da sopra la spalla.

Il maggiore batté un saluto sulla fronte, sotto l’ombra del copricapo che gocciolò fiumi di pioggia sulla sua mano, e indurì gli occhi che tornarono vivi e accesi. “Le auguro buona fortuna, signore.”

Fortuna...

Italia forzò nuovamente il sorriso, ignorando il tuffo allo stomaco che gli fece mancare il fiato. Annuì.

“Grazie,” sibilò attraverso quel sorriso cinereo.

Piegò le spalle andando contro il getto della pioggia e corse. Gli spruzzi di acqua e fango gli bagnavano il busto e i fianchi, alcuni schizzi di terra gli macchiavano le guance e la pioggia li sciacquava via rigandogli il viso.

Italia strinse i denti. Correva a occhi chiusi.

Infilò una mano dentro il colletto dell’uniforme, rimestò le dita sotto la stoffa gelida e zuppa, e le intrecciò a una sottile catenina metallica. Estrasse la croce di ferro, strinse uno dei bracci tra pollice e indice, e la portò davanti alle labbra. Schioccò un bacio al ciondolo. Il metallo freddo e bagnato gli intorpidì le labbra ma riscaldò il petto come una brace di fuoco.

 

.

 

“L’Ottava Divisione è schierata, signore.” L’ufficiale greco batté un saluto contro la fronte, il braccio fu investito da un getto di pioggia che soffiava lateralmente e che fece sventolare la manica della giacca attorno al polso. “E anche i mitraglieri sulle montagne sono appostati. Ci prepariamo a ricevere l’avanzata degli italiani lungo il fiume.”

Grecia abbassò gli occhi dal cielo, tolse la mano che aveva aperto davanti alla fronte per ripararsi dalla pioggia, e sollevò un sopracciglio, guardando l’ufficiale negli occhi. “Mhm. In Epiro come procede?”

L’ufficiale irrigidì il saluto, alzò di più il mento. “Si stanno preparando a ricevere il nemico sulla linea Elaia-Kalamas, signore. Se qui chiuderemo in fretta, potremo farla spostare a sud, in modo che lei vada a guidare parte della divisione che sta per ricevere gli italiani in Epiro.”

Grecia spostò gli occhi verso un punto vuoto del paesaggio. Sbatté le palpebre, le tenne socchiuse, come se si fosse assopito.

In Epiro? Se Italia è qui al nord, da solo, vuol dire che al sud deve per forza esserci... Oh, capisco.

Grecia sospirò. Un’aria sconfortata gli appannò lo sguardo. “Vedremo.” Si voltò, si mise di profilo rispetto all’ufficiale. “Non pensiamo a troppe cose contemporaneamente.” Restrinse di poco le sopracciglia, strofinò le dita dietro l’orecchio, arruffando i capelli. Un velo scuro si stese sul viso. “È inutilmente seccante.”

Il suono del fiume si propagò dietro i profili delle montagne. Grecia sollevò lo sguardo, guardò oltre le cime, dove le nuvole si addensavano e la sensazione elettrica si faceva più intensa e sfrigolante. Sfilò le dita dai capelli bagnati e dovette agitarle per soffocare il formicolio ai polpastrelli.

Ti stai davvero facendo avanti?

Qualcosa si mosse sotto la sua giacca. Il gattino pezzato uscì dal colletto dell’uniforme e rimase al coperto sotto i capelli di Grecia che ricadevano ai lati del volto.

Grecia piegò lievemente il capo di lato, pensoso. Prima mi attacchi, poi scappi, poi torni di nuovo da me. Strizzò le dita in soffici pugni contro i fianchi. Una vaga aria irritata gli rabbuiò il viso di pietra. A che gioco stai giocando, Italia?

Grecia allungò pochi passi in avanti, camminò seguendo il rumore del fiume in piena che si schiantava contro le rocce.

“Assicuratevi che i mitraglieri siano al sicuro e che tengano coperta la fanteria,” disse. Completò un altro passo. “Fate attenzione ai miei segnali. Saranno i miei gesti a guidarvi e a comunicarvi quando fare fuoco sul nemico.”

L’ufficiale annuì, rigido e attento. “Sissignore, la terremo costantemente coperto.”

Grecia lanciò un’ultima occhiata alle nuvole. Strinse il bavero della giacca contro la guancia, si chiuse nelle spalle, e scoccò uno sguardo all’ufficiale da sopra la spalla. Uno sguardo che scintillava di determinazione.

“Io vado.”

L’ufficiale non fece in tempo ad aprire bocca. “Ma dove...”

Grecia svanì in mezzo alle montagne.

 

.

 

La pioggia si stava inspessendo. Le gocce che picchiavano sulla faccia erano più soffici, leggere, dal tocco lieve e delicato come scaglie di ghiaccio, ma pungevano come una tempesta di aghi da cucito. Il nevischio soffiava sul viso di Italia, gli toccava le guance rosse e calde di fatica, e si scioglieva in piccole perle d’acqua. Qualche fiocco bianco rimaneva integro tra i capelli e sui vestiti, zaffate di pioggia scivolavano lungo le pareti di roccia delle montagne e si schiantavano contro il suo corpo tremante. Il nevischio si scioglieva. L’uniforme si scuriva, i capelli si appiattivano a larghe e spesse ciocche contro il viso.

Italia si strofinò un braccio sul viso, spazzò via i granuli di ghiaccio che si erano infiltrati tra le ciglia e sui capelli, pizzicando orecchie e naso, e asciugò la faccia. Calò il braccio, tirò su col naso. Una ventata di pioggia e cristalli di ghiaccio gli inondò il viso, gocciolando dai capelli e dai vestiti. Tornò a bagnarsi.

Svoltò una curva, la stradina di rocce e fango si restrinse. Italia incrociò due passi di lato, si portò più vicino alla parete della montagna sfuggendo allo scorrere dei fiumiciattoli di fango che cascavano giù dal tornante. Mise male un piede. La gamba scivolò. Italia rimbalzò di lato, verso il pendio del tornante; sentì lo stomaco cadere ai piedi per la paura, e si appese con le dita alle rocce, schiacciandosi al muro del monte. Distolse gli occhi dall’orlo della curva. La visione dei ruscelli di pantano che schiumavano, curvavano seguendo la forma del pendio e che precipitavano a valle, svanendo nel vuoto, gli dava il capogiro.

Italia scosse la testa, respirò dalla bocca, riempiendosi i polmoni di aria gelida di montagna che già sapeva di neve e di ghiaccio, e tastò il terreno davanti a sé. La punta dello stivale toccò una pietra più solida, Italia premette il piede a terra, deglutì, raccolse il coraggio nel petto, e zoppicò di due passetti in avanti.

Il vento gli ululò dentro le orecchie. Le gocce di pioggia ghiacciata gli pizzicarono il padiglione e il lobo, rendendole ancora più rosse e doloranti.

Le spalle di Italia si appesantirono, gobbe sotto la pressione della pioggia e la forza del vento che lo schiacciava verso il basso. L’uniforme incollata al corpo era un ruvido panno di ghiaccio che grattava sulle ossa e sulla pelle a ogni passo. Il fucile scivolò dalla spalla ingobbita di Italia. Italia strinse una mano bianca e bagnata sulla cinghia di cuoio, diede un colpo di fianchi al fucile, e lo rimise al suo posto, in mezzo alle scapole. Il calcio gli batteva sui fianchi, la canna gelida e lucida gli sfregava la nuca, trasmetteva brividi di freddo al collo scoperto e già bagnato dal diluvio.

Qualcosa si scosse dentro il serbatoio del Carcano. Uno scuotere metallico che pizzicava l’udito di Italia come un solletico dato da un artiglio appuntito. Il fucile era già carico, questa volta. La lastrina composta da sei proiettili rimbalzava, assicurata nel dente all’interno del serbatoio coperto dall’otturatore. Italia deglutì. Serrò il pugno sulla bretella fino a sentire la pelle del palmo bruciare, e scacciò via la visione del suo indice che schiacciava il grilletto, dei proiettili che esplodevano davanti a lui, fendevano l’aria come frecce, e che andavano a colpire un suo simile.

Un’altra sensazione ostile e di disagio si sovrappose ai pensieri di Italia.

Un violento brivido gli scosse la schiena e le spalle, forte come uno spasmo. Italia batté i denti. Stomaco e petto gelarono, il sangue ghiacciò come la pioggia che gli cadeva addosso e che scorreva in mezzo ai suoi piedi.

Italia socchiuse gli occhi.

Nella sua mente si materializzarono le immagini di un branco di bestie nere e feroci, dal pelo ispido, ritto e gonfio dietro il collo e sulla schiena come una cresta. Le belve si piegarono sulle zampe e abbassarono le spalle dietro i cespugli, piantando gli artigli nel terreno. Si acquattarono in agguato. Occhi rossi come braci splendevano dall’oscurità dei loro nascondigli. Le belve socchiusero le fauci, nuvolette di alito si gonfiarono fuori dalle labbra, denti aguzzi e lucidi di saliva schiumante scintillarono nel buio assieme agli occhi. Italia si guardò intorno, fece piccoli passetti dentro il cerchio tracciato dalle bestie in agguato, e tremò come un pulcino bagnato. Era circondato.

Italia riaprì gli occhi. Guardò attraverso lo strato d’acqua depositato fra le sue ciglia, e ruotò le pupille ristrette e tremolanti verso la cima della montagna che spariva sopra contro il cielo.

Scintille metalliche brillavano tra le rocce bagnate dalla pioggia. Bagliori argentati e appuntiti come i denti delle bestie nere.

La sensazione di freddo e di terrore gli contorse lo stomaco, fece risalire un conato di vomito che Italia ringoiò in fondo alla pancia, dove faceva più male.

Socchiuse le labbra e respirò a bocca aperta. Il fiato vibrava di paura, i muscoli si fecero molli e pesanti, le gambe deboli e cedevoli, le ossa più doloranti.

C’erano i mitraglieri appostati sulle montagne, pronti a far fuoco su di lui. Erano in agguato come le bestiacce nere che ringhiavano dietro i cespugli nella sua mente.

Italia si strinse nelle spalle, mugugnò un lamento stridulo tra i denti, continuò la sua marcia a spalle chine, trascinando i piedi nel fango. Era un topolino che zampettava tra due colonne di condor affamati che lo fissavano con occhi di sangue e che gocciolavano saliva dal becco.

Una presenza più forte strappò la sua attenzione dalla sensazione di poter essere annaffiato da una pioggia di piombo da un momento all’altro.

Italia sollevò il viso di scatto. Sentì l’energia friggere nell’aria e dargli piccole scossette dietro il collo e sulle mani. Agitò le dita e tastò l’aria. Era densa e pesante, si sfaldava come nebbia sotto i polpastrelli.

Il tornante si allargò, il cielo grigio si stese di fianco alla parete di montagna, e la cascata di acqua e fango scrosciò con più violenza verso il basso.

La presenza minacciosa si gonfiò come una bolla di sapone che lievita dal cerchietto sulla cima del bastoncino.

Il topolino stava sgusciando via dal tunnel di condor per gettarsi nella bocca del leone.

Italia inspirò dal naso, trattenne il fiato in petto, divenne rigido come un manichino, e allungò un ultimo passo prima di uscire dalla stradina di montagna. Il piede disegnò una parabola in aria, piegò la punta all’insù; il tallone scese, affondò tra sassi e fango, e tutto il peso della suola schiacciò la poltiglia di pantano ghiacciato sotto di lui.

Italia arrestò il passo, gettò lo sguardo al suolo, chiuse gli occhi.

La pioggia cadeva. Niente esplosioni o spari. Solo un piacevole e morbido scrosciare continuo che batteva sulle rocce e dentro le pozzanghere, annaffiando il corpicino di Italia come un fiore sotto il getto della pompa da giardino.

Italia inspirò a lungo, riempì i polmoni.

Uno, due...

Serrò i pugni contro i fianchi. Immaginò tutta la paura e il timore di sbagliare, di morire, di scomparire, fluire come un fiumiciattolo nero che va dal cuore alle braccia, fino a raccogliersi in mezzo alle dita. Svuotò il petto e la mente dal peso del terrore, sciacquò via il torrente di pensieri infangati come quell’acqua che scorreva sotto di lui e lo rese limpido come un laghetto cristallino.

Finì la conta.

Non respirava ancora.

Tre.

Sollevò la fronte. Riaprì gli occhi.

Era già lì.

Gli occhi di Grecia lo fissarono da dietro lo strato di pioggia fioccata che volteggiava tra loro due. Labbra piatte, viso grigio e neutro. Non disse nulla.

Il gatto pezzato si mosse sulla sua spalla, strisciò tra il suo collo e la canna del fucile che sbucava da dietro la schiena, e si accoccolò sull’altra spalla, arricciando la coda attorno alle zampe. Grecia restrinse di poco le palpebre. Quel poco per far luccicare gli occhi di un verde intenso.

L’abbaglio di luce arrivò come la punta di un coltello.

Italia ansimò, fermò il fiato. L’immagine del coltello che si avvicinava a trapassargli il petto ricomparve, più forte e vicina di prima. Riusciva già a vedere la lama piatta laccata del suo sangue denso e caldo che scendeva lungo il filo e grondava dalla punta.

Ingollò, ma non venne giù niente. La gola era secca come se avesse mangiato segatura.

Il viso di Italia impallidì, le labbra vibranti ingrigirono per il freddo, gli occhi divennero più grandi e tondi, lucidi e acquosi. Più tristi.

Italia aprì le labbra e respirò.

Fu il primo a parlare.

“Grecia.”

La sua voce lievemente arrochita che passava attraverso la gola gli fece nascere una scossa di stupore dentro il petto. Italia inspirò ancora. Strinse forte i pugni spremendo l’acqua tra le dita come per ricordarsi che la paura era tutta lì dentro.

“E... eccomi.” Sollevò di più la fronte. Mostrò a Grecia uno sguardo intenso ma vacillante. “Sono qui.” Sollevò un piede e qualcosa vibrò sopra di lui. L’orecchio ebbe un lieve spasmo, gli occhi volarono inconsciamente tra le rocce. Abbagli metallici tra le montagne luccicavano come stelle. I mitraglieri si tenevano pronti a far fuoco. Italia completò il passo. Stritolò la terra sotto lo stivale quasi avesse voluto sprofondarci dentro. “Se vuoi combattere,” disse con tono più alto, “allora fallo con me e lascia in pace Romano.”

Grecia sollevò un sopracciglio, piegò lievemente il capo di lato, mostrandogli la guancia. L’espressione piatta e immutata come quella di una statua.

Italia scosse il capo. “Lui non c’entra niente, te lo giuro. L’idea è stata solo mia.” Sollevò un braccio, ignorò l’aura ostile proveniente dalle montagne che si intensificò come una fiamma alimentata a gas, e aprì il palmo sul petto, battendo sul cuore. “Ed è mia la responsabilità di quello che sta succedendo.”

Grecia abbassò di poco le palpebre. La luce degli occhi scurì. Il verde delle iridi divenne fitto e intenso come l’aria di una foresta. Mosse piano le labbra bagnate dalla pioggia. Un sussurro dentro il grigio.

“Un’idea tua, mhm?”

Italia inspirò. Pietrificò il corpicino tremante e annuì con un lento gesto arrugginito.

Lo sguardo di Grecia si spostò da Italia al gattino pezzato che reggeva sulla spalla. Lo guardò negli occhietti, inclinò il capo contro la spalla indicando il suolo. Il micio emise un miagolio di assenso. Snodò la coda dalle zampe, si piegò in avanti, stendendo gli anteriori lungo il braccio del padrone, e abbassò le spalle. La coda impennata al cielo. Scivolò dalla spalla di Grecia, atterrò al suolo schizzando spruzzi di acqua sporca, e corse al riparo scrollando la testolina, lontano dal campo di battaglia.

Italia seguì con gli occhietti la piccola figura del gatto che rotolava lontano da loro. Una palla di pelo pezzato e bagnato che si mette al sicuro da spari, sangue e morte. Italia sorrise. Un pizzico d’invidia gli punse il petto.

Un fiocco di nevischio volteggiò davanti al viso di Italia. Il petalo di ghiaccio galleggiò davanti ai suoi occhi, rimase sospeso, e si posò sulla punta del suo naso, soffice e leggero come una piuma.

Con quella puntura di ghiaccio tornò un briciolo di paura, come una spina nel cuore.

Devo finire in fretta. Italia si strofinò la mano sul naso, sciogliendo il primo vero fiocco di neve. Guardò Grecia da dietro il profilo del braccio ancora piegato davanti al suo viso. Devo terminare la battaglia prima che cominci a nevicare sul serio e che il ghiaccio mi seppellisca.

Grecia si mosse, allungò un passo. Gli occhi di Italia volarono sul suo piede in avvicinamento, e una scossa di paura li restrinse nel bianco del bulbo. Italia compì d’istinto un breve passo all’indietro.

“Quando hai cominciato a minacciarmi,” disse Grecia, fermandosi. “All’inizio non pensavo stessi facendo sul serio.” Scosse le spalle. Dietro le gocce di pioggia che colavano dalle ciocche di capelli, un velo annoiato ricoprì il suo volto. “E non avevo minimamente voglia di pensare al perché tu intendessi iniziare una guerra contro di me.”

Italia si pizzicò il labbro inferiore. Strinse le mani attorno alla cinghia del fucile e stropicciò la fettuccia di cuoio tra le dita. “Però tu hai...” La voce cedette in un guaito da animaletto ferito. Italia inspirò e riguadagnò il tono. “Hai rifiutato l’ultimatum.”

Qualcosa scosse gli occhi di Grecia. Divennero freddi e duri come pietre. Una scintilla brillò all’angolo di una palpebra.

Italia sollevò gli occhi con un gesto timido e lento. “Se avessi accettato le mie condizioni, allora adesso nessuno dei due starebbe...”

“Non prendermi in giro.” Tono piatto, ma grave e severo. Grecia sollevò il mento. “Chi mai accetterebbe qualcosa di tanto assurdo?”

Italia aprì la bocca ma non rispose. La pioggia gli fluì tra le labbra.

Grecia mosse un passo di lato, seguito dallo sguardo di Italia, e strinse anche lui la cinghia del suo fucile che gli aderiva al petto. La voce tornò un basso gorgoglio che brontolava tra le montagne. “Non ho deciso di assecondare la tua guerra solamente per difendere il mio paese, ma anche per sentirmi dire da te il perché di tutto questo.” Pestò un ultimo passo. Guardò Italia di traverso. Due occhi bassi ma svegli, accusatori. “O forse non lo sai nemmeno tu?”

Italia sentì il peso di quelle parole spingergli sul petto, contro il cuore.

Forzò la voce, ne uscì un gemito soffuso, spazzato via dalle spire di pioggia e nevischio, e i suoi occhi lucidi riflessero il grigiore del cielo sopra di loro. Le parole non uscirono, erano bloccate nella testa come un topolino che scorrazzava a vuoto in un labirinto.

Gli occhi di Grecia percorsero il suo corpo dal basso verso l’alto. Grecia sbatté piano le ciglia gocciolanti, guardò Italia dritto negli occhi.

“È stato Germania a costringerti a farlo?”

Una scintilla scattò nella mente di Italia, gli ingranaggi si incastrarono, il motore ripartì. Accese la sua mente come una miccia.

“No, Germania non c’entra niente, lo giuro!” Fece un barcollante passo in avanti. Le ginocchia tremavano, tutto il corpo era ancora scosso da brividi. “Te l’ho detto...” Il viso di Italia assunse un’aria di scongiuro. Rigagnoli d’acqua scivolarono dalla piega delle sopracciglia inarcate verso l’alto, in un’espressione implorante. “Te l’ho detto prima, l’idea è stata solo mia, nemmeno mio...” Un nodo alla gola lo fermò. Dovette deglutire un boccone amaro per continuare. “Nemmeno mio fratello voleva assecondarmi.” La mano batté sul petto, il braccio irrigidì, il corpo di Italia divenne di pietra. “Se devi prendertela con qualcuno, allora fallo con me.” La sua voce tremava, scossa da violenti brividi.

Grecia storse un sopracciglio. Gli inviò un’occhiata di rimprovero. “Questo non mi sembra per niente l’atteggiamento di una nazione che ha deciso di sua spontanea volontà di cominciare una guerra accettandone i rischi e pericoli.”

Italia strinse un pugnetto vibrante. Una sensazione calda fluì nelle vene: la sensazione formicolante e irritante di essere preso poco sul serio.

Grecia aggrottò lievemente la fronte. Si era accorto del suo sguardo infastidito che lo squadrava da dietro i capelli grondanti.

“Il tuo è l’atteggiamento di chi ha preso una decisione basandosi su una motivazione talmente futile, che basta un singolo briciolo di paura per fargliela dimenticare.” Grecia fece un piccolo passetto in avanti. Squish! Spremette una pozza di fango e infranse i sottili cristalli che ne ricoprivano la superficie come una pellicola. “In questo modo, ci vuole ben poco per pentirsi di tutto e desiderare di poter tornare indietro.” I suoi occhi ripercorsero due volte il corpo di Italia. Si soffermarono sul pallore del viso e sul lucido degli occhi. Grecia restrinse le palpebre, gli scagliò addosso un’occhiata dura e severa. “Esattamente quello che sta succedendo a te, ora.”

Italia gettò il viso al suolo, nascose lo sguardo dietro l’ombra dei capelli. La paura e i timori raccolti dentro i pugni pulsarono, i battiti di terrore rispedirono la sensazione di pericolo dentro le braccia, spingendola fino al cuore, dove ristagnò come un boccone andato di traverso. Italia ritirò il labbro inferiore, la carne morsicata sapeva di pioggia, di ghiaccio sciolto, e gli occhi rimasero incollati al suolo, schiacciati dalla vergogna e dall’umiliazione.

La voce di Grecia, mescolata all’incessante e pesante scroscio della pioggia, arrivò come un pizzicotto sulla spalla.

“Qual è il tuo vero obiettivo, Italia?” Lo sguardo piatto e assente di Grecia assunse una sincera e pallida vena interrogativa. “Perché stai inscenando tutto questo?”

Italia inspirò. “Per...” Il topolino che vagava a vuoto nel labirinto sbatté contro una delle pareti divisorie dei corridoi. Vicolo cieco. “Per...” Tornò indietro, zampettò in un’altra galleria, scontrò il musino addosso a un’altra delle pareti. “Perché tu potresti, uhm, un giorno...” Italia sciolse un pugno e si strofinò il braccio dalla spalla fino al gomito con gesti rapidi e nervosi. “Diventare...” Deglutì. Il palmo strofinò più a fondo il tessuto bagnato della giacca. Gli occhi di Italia corsero sul terreno come se stessero assemblando le parole sparse tra i sassi. “Diventare una minaccia per l’Asse. Sto solo facendo il mio dovere per...” Chinò la fronte, si toccò il petto con il mento e mormorò la sua spiegazione. “Per difendere e proteggere i miei alleati e il mio paese.”

Le pieghe della fronte di Grecia si infittirono, gli annerirono lo sguardo celato dietro le ciocche di capelli sparpagliate sulle guance e davanti agli occhi. Adesso fu lui a fremere di irritazione.

“Quando mai ho dato l’impressione di voler essere una minaccia per voi?”

Italia tirò su il viso. Aprì la bocca. “E...” Balbettò. Le parole divennero una colla densa e pesante che appiccicava i denti tra loro e la lingua al palato. Riprese a tremare come una foglia secca travolta dal vento invernale. “Ecco...”

Il rumore della pioggia riempì il silenzio. L’eco del diluvio rimbalzava tra le pareti di roccia e cadeva a valle, disperdendosi assieme alle cascatelle di fango.

Grecia chiuse gli occhi. Prese un respiro lungo e breve. Le pieghe sul viso si distesero. “Come immaginavo.” Riaprì gli occhi. Si rivolse a Italia con uno sguardo compassionevole. “Nemmeno tu sai perché sei qui.”

Una freccia di dolore trafisse Italia all’altezza del cuore. Il dardo trapassò il petto, infranse le ossa, e schizzò spruzzi di sangue che si aprirono come una corona di perle rosse e scintillanti. Il dolore pulsò. Italia si morse le labbra e socchiuse gli occhi per trattenere il flusso di pianto dentro le palpebre brucianti.

Grecia sollevò un piede. “Quindi...” Passo in avanti. Le pietre e il fango scricchiolarono. “Il tuo scopo è talmente infimo, che tu stesso ti vergogni di ammetterlo.”

Italia gettò il capo a ciondolare tra le spalle.

Grecia si avvicinò ancora, allungò un passo più deciso, ma continuò a parlare con voce stanca e trascinata.

“Mi dispiace, Italia, nemmeno io ce l’avevo con te,” disse con tono sincero. “Forse,” completò un altro passo, “avendoti capito davvero, potrei anche decidere di lasciarti andare, a patto che tu te ne vada.”

Un barlume di speranza brillò nel petto di Italia. Il raggio di calore si espanse dentro il petto, gli intiepidì il corpo raggelato dalle raffiche di vento e nevischio.

Mi... mi lascia andare? Torno a casa? A casa per davvero?

Italia chiuse le mani davanti al petto, sollevò il viso di scatto, allargò le palpebre snudando gli occhioni lucidi e imploranti come quelli di un cerbiatto nella mira del fucile del cacciatore.

Grecia abbassò di poco la fronte. Il suo viso tornò nel buio, la sua voce bassa e pesante come il gorgoglio di un tuono. “Ma non posso passare sopra il fatto che tu abbia minacciato il mio paese in questa maniera.”

Il braccio scivolò sul fianco, la cinghia del fucile scorse sul petto, cadde dalla spalla e si raccolse dentro la piega del gomito.

Ci fu uno scatto secco, e Italia sobbalzò sul posto, ringoiando il briciolo di speranza in fondo allo stomaco.

Grecia socchiuse un occhio, innalzò la canna del fucile, poggiò la guancia sulla cassa e prese la mira.

Italia ghiacciò di paura. Arretrò di due passi tremanti, il respiro accelerò assieme ai battiti cardiaci. “A...” Sollevò le mani davanti al petto, spalancò i palmi verso Grecia. “Aspetta, non –”

Lo sparo infranse l’aria, squarciò il silenzio delle montagne.

 

   
 
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