In the pretty rose glass
She will swallow your mind
She will poison your life
There’s no fighting her
She’s already inside.”
The lass in the pretty rose glass
I:
We know what we are, not what we may be
“Mia cara, siamo oneste tra noi: che la vostra pupilla conduca una vita tanto reclusa non è normale. O sano, per una ragazza della sua età. Perdonate la franchezza, ma certe cose vanno dette.”
Accostare
il viso per gettare un’occhiata dentro avrebbe comportato farsi
scoprire, ma la ragazza in questione riusciva anche senza vederla a
immaginare la donna di mezza età appollaiata sulla vecchia
poltrona fiorata di Toile de Jouy [1] che tanto favoriva, il sottile manico ad ansa di una tazzina da tè tra le dita grassocce.
Madeline
se ne figurava il viso sfiorito segnato da linee di preoccupazione
sulla fronte bassa, mentre quella continuava il suo pontificare:
“Siamo già a metà Stagione: ai miei tempi, ero
tanto inondata di inviti che raramente mi si trovava in casa dopo
l’ora del tè. La piccola Madeline, invece… mi si
spezza il cuore a pensare al rigoglio della sua età più
verde che si secca nel grigiore della solitudine. ”
Una
breve pausa in cui il silenzio venne riempito dall’ululare del
vento fuori dalla finestra, e poi: “Comprenderei se il viaggio
fino a Londra vi incomodasse troppo, se… vi mancassero i fondi. Tuttavia,
vi conosco abbastanza da sapere che non siete voi quella in preda a
certe pigrizie e capricci. Vi consiglio di esercitare più polso
sulla ragazza: ricordatele che è già alla sua seconda
Stagione [2] e
raramente ce n’è una terza. Il pericolo
dello…” seguì un mormorio indistinguibile mentre
pronosticava un futuro impronunciabile di zitellaggio, “…
È sempre in agguato. Finiranno davvero per crederla una pazza
lunatica, se non inizierete seriamente a curare la sua vita
sociale.”
Lo
sbuffo impaziente di zia Martha sarebbe stata una replica sufficiente;
ma sua zia non era il tipo da tener per sé le sue opinioni.
“Vi
ringrazio per i vostri savi consigli, ma credo di saper gestire da sola
mia nipote: dopo tutti questi anni spero di avere imparato come si sta
al mondo, Jane cara. Dunque non preoccupatevi: ce la caveremo
perfettamente.”
Il
tintinnare più energico di una tazzina sul piatto, come il
martelletto di legno di un giudice, mise fine alla discussione.
Checché la zia Martha ne dicesse in merito parlandone alle
amiche, Madeline già sapeva che l’avrebbe messa in croce
fino a che non avesse capitolato – non si fosse scrollata la
perenne cappa di stanchezza di dosso, lasciandosi convincere ad
accettare almeno qualcuno (meglio se tutti), degli inviti che,
contrariamente alle insinuazioni di Mrs. Barlow, erano arrivati eccome nella forma di eleganti biglietti profumati crema e lavanda, griffati d’oro e d’argento.
Era una creatura peculiare, la zia Martha.
Amava
la solitudine, eppure raramente si perdeva una festa – e
l’occasione di sfoggiare abiti e gioielli troppo lussuosi per le
loro finanze non poi tanto floride. Pareva avere anche la bizzarra idea
di poter esibire sua nipote con la medesima facilità cui,
abbandonando casualmente una mano sul bracciolo di un’elegante
poltroncina, avrebbe offerto le dita preziosamente inanellate allo
sguardo invidioso della gente dabbene di Richmond.
Il
suo secondo matrimonio era stato vantaggioso sino a che era durato
– così le diceva in confidenza. Anche ora non erano certo
ridotte alla miseria, ma la carne si stava facendo sempre più
rada alla loro tavola, e i bei vestiti che indossavano negli ultimi
tempi provenivano dai rigattieri di Londra, scovati dall’occhio
savio della loro unica cameriera, Kate.
Madeline sfiorò con un dito la seta lisa del morbido abito da tè [3] di seconda mano, seguendo col polpastrello il ricamo un poco sfatto di una rosa rossa su sfondo scuro.
Sospirò,
raggomitolandosi e portando le ginocchia al petto, lo sguardo perso
verso la porzione vuota di parete di fronte al letto.
Avrebbe
voluto accontentarla, chiaramente. Si augurava di non essere una
pupilla tanto indegna da contrariare di proposito la sua sola
benefattrice.
La
zia era sempre stata così buona con lei. Se l’era presa in
casa quando nessuno la voleva e aveva provveduto a darle
l’educazione di una gran signora – o di un’ottima
governante, a seconda del giro di fortuna, come non mancava di
ripeterle.
C’era
molto di cui esser grati, eppure Madeline non riusciva a compiere
questo piccolo sacrificio per lei. E che sforzo era, poi, lasciare che
la cameriera l’abbigliasse decentemente e le sistemasse i
capelli, piuttosto che girare per casa in vestaglia come una sciatta
anima in pena, la chioma simile alla criniera di un leone
d’Africa, la testa scompigliata troppo piena di pensieri?
Spinto dal vento, un ramo batteva contro il vetro della finestra, le foglie appena nate che grattavano sul vetro.
Gli
ultimi uccelli avevano cessato di cinguettare; i soli rumori erano
quelli che provenivano dabbasso, dove Kate doveva essere alle prese con
la cena nel cucinino ingombro.
Pure
l’idea di alzarsi e mettersi a tavola, affrontare i muti (e poi
meno muti), rimproveri incisi sul volto di sua zia, le toglieva la
voglia di abbandonare il comodo materasso in cui il suo corpo sgraziato
affondava come in un bozzolo di lana e piume d’oca.
Aveva ragione Mrs. Barlow:
si stava davvero comportando come una bambina capricciosa. Ma che senso
aveva, tentare? Le feste, i frizzi e i lazzi erano per giovani Vecchie
Regine dai boccoli biondi e dalle doti sostanziose; la lanosa chioma
color topo di Madeline difficilmente avrebbe attirato qualche sguardo,
e così la sua mancanza di mezzi.
A
che pro prendersi tanti disturbi, allora, se già dentro era
rassegnata all’esistenza di governante dei figli di altri? Non
era neppure più una cupa prospettiva, questa, per lei.
Lo
era stata all’inizio, quando aveva visto le compagne convolare a
giuste nozze una dopo l’altra, due Stagioni prima; adesso era
semplicemente rassegnata a un destino ineluttabile – fato a cui,
sotto le coperte, poteva sottrarsi ancora per un poco.
Nella
camera della sua infanzia, tappezzata di chintz macchiato della muffa
che neanche la mano sapiente di Kate sapeva mandar via tanto era
ostinata, sfuggire allo scorrere dei giorni non era per nulla arduo.
Di certo, meno difficile che evitare la zia.
Il
bussare alla porta, che la fece sussultare e mettere a sedere di
soprassalto, non era quello discreto della cameriera, ma
l’energica fanfara della padrona di casa – che entrò senza attendere di essere invitata, com’era suo costume.
“Madeline
cara, è quasi ora di cena. Alzati e vieni dabbasso, e bada che
non tollererò l’ennesima richiesta di un brodino di pollo
in camera. Non sei né vecchia né invalida: se vuoi
mangiare, lo farai con me di sotto.”
Non
c’era vera irritazione nella sua voce, ma il tono di comando
spinse Madeline a sollevare mite il busto libero dal corsetto e a
mettersi diritta, scostando dal viso le ciocche ricadute sulla fronte.
La lampada a gas che illuminava il corridoio disegnava sul pavimento di
legno l’ombra della zia, che si allungava come per ghermirla.
“Lavati la faccia e scendi, coraggio.”
La
porta si richiuse alle spalle di zia Martha improvvisamente come
s’era aperta; Madeline si fece forza, infilando i piedi nelle
babbucce e avvicinandosi alla cassettiera di legno scuro dove
l’attendeva, già pieno all’orlo, un catino
d’acqua ormai gelida. Avrebbe dovuto metterla sul fuoco per
stiepidirla, ma le fiamme già deboli si erano spente da un pezzo
nel camino; dunque si chinò, immerse le dita e si spruzzò
l’acqua sul viso, premendosele sulle guance sino a che non le
avvertì formicolare e poi bruciare contro la pelle insensibile
dei palmi.
“Ho un regalo per te,” annunciò la zia qualche pomeriggio più tardi.
Febbraio avrebbe presto lasciato spazio a marzo: il mese della primavera gentile [4], del Leprotto Bisestile [5], delle piogge improvvise, di lunatici e pazzi – e di Madeline Moon [6], che era entrambe le cose.
Quel giorno in particolare, Madeline sembrava quasi felice.
“Ma
zia!” esclamò la ragazza in un raro slancio di entusiasmo,
scostando la sedia imbottita per voltarsi verso la porta spalancata, le
dita della mano destra ancora sui tasti del pianoforte. “Mancano
ancora due settimane al mio compleanno.”
Un
vociare maschile la interruppe, mentre zia Martha si faceva di lato per
permettere il passaggio di due enormi spalle e una schiena robusta,
imprigionata nel tessuto grezzo di una camicia macchiata di terra
– e il Cielo sapeva che altro.
Un
afrore di traspirazione si diffuse nella stanza mentre l’uomo
procedeva all’indietro, due braccia forti che tenevano ben
sollevato un oggetto oblungo e piatto, alto quasi quanto lui, avvolto
in carta da pacchi marrone.
“Trasportarlo
su per le scale sarà un bel problema,” sentì
borbottare la zia, che pure pareva abbastanza orgogliosa di questo
ultimo acquisto londinese – le guance ancora più rubiconde
dopo aver assaggiato l’aria malsana della capitale.
“Orbene, ci penseranno questi gentili signori.”
Indirizzò un luminoso sorriso ai due manovali – un altro,
più giovane e meno scuro, aveva seguito il primo, la pelle color
noce del volto increspata per la fatica e imperlata da minuscole gocce
di sudore.
In
preda a una curiosità che generalmente non le apparteneva,
Madeline si avvicinò, evitando accuratamente ogni contatto con i
due che, sbuffando e grugnendo, stavano depositando sul pavimento il
loro fardello, con un pesante tonfo attutito dalla spessa moquette a
disegni bianchi, neri e rossi.
“Piano,
piano! Usate delicatezza!” li rimproverò la zia,
improvvisamente aspra, ma la sua voce era solo un sottofondo lontano
per Madeline, intenta a osservare ogni piega della carta marrone nel
tentativo di indovinare cosa celasse al disotto.
“Ah,
mia cara, l’ho adocchiato stamane su una bancarella in Portobello
Road, buttato in un angolo assieme ad altre cianfrusaglie, e ho deciso
che dovevo averlo per te. Ho persino strappato un prezzo di favore, ci
crederesti? Il rigattiere dice che continuano a restituirglielo. La
gente è folle.”
Scosse
la testa come a condannare la pazzia dei londinesi, mentre con un
braccio faceva segno agli uomini di fatica di spostare il pacco poco
più al centro, così che la luce morente del pomeriggio
potesse colpirlo in pieno.
Madeline
voltò il capo in direzione di zia Martha, di nuovo sorridente e
compiaciuta mentre i due manovali si massaggiavano con discrezione le
reni doloranti, soffocando i grugniti. “Posso già vedere
di cosa si tratta?” domandò, con un’impazienza
febbrile che non avrebbe saputo ben dire da dove venisse.
Era
uno dei suoi giorni buoni, quello – così la zia definiva
quei rari momenti in cui a Madeline il letto non pareva un rifugio
accogliente ma una gabbia, una prigione. Non avvertiva un briciolo di
stanchezza addosso; il solito torpore le era scivolato dalle spalle
come una mantella male allacciata; quel corpo che così spesso le
era insopportabile trascinare da una stanza all’altra, pareva
privo di peso.
Ricambiò
il cenno affermativo della zia con un sorriso che le stirò le
labbra tanto da risultarle doloroso. A quell’ordine tacito, gli
uomini presero a strappare via la carta senza alcuna delicatezza,
denudando un oggetto imponente, ritto su quelle che si rivelarono
possenti zampe di legno intagliato.
Rapidamente,
svelarono la pesante cornice di mogano intarsiato con ghirigori –
rose in bassorilievo tanto realistiche che Madeline poteva immaginarne
i petali bagnarsi nella rugiada del mattino; uno strappo alla volta, in
modo quasi osceno, scoprirono la superficie riflettente, opaca e
macchiata dal tempo di un’antica specchiera.
“Non
è un gioiello, bimba mia?” La voce di zia Martha tremava
d’orgoglio, neppure avesse plasmato con le sue mani quello che
doveva essere un capolavoro di falegnameria del secolo scorso.
Madeline
non poteva che concordare mentre percorreva con lo sguardo la
magnificenza di fronte a lei; allo stesso tempo, avvertiva spegnersi
l’entusiasmo poco a poco, come un focherello soffocato
dall’umidità.
La
zia si spostò dietro di lei. Aveva un passo lesto e leggero per
la sua età non più giovanile – e per essere una
donna rotonda avvolta in velluto e crinoline troppo ampie per andare
ancora di moda, che le ondeggiavano attorno ai piedini frusciando a
ogni movimento.
Incurante
della presenza degli uomini affannati ma ritti sulle gambe, coi
cappellacci tra le mani scure e rovinate – eppure, Madeline lo
sapeva bene, profondamente consapevole di ogni sguardo di troppo
all’argenteria lasciata in bella vista, al prezioso orologio
d’oro che ticchettava sul pianoforte, ai leziosi pastorelli di
ceramica disseminati su ogni pezzo di mobilio disponibile nella stanza
ingombra – le posò le mani ancora avvolte nei guanti di
lana leggera sulle spalle. “Quale modo migliore di invogliarti a
farti bella che uno specchio altrettanto bello in cui rimirare il tuo
riflesso?”
Accennò
con il mento alla specchiera come a sottolineare il concetto, e
Madeline, sempre ubbidiente, si lasciò guidare fino a posare gli
occhi sulla propria immagine.
“Davvero
è possibile, cara, che tu non comprenda il tuo potenziale?
Quanto potresti essere graziosa con un corsetto più stretto, la
chioma domata, un accenno di porpora alle guance?”
Il
rossore non le mancava, invero. Le saliva dal collo sottile fino alla
faccia a mela, colorandole gli zigomi solitamente esangui. Vedeva una
ragazza osservarla timidamente – occhi scuri e schivi, un naso
privo di carattere, una bocca piccola e pallida, sottile e rugosa come
una prugna secca – avvolta nel suo abito da tè troppo
stretto sulle spalle, le maniche a sbuffo che le rendevano le braccia
simili a due cosci di maiale che culminavano in avambracci rinsecchiti.
Un
sospiro sfuggì alle labbra della zia mentre la lasciava
lì a osservarsi e prendeva accordi con i due manovali per
trasportare in camera sua la specchiera (“Ora che la vedo in
casa, è davvero un’enormità. Spero vivamente che
passi per la sua porta!”).
Appena
le voltò le spalle, Madeline distolse lo sguardo girando il capo
verso il vetro della finestra e fissandolo sulla macchia verde scuro
del giardino ancora spoglio.
Mentre
avvertiva la contentezza del giorno buono scivolare via e la solita
nebbia dei giorni cattivi tornare a pesarle sulla testa chiara, le
parve di cogliere un movimento con la coda dell’occhio – ma
quando si voltò a indagare non trovò che Kate sulla
soglia della stanza, che esprimeva la sua meraviglia per la bellezza
del regalo di compleanno (“Complimenti, miss Maddie, uno spettacolo davvero,” diceva con quel suo strascicato accento irlandese).
Non ci pensò più, dunque – non finché la notte non calò su Vine Cottage, portando via con sé le ultime luci della bella giornata – e ogni sua certezza.
NOTE
[1]: Si tratta di un cotone inizialmente prodotto a Jouy-en-Josas, a partire dal XVIII° secolo che divenne molto popolare in Francia e in Inghilterra.
[2]:
La Stagione era un periodo dell’anno che andava da aprile ad
agosto, in cui era costume che le classi più agiate si
riunissero a Londra in numerosi eventi sociali. Era l’occasione
per i giovani di buona famiglia di venire presentati in società
(debutto), e di combinare un buon matrimonio.
[3]:
Si tratta di un abito dalle linee morbide e dalle ampie maniche,
ispirato ai kimono giapponesi e indossato sopra camice leggere. Viene
definito come a metà tra un vestito elegante e un elegante veste
da camera, e aveva la peculiarità di poter essere indossato
senza corsetto o l’aiuto di una cameriera. Era un capo di
abbigliamento generalmente molto costoso.
[4]: Una citazione da Springtime, di Gertrude Tooley Buckingham.
[5]: Personaggio del celebre Alice nel Paese delle Meraviglie, di Carroll.
[6]: La scelta del nome di Madeline non è casuale: la prima sillaba, “mad”,
può essere tradotta come “pazzo”;
“Moon”, luna, dà origine all’aggettivo
“lunatico” – “lunatic”, in inglese, sinonimo di “folle”.
DISCLAIMER: L’immagine iniziale, da me modificata, appartiene nella forma originale alla sua creatrice, Tsukiji Nao.