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Autore: Nemainn    09/02/2016    2 recensioni
Quando una frase ferisce, quando si accusa senza sapere, quando poi si guarda in faccia a chi hai accusato, e capisci che sei tu, a non aver capito.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Non puoi capire



Guardo le due donne davanti a me, sentendomi le mani fredde, e stringo i pugni per un momento.
«Tu non puoi capire, ecco perché dici certe cose.»
Prendo un profondo respiro, guardando quegli occhi che mi accusano, dall’alto della loro inespugnabile moralità. Io non posso capire.
«Tu non hai passato quello che ho passato io, stuprata dal branco, come puoi dire che c’è cosa peggiore? Come puoi farla passare come una cosa di poco conto!?»
«Ho detto che ci sono cose peggiori, è vero, ma sei ancora viva, giusto? Puoi amare e abbracciare? Potevi essere morta. Invece sei qua.»
«Vedi?» interviene l’altra. «Non capisci, non sai cosa vuol dire!»
No, non capisco. Non le capisco, è vero.
«Avete ragione, non capisco.» Le fisso e il freddo del mio stomaco si attorciglia alla gola, cerca di soffocare le parole, ma stavolta le farò uscire. Perché io non capisco.
«Era agosto, era un pomeriggio assolato e polveroso, ero una bambina. Avevo già qualche curva, ero precoce nelle forme, ma ero una bambina che andava per la campagna con il suo cane. Mi piaceva quel momento nonostante il caldo, non c’era nessuno in giro e tutto era solo per me. I grilli frinivano impazziti e gli alberi sembravano disegnati contro il cielo. Andavo a spasso per le stradine di campagna attorno a casa mia, fermandomi di tanto in tanto all’ombra. Vidi arrivare una macchina, una vecchia fiat, una seicento forse, rossa e scolorita, opaca per la polvere e per il tempo. Si ferma e l’uomo dentro mi chiede delle indicazioni. Sono una bambina e penso che sia un ladro, non so perché, ma mi convinco che voglia sapere dove abito per rubare in casa. Ricordo la sua canottiera bianca, i peli del petto grigi e neri, la pelle un po’ rugosa al collo. Mento. Non abito lì, no, sto con i parenti e la casa è lontana anche se piena di gente.
«Lui sorride, scende dalla macchina e vedo i suoi pantaloncini chiari, color sabbia, le gambe abbronzate. Mi afferra per il braccio e con l’altra mano apre la cerniera. Non avevo mai visto quello, di un uomo. Vivevo in campagna però, avevo idea di cosa fosse un maschio. Non capivo, sentivo che era sbagliato, ma non capivo, non ancora.» Mi tremano le mani. Loro due mi guardano, adesso sono in silenzio. Prendo fiato, continuo nonostante la mia voce faccia fatica a uscire.
«Mi ha sbattuta contro la portiera della macchia. II mio cane ha iniziato ad abbaiare, ma non c’era nessuno.
«Ero una bambina che non aveva mai visto un uomo, che non sapeva nulla del sesso, però avevo visto gli animali. Non capivo, ma non volevo. Dopo sono tornata a casa, da sola, sotto il sole caldo di agosto. Mia madre non mi ha creduto. Non ha potuto crederlo, forse, non lo so. Mio padre non ha mai detto nulla, se non anni dopo. “Cosa potevo fare?”, mi  ha chiesto quel giorno, quando da adulta lo ho affrontato.» Mi guardano, allora continuo. «Anni dopo, ero in terza media, il mio vicino di casa mi guardava sempre. Ma io ero brutta, mi nascondevo dentro me stessa. Non capivo perché mi guardava, credevo di non piacergli. Invece gli piacevo, troppo. Era vecchio, e una sera in cortile ha allungato le mani, toccandomi il seno. Sono scappata a casa. Lo ho detto a mia mamma: quella volta mi ha creduto, ha parlato con lui e non mi ha mai più neanche guardato. Ma gli anni passano e i problemi cambiano, a un certo punto anche se avevo neanche diciotto anni dovevo lavorare. Dovevo. Allora mi hanno detto succhiamelo. Succhiamelo e il lavoro lo tieni. Allora mi sono messa in ginocchio e l’ho fatto, perché nessuno mi avrebbe comunque creduto. E il lavoro mi serviva, serviva alla mia famiglia, serviva per mangiare.»
Mi trema la voce e prendo ancora un lungo respiro, poi un altro e un altro ancora.
«Ma voi due avete ragione, io non posso capire. Non posso capire questa solidarietà femminile, questa cosa del lottare insieme, quando sono donne come voi che la propinano. Donne che si mettono al di sopra degli altri, perché nessun altro può capire cosa vuol dire quello che hanno passato. Avete ragione, io non posso capire. Ma non posso capire voi, e non voglio. Non è un’arma da puntare contro il mondo, non è una vergogna da nascondere. Ma tanto meno è un modo per farsi compatire o mettersi sul palcoscenico.
«No, io non posso capire.»
Mi volto, e me ne vado.
A volte è meglio non capire.

 

 

Si parla di femminicidio, si parla di tante cose, e purtroppo tante volte sfugge il vero senso,
la vera direzione che si dovrebbe prendere.
La violenza è un cancro, e in quanto tale non va usata né come arma, né in altro modo,
se non come testimonianza piena di dignità di fatti orribili.
Io credo in un mondo paritario, dove non esistano più certi pensieri in una società
veramente civile, eco perché sono femminista e voglio il femminismo.
Il femminismo è uguaglianza, non donne che dominano il mondo.
Cercate in internet la storia delle donne Moso e della loro società matriarcale,
e imparate cosa è il femminismo.


 

 

 

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