II:
The lass through the looking-glass
Ricordava
il ticchettio gentile della pioggia sulle imposte chiuse, il calore delle
coperte avvolte attorno al corpo come un bozzolo, e la stanchezza appesa alle
ciglia che le appesantiva le palpebre mentre il sonno la inghiottiva
lentamente.
Rammentava
tutto questo, eppure la sua stanza era piena di luce: un candore ultraterreno
più brillante di quello della neve che in inverno cadeva copiosa, stendendo su Vine Cottage la sua mano pallida.
Un
attimo le pareva di essere ancora sdraiata sul materasso, nella sua camicia da
notte accollata; un attimo dopo era in piedi, scalza sul legno del pavimento
che le gelava la pelle accaldata.
Madeline
era sola, al sicuro sotto la vecchia trapunta patchwork odorosa di canfora e
lavanda; era anche in compagnia, e una figura solitaria le si ergeva di fronte,
minuta e familiare, mentre un intenso profumo di rosa le solleticava il naso,
delicato come la carezza di una morbida piuma – e parimenti insopportabile.
Fu
solo quando si svegliò che ebbe la certezza di aver sognato.
Tra
le dita, la stoffa della trapunta si increspava sotto la sua stretta convulsa e
sudata; il respiro le sfuggiva lento dalle labbra, mentre le membra tremolavano
tutte come la fiamma di una candela smossa da un lieve soffio di fiato.
Madeline
si sedette a fatica, tentando di scuotersi via quella sensazione di formicolio
che affondava fin dentro la carne. Sedendosi sul materasso affossato al centro,
tirò le gambe al petto nell’oscurità totale, incrociandole di fronte a sé come
a farne uno scudo.
Ogni
traccia di sonno sembrava sparita.
Non
aveva idea di che ora fosse ma il mattino doveva essere ancora un sogno
lontano.
Respirava
con cautela, attenta a non emettere rumore alcuno – fuori, la pioggia si era
placata, lasciando posto all’ululare straziato del vento che si insinuava nelle
fessure delle imposte producendo un suono simile a un basso gemito di gola.
Nel
camino, il focolare era spento – bastano
le coperte a scaldarti, Madeline cara, sprecar legna la notte non è follia da
gente di senno come noi – ma le sarebbe bastato allungare la destra e
cercare la candela che, ricordava bene, era ancora accesa prima che la
stanchezza la vincesse; invece, teneva le mani l’una nell’altra, le dita
intrecciate – così immobile sul letto da farsi dolere schiena e giunture sotto
la lana della camicia.
In
una vana attesa.
I
primi raggi di sole si insinuarono timidamente dalla finestra, gettando nella
stanza uno scialbo cono di luce. La possente ombra di una zampa della
specchiera prese ad allungarsi.
Il
profilo delle rose che si inerpicavano sulla cornice fiorì sul pavimento.
Madeline teneva lo sguardo fisso sul vetro opaco, la sua faccia smunta che
ricambiava l’occhiata.
Un
giorno cattivo, due giorni, cattivi, tre.
Le
notti di attesa la logoravano – in attesa di cosa, non avrebbe saputo dire.
Forse,
di quei dolci brividi di timore e anticipazione, della sensazione di venire
osservata da occhi bramosi e benevoli. Solo il riflesso nello specchio
ricambiava il suo sguardo che percorreva la stanza – come se la presenza che,
ne aveva la totale certezza, si celava da qualche parte negli anfratti bui,
nelle ombre spigolose gettate dalla cassettiera e dal letto sfatto, potesse
sgusciar fuori da un momento all’altro.
Al
mattino era tanto esausta da non trovare energia sufficiente neppure per
scendere dabbasso – mantenersi in esercizio al piano, terminare la lettura di Dietro lo specchio [1],
perfezionare i suoi schizzi sulla figura umana.
La
strisciante sensazione di essere una pupilla profondamente ingrata non frenava
Madeline dal dare poco conto ai commenti di zia Martha sulle occhiaie violacee
sul viso troppo pallido; al furtivo segnarsi di Kate mentre, varcata la soglia
della sua camera col vassoio tra le braccia forti e floride, strette nella lana
scura dell’uniforme, passava davanti alla enorme specchiera intarsiata con un
frusciare di crinolina.
Madeline
se ne rimaneva raggomitolata nella trapunta, senza neppure la forza o la voglia
di assaggiare l’arrosto di vitello che spandeva il suo profumo succulento
nell’aria pesante di chiuso.
“Guardate
che vi ho portato, Miss Madeline,” cinguettava la cameriera, tirando le labbra
sui denti troppo grandi – il vano tentativo di incoraggiarla a buttar giù un
boccone. Madeline era profondamente consapevole di quanto fosse costato, alla
zia, affondare le mani nelle tasche per procurarle qualcosa di buono al posto
del solito piatto di pesce del venerdì [2], affinché le rinvigorisse
l’appetito.
Ne
era consapevole, ma voltava la schiena dall’altra parte, sperando che Kate
sbocconcellasse un tozzo di pane e qualche pezzo di carne tenera al suo posto.
I
giorni erano lunghi: il sole non calava mai abbastanza in fretta.
Di
nuovo, la sera.
Con
le dita, Madeline tormentava la stoffa floreale della coperta. La vivacità del
disegno suscitava in lei un’ira sottile e senza nome, che intrecciava le sue
spire a quel formicolare vago di timore e anticipazione che serpeggiava sotto
la pelle.
Vibrava
come le corde del pianoforte; aveva caldo, aveva freddo. Sudava, ma brividi
creavano una trama di pelle d’oca sulla sua carne; ogni pelo del corpo era
ritto sulle braccia, sulle cosce; i sottili capelli pallidi sulla nuca
fremevano di anticipazione.
Provava
l’acuto desiderio di alzarsi in piedi, di percorrere a grandi passi la stanza
che, sentiva, le andava stretta, la soffocava; sul vassoio di porcellana
candida, il brodo di pollo si era ormai freddato senza che lei ne avesse messa
in corpo una goccia. Non aveva le energie di muovere un passo, ma lo stomaco se
ne restava stretto in una morsa, la lingua riarsa che passava sulle labbra
secche e incartapecorite.
L’agitazione
la tirava allo spasimo. Gli occhi chiusi, la testa assente e lontana, il
pensiero sopito; quando una mano fredda, dalle lunghe dita affusolate, si
allungò a posarsi sulla sua fronte, le parve che i polpastrelli arrivassero a
carezzarla nel cranio.
Levare
un braccio, tendere la destra per afferrarla, le tolse quelle poche forze che
non aveva idea di possedere ancora; quando la strinse tra le dita, sotto lo
strato sottile di pelle gelata avvertì ossa fragili come vetro.
Madeline
sollevò le palpebre incollate a fatica, percependo il fiato freddo solleticarle
le guance. Il viso che incombeva su di lei era come una luna sorridente.
Ritta
in piedi, Madeline la osservava incantata – intimidita da una bellezza che pari
aveva visto risplendere solo da lontano mentre, nelle scintillanti sale da
ballo illuminate da lampadari di cristallo di rocca, le altre Vecchie Regine [2]
danzavano tra le braccia di cavalieri impomatati verso un futuro radioso.
Il
profumo di rosa nell’aria era pungente, opprimente: si insinuava nelle narici
di Madeline, tese a coglierne ogni sfumatura. Su di loro, il cielo era bianco
come prima della pioggia, ma una luce senza fonte si irradiava tutta attorno.
Il
legno del pavimento era sparito, coperto da tralci sottili di un roseto i cui
fiori allargavano i petali impudicamente, inerpicandosi sulle gambe in ferro
battuto del letto, sbocciando sulla trapunta patchwork, sopra la sua modesta
cassettiera.
La
sua spoglia camera si era fatta giardino – e la giovane di fronte a lei non era
anche lei che una rosa rovesciata: lo stelo del busto avvolto strettamente nel
satin nero dell’abito, le mani intrecciate alle sue come delicate foglioline
pallide che spuntavano dai pizzi arricciati delle maniche; la gonna era
un’ampia corolla setosa sulla crinolina.
Guardarla,
le serrava il cuore in una morsa dolorosa.
Le
stava sorridendo, e il volto era, per Madeline, la parte più sconvolgente di
tutte.
Era
il suo.
Il
suo, se un pittore le avesse affinato i tratti e dato lucentezza alle guance
spente e agli occhi troppo infossati, conferito una sfumatura più profonda alla
sua chioma scialba; il suo, se uno scultore le avesse levigato la pelle,
addolcito la curva della bocca fino a farne un bocciolo, se le avesse lisciato
i ricci della criniera.
Davvero non vedi che
donna potresti essere?
Riusciva
a scorgerlo, rispose Madeline muta all’eco della voce della zia.
A
vederlo e a toccarlo.
“Vieni,
Madeline?”
La
sua voce era dolce e bassa come il mormorare della pioggia di marzo. Madeline
deglutì il groppo che le serrava la gola, lasciandosi tirare dalla spinta
gentile fino a terra. Le rose la inghiottivano, la annegavano nella loro
fragranza dolcissima.
“Come
conosci il mio nome?” bisbigliò strozzata, tremante come un uccellino.
La
ragazza le sorrise con calore.
“Come
potrei non conoscerlo?” Staccò una mano dalla sua, indicando la specchiera con
un ampio movimento del braccio. “Da tanto tempo ti osservo, oltre lo specchio,
da prima che tu avessi memoria di me. Mi chiamo Alice.”
Le
fece una graziosa riverenza, posandole le labbra fredde sulle guance roventi.
Si
chiamava Alice, e viveva dietro lo specchio.
A
Vine Cottage, il sollievo aleggiava nell’aria ancora
pesante di pioggia e si insinuava in ogni stanza dalle finestre spalancate. Era
giorno di pulizie – dal piano terra, Madeline riusciva a sentire la canzonetta
sconcia che Kate cantava a pieni polmoni, mentre batteva la biancheria sporca
prima di gettarla nella stufa per il bucato.
Era
un giorno buono. Madeline, seduta su uno sgabello, il viso rivolto al sole che
splendeva oltre la collina – per quanto possibile in Inghilterra – approfittava
della luce mattutina per mettere mano al foglio da disegno.
Il
viso accostato alla carta ruvida, strizzava gli occhi e teneva saldamente il
carboncino tra il pollice e l’indice; la mano si muoveva da sé, senza sforzo
alcuno, schizzando linee precise e delicate sul volto della figura.
Aveva
lasciato per ultimi i lineamenti del viso, concentrandosi sugli infiniti
dettagli della giovane ritratta di profilo: gli impalpabili merletti e i pizzi
che si arricciavano, sbocciando dai polsini stretti delle maniche; la coccarda
di satin appollaiata sulla bassa schiena, lì dove le gale di stoffa liscia e
grigia sfioravano i lunghi capelli lisci, liberi se non per poche ciocche
tirate da nastri setosi, intrecciati di fiori; e poi, le rose in boccio o del
tutto aperte, i minuti rami spinosi, i tralci da cui la giovane donna ritratta
sembrava sbocciare anch’essa, che si inerpicavano sul parasole che ella teneva
tra le dita sottili, l’asta graziosamente posata su una spalla esile.
Madeline
strizzava gli occhi, riandando con la mente all’attimo che stava portando su
carta – l’ultimo istante prima che Alice raccogliesse la gonna dell’abito con
la mano libera, tuffandosi oltre superficie impietosa dello specchio.
“Ci
rivedremo?” aveva chiesto Madeline con urgenza, la gola secca per
l’anticipazione.
Alice
le aveva indirizzato un sorriso dolce e triste, incurvando le labbra sui
piccoli denti regolari. “Domani notte…”
La
destra danzava sul foglio al ritmo di una melodia senza suono.
“Chi
è?”
La
voce di zia Martha arrestò improvvisamente il movimento sicuro del polso,
facendo sussultare Madeline sull’imbottitura dello sgabello.
“Una
tua amica?”
Madeline
si voltò infastidita, trovandosi di fronte la zia con ancora la mantella sulle
spalle, che si stava sfilando i guanti. Le guance vizze erano arrossate per il
medesimo vento che scompigliava il giardino.
“Ah…
si può dire così, zia,” mormorò in risposta, appena esitante.
Non
avrebbe saputo dare una migliore definizione di Alice. In realtà non era
neppure certa che la ragazza non fosse un frammento della sua immaginazione.
Io sono te, le aveva riposto, quando le aveva
domandato spiegazioni – per metà inorridita, per metà ammaliata da quella
presenza che le teneva la mano così fermamente.
“Uhm…”
La
zia Martha si chinò per osservare il disegno, e Madeline provò l’ardente
desiderio di strapparlo violentemente via al suo scrutinio.
“Non
ricordo di averla conosciuta, mia cara. Ma guarda…”
Da
vicino, la pelle rugosa della zia, macchiata d’età sotto lo strato di cipria
che vi applicava in barba alle convenzioni, sembrava ancora più raggrinzita
attorno agli occhi – non era poi così vecchia, ma Madeline si ritrovò a fare il
paragone con l’incarnato liscio di Alice.
“Potreste
essere gemelle.”
Il
buio oltre la finestra non riusciva a penetrare nella stanza, avvolta nella
luminosità ultraterrena che calava quando Alice sollevava le pesanti gonne e
scavalcava la cornice della specchiera, raggiungendo una Madeline già in
attesa.
Sedevano
sulla trapunta stesa a terra – come in uno strano picnic entro le mura della
villa.
La
sua gemella l’aveva fatta sdraiare, la testa posata sulle ginocchia piegate
avvolte in liscio satin. Le mani immerse nella chioma di Madeline, con le
unghie grattava leggera lo scalpo in un massaggio gentile e districava le
ciocche con delicatezza.
“Raccontami
ancora di te, vuoi?”
Madeline
aggrottò lievemente un sopracciglio, increspando la fronte in onde di carne.
“Non sai forse tutto quello che c’è da sapere?”
“Voglio
sentirlo ancora dalla tua voce…”
Più
ci si rompeva la testa, più tutto quello che accadeva in camera sua, quando la
notte calava su Vine Cottage e Kate e la zia Martha
se ne andavano a dormire, mancava di senso logico – più Madeline l’attendeva
con ansia.
Aveva
avuto delle amiche, i primi anni di collegio – ragazze di buona famiglia che
l’avevano invitata a trascorrere con loro il Natale, la Pasqua e le vacanze
estive in eleganti dimore nei quartieri alti della capitale, reggie in cui finiva per perdersi, tanto erano grandi in
confronto alla sua villetta – dove servitori in livrea e cameriere in uniformi
inamidate, una per ogni momento della giornata, esaudivano qualunque desiderio.
Ricordava
splendide serate in camere ampie due volte la sua, a bere cioccolata calda in
tazze bianche come la neve; le gite con le loro chaperon fino a Mayfair, Privy Gardens, Spring Gardens [3];
con cui era sgattaiolata dal collegio in Harley Street fino a Baker Street,
Grosvenor Square – persino a Piccadilly
[4], quando si sentivano particolarmente avventurose, per ammirare
gli imponenti palazzi dei potenti che sorgevano fianco a fianco ai caffè
stranieri, dove le donne cadute [5] ammiccavano ai damerini impomatati
che avrebbero sposato virginali signorine come loro, prima o poi.
Eppure,
era come se una mano invisibile avesse strofinato i polpastrelli sul carboncino
della sua memoria, sbiadendola e confondendone i contorni.
“Sai
tutto,” replicò, sentendo qualcosa sciogliersi dentro il petto.
Sì.
Dei suoi genitori, dell’influenza che se li era portati via; dei parenti che se
l’erano passata come un pacco indesiderato, fino a che le amorevoli braccia di
zia Martha – e dello zio numero uno – non l’avevano accolta nel loro cerchio,
per poi spedirla al collegio più costoso di Londra.
Gliele
aveva confidate, tutte queste cose: lo aveva fatto senza parole, col cuore,
perché Alice aveva domandato solo con gli occhi. A volte, si chiedeva se le
frasi davvero uscissero dalle sue labbra, oppure fossero confinate tutte nella
testa.
Quando
l’alba carezzava il pavimento della stanza, e Madeline si svegliava
inginocchiata davanti alla specchiera come la fedele sulla panca di una chiesa,
si domandava se i suoi sogni avessero ormai oltrepassato il confine del sonno,
sconfinando nella realtà.
Alice
le sfiorò una guancia con le nocche – delicate eppure taglienti sulla pelle.
Madeline sorrise, osservando dal basso la curva gentile del suo mento. “Sono io
a volere sapere di te. Hai detto che sei me ma com’è possibile? Siamo così
diverse.”
L’altra
chinò il viso su di lei, lo sguardo scuro che incontrò quello di Madeline colmo
di dolcezza.
“Quello
che ha detto nostra zia è la verità, Madeline. Potresti somigliarmi di più, se
volessi; ma non ne hai bisogno: è questo che lei non vede.”
Madeline
deglutì lentamente, lasciando che la saliva scivolasse giù per la gola. “Non ne
ho bisogno…?”
“No.
Devi solo imparare a vederti attraverso i miei occhi. Ho aspettato tanto prima
di farmi avanti e venire a trovarti.” Intrecciò un dito sottile a un ricciolo
di Madeline, inanellandolo. “Vederti triste e sfiduciata era un fardello sul
cuore che non potevo più sopportare. Per fortuna, lo specchio mi ha aiutata a esaudire
questo mio desiderio.”
Con
delicatezza, Alice la spinse a raddrizzarsi e si alzò in un fruscio di gonne,
facendole segno di seguirla. Sulla trapunta che copriva il pavimento, i suoi
passi non producevano alcun rumore. Madeline le andò dietro più goffa, i piedi
che affondavano nella stoffa morbida, mentre Alice le faceva segno di
accucciarsi dietro la specchiera.
Madeline
avvicinò il viso, tanto che il fiato che le sfuggiva dalle labbra si condensava
sul legno lucido, rendendolo opaco. Nella luce innaturale della stanza,
l’iscrizione scavata sulla superficie liscia si leggeva distintamente, come
vergata dalla mano elegante di una signora: Ti
mostro non quello che sei, ma quello che vuoi. [6]
NOTE
[1]:
Il libro di Lewis Carroll era stato pubblicato nel 1871.
[2]:
Così venivano chiamate le ex-alunne del Queen’s College
di Londra, fondato nel 1848, patrocinato dalla regina Vittoria. L’istituzione
divenne pioniera nel campo dell’educazione femminile.
[3]:
Quartieri eleganti di Londra, abitati e frequentati dalle classi più agiate.
[4]:
Inizialmente un quartiere a luci rosse (il nome deriva dallo spagnolo “peccadillos”), in epoca vittoriana esso ospitò innumerevoli
locali e caffè stranieri, in cui la buona società si mescolava alle fasce più
basse. Erano frequenti l’esercizio della prostituzione e le risse.
[5]:
Letteralmente, “fallen women”.
Così venivano chiamate le donne che avevano perso la reputazione oppure
esercitavano la prostituzione.
[6]:
Una citazione ispirata alla frase incisa sullo Specchio delle Brame in Harry Potter e la Pietra Filosofale.