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Autore: ChrisAndreini    13/02/2016    0 recensioni
"Questa non è una storia d'amore, non è una storia di avventura, non è una storia di fantasia e felicità.
Questa è una storia d’attesa, una storia di rimpianto, una storia di errori e di cambiamenti."
Riley Collins è una ragazza particolare, con un passato particolare, interessi particolari, occhiali particolari e senza ombra di dubbio, una storia e una consapevolezza particolari.
Infatti lei, a differenza di tutti gli altri, sa esattamente cosa la circonda, e riesce a vedere la realtà nel modo più vero possibile.
Dal Cap. 1:
"Salve a tutti, il mio nome è Riley Collins.
…Si, mi sto rivolgendo proprio a voi che leggete la mia storia, e non lo sto facendo perché la sto scrivendo io, ma perché l’autrice sta scrivendo di me proprio in questo momento.
Come faccio a sapere di essere il personaggio di una storia?
Facile, io sono l’esperta massima di storie."
6° classificata al contest “AAA Genio Cercasi!”
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Attraverso le lenti della realtà

Capitolo 2: Il gioco del raggiro

 

Per il braccio rotto della muta dalla nascita e senza amici Natasha, che probabilmente si era sfasciata scivolando nel bagno, o per attirare l’attenzione, venne chiamata un’ambulanza, e fu l’evento più interessante della giornata.

Per il resto l’ora di chimica fu tranquilla, così come le due di matematica, tranne quando alla fine della prima ora Joseph richiese di andare dal preside per lamentarsi della semplicità dei corsi.

Io disegnavo senza molti complimenti, quindi sembrò che non prestassi abbastanza attenzione, ma non riuscii a non notare che MANO aveva predetto esattamente che l’evento sarebbe avvenuto.

Joseph tornò dall’ufficio del preside durante la pausa pranzo, accompagnato da due ragazze e litigando con una di loro, dallo stile completamente opposto al suo.

Avevo letto abbastanza libri per arrivare alla conclusione che lei sarebbe stata l’interesse amoroso del tanto serio protagonista, e attivai un attimo gli occhiali per averne conferma, rimanendo parecchio sorpresa, devo ammetterlo.

Infatti sulla testa di entrambe le ragazze che accompagnavano il giovane Jones, c’era la scritta un po’ più piccola di “Protagonista” e non erano collegate a Joseph con amicizia o amore, ma da parentela.

Loro due erano le sorelle minori di Joseph.

Una aveva tredici anni, e stava in disparte, timida, artistica e imbarazzata nel trovarsi vicino a due litiganti.

L’altra ne aveva quindici, anche se ne dimostrava di più, ed era cleptomane, insicura di se stessa e iperattiva.

Il trio della storia.

Joseph intercettò il mio sguardo, e io mi affrettai a disattivare le lenti e concentrarmi sul mio pranzo.

Purtroppo il dado era tratto, e il ragazzo mi si avvicinò, lasciando perdere la discussione con la sorella.

-Riley, giusto?- mi chiese, sedendosi accanto a me e guardandomi indagatore.

MANO batteva i soliti messaggi, ma mi resi subito conto che aveva cambiato il codice.

Ora infatti non distingueva suoni brevi e suoni lunghi, ma usava solo suoni brevi, e a distanza molto diversificata l’uno dall’altro.

Iniziai a riflettere su che codice fosse, e intanto gli feci un sorriso e continuai la conversazione.

-Si, sono Riley. Cose c’è?- cercai in tutti i modi di non guardargli la mano, ma era davvero un’impresa.

-Volevo solo chiederti cosa avevate fatto l’ultima ora di lezione- mi rispose lui, composto, e osservandomi negli occhi.

Io non distolsi lo sguardo, e tenni i miei occhi neri come inchiostro fissi nei suoi.

-Niente di che. Le solite cose che sono convinta a te non servano perché le sai già, visto che il sistema scolastico americano è molto peggiore di quello inglese- gli dissi in tono tranquillo, mentre riflettevo sui codici che conoscevo.

Prima che lui potesse rispondere feci una grande stupidaggine, lo ammetto.

Non ho la più pallida idea di come mi sia venuto in mente di dirlo ad alta voce, soprattutto perché io, solitamente, sono una ragazza parecchio discreta su me stessa, e non amo mettermi in mostra, preferendo tenere per me i miei successi personali.

Forse fu la sua influenza a contagiarmi un attimo.

Forse quello sguardo di sfida, il fatto che ci guardavamo fisso da un sacco di tempo o il suo evidente giudizio negli occhi grigio tempesta furono il fattore scatenante di un’insana voglia di sbandierare la mia intelligenza ai quattro venti.

Fatto sta che, tra i denti, arrivai alla conclusione che cercavo da quando avevamo iniziato a parlare.

-Codice binario- sussurrai, e me ne pentii subito dopo.

Vidi i suoi occhi accendersi in uno sguardo di consapevolezza, mentre MANO si fermò.

-Come?- mi chiese, sorpreso.

Io non riposi, e distolsi lo sguardo.

Mi chiedo tutt’ora il motivo della mia stupidità!

-Chi sei tu?- mi chiese Joseph avvicinandosi, mentre io giocherellavo con una ciocca di capelli.

-Riley Collins- risposi io, cercando di riprendere il sorriso e la sicurezza.

Che diavolo mi era preso?!

-Chi sei tu, veramente?- insistette Joseph.

-Perché la tua MANO è onnisciente?- chiesi io, spiazzandolo.

-Come?- lui sobbalzò, non si aspettava quella domanda.

Io lasciai perdere il sorriso, e lo guardai fisso, per fargli capire che ero seria e che doveva ascoltarmi.

-Joseph, potremmo rimanere qui a farci domande a vicenda che toccano i nervi più scoperti della nostra anima e del nostro passato, oppure potremmo ognuno andare per la propria strada e lasciar perdere questa conversazione. Sarebbe molto meglio per tutti, non trovi?- sapevo di non poterlo fregare con i miei sorrisi o con il mio comportamento, così adottai la tecnica dell’intimidazione.

Ma purtroppo lui era più imprevedibile di quanto pensassi.

Fece un mezzo sorriso, interessato alla piega che stavano prendendo gli eventi, e si tirò su gli occhiali.

Poi, contro ogni mia aspettativa, rispose.

-La mia mano non è onnisciente. Ora tocca a te. Chi sei tu, veramente?- e diede via ad uno strano gioco, che io, dopo lo sconcerto iniziale, mi scoprii impaziente di giocare.

Dovevo trovare una risposta reale e inoppugnabile che raggirasse in qualche modo la domanda, rendendola inutile senza però mentire.

Cos’ero io?

Era una domanda così generica.

Potevo dire tantissime cose, ma decisi di attenermi a una risposta che non rivelasse nulla.

-Raja Pawan- risposi, dando il mio nome reale, che non pronunciavo da troppo tempo, e che mi fece tornare in mente ricordi lontani che cercai di tenere a freno.

-Perché tu sei onnisciente?- chiesi allora, ma lui trovò un altro modo per aggirare la domanda.

-Ma io non sono onnisciente. Ti facevo più brava a porre domande, Raja. Da dove vieni?- mi chiese lui.

Il gioco era appena cominciato, stavo facendo solo un po’ di riscaldamento.

Riflettei sul modo migliore di rispondere alla domanda. Certo, io venivo da un altro mondo, ma non potevo dirglielo. Però era anche vero che prima di trasferirmi a New York ero stata in Spagna, perciò risposi senza troppe incertezze.

-Da Valencia- lui sembrò deluso -Chi muove la tua mano sinistra quando vengono inviati messaggi in codici particolari e tu non ne sei cosciente?- chiesi subito dopo, specifica.

Lui aprì la bocca per rispondere, poi la chiuse. Sapevo che stava valutando l’idea di mentire, ma non gli andava a genio.

In realtà non capisco perché nessuno di noi, con tutti i segreti che avevamo e non volevamo rivelare, mentì, fatto sta che preferivamo dimostrare la nostra intelligenza evitando le domande più che risponderle senza dire la verità.

Alla fine si vide costretto a cedere.

-STAR- mi rispose solo.

-STAR?- chiesi io, ma lui mi riprese.

-E’ il mio turno per fare le domande. A che servono quegli occhiali?- mi chiese lui.

Io impallidii. Non potevo assolutamente rivelare la vera funzione delle lenti della realtà. Ma ora la lente non era impostata, quindi gli occhiali servivano solo…

-A nascondermi. Li uso per nascondermi- non era affatto una bugia -STAR per cosa sta?- chiesi poi, curiosa.

-Sensore Trova Avversità Rapidamente- distolse lo sguardo, irritato dall’aver dovuto dare due risposte inevitabili.

-Io l’avrei chiamato MANO. Mentale Atipico Navigatore Onnisciente- suggerii, tra me e me. 

Lui mi guardò, soppesando le mie parole.

-Sai, non è affatto male. Ma è più un sensore che un navigatore, mi aiuta… A che serve quel bottone?- si riprese in extremis prima di rivelare troppe informazioni e fece la sua domanda, e indicando il bottone quasi invisibile sulla stanghetta.

La risposta non era così problematica, quindi, a malincuore, gliela diedi.

-A cambiare lente- risposi io.

Prima di potergli fare qualche altra domanda, la campanella suonò, annunciando la fine della pausa pranzo, e incoraggiando tutti gli studenti a tornare nelle proprie classi.

Lui si alzò, e mi guardò, con un sorriso soddisfatto.

-Continueremo dopo, immagino- e poi mi lasciò seduta lì, mentre si dirigeva in classe.

Io finii velocemente di mangiare e sparecchiai il tutto, per poi raggiungerlo nella classe di biologia, dove finimmo a lavorare insieme, ovviamente.

Si, non ero una molto socievole, e fino ad allora avevo sempre lavorato da sola, in mancanza di un compagno.

Naturalmente non avevo bisogno di nessuno, ma non era stata certo la mia abilità ad allontanare tutti, quanto il mio desiderio di rimanere sola.

Durante le lezioni io e Joseph non parlammo, ed io cercai di ignorarlo il più possibile, nonostante fossimo sempre appaiati.

All’ultima ora, quando già pregustavo l’idea di tornarmene a casa con i miei libri, senza dover parlare una volta di più con il protagonista, ci fu un annuncio che mi spiazzò.

-Per il progetto sulla letteratura nel corso dei secoli ho deciso che vi dividerò in coppie e dovrete lavorare a casa. Perciò assicuratevi di avere l’indirizzo del vostro compagno di banco. Allora… Riley, tu e il ragazzo nuovo- Joseph grugnì sentendosi chiamare così -vi occuperete della letteratura greca, con i poemi dell’Iliade e dell’Odissea, e voglio un approfondimento sul modo di trasmettere oralmente le storie che vigeva in quel periodo- mi trattenni dal darmi una manata sulla testa per la seccatura.

Non solo doveva mettermi con il “protagonista”, che meno lo frequentavo meglio era per tutti, ma dovevo pure parlare della poca letteratura che non avevo visto scrivere. Cioè, conoscevo perfettamente Iliade e Odissea, ma avrei preferito un tipo di letteratura di cui conservo le firme originali degli autori, come la Divina Commedia.

Si, posseggo l’unica ed inimitabile Divina Commedia, e so che avrei dovuto consegnarla agli storici eccetera, ma adoro quella commedia, non posso farla rovinare lasciandola a qualche stupido studioso. 

Inoltre è stata difficilissima da rubare.

…Tralasciate l’ultimo punto, ok?

Devo dirlo, sembrava il più banale dei cliché di una storia romantica adolescenziale. 

Ma non ero il personaggio di una storia romantica, o lo avrei saputo… probabilmente.

Comunque, sospirai, rassegnata, mentre l’insegnante assegnava i compiti agli altri.

Joseph mi guardò con aria di superiorità.

-Non preoccuparti, sono un esperto dei poemi epici- mi disse, interpretando male il mio sospiro.

Io gli sorrisi (come ho già detto vecchie abitudini sono dure a morire).

-Ne sono felice- gli dissi, secca.

Lui rimase zitto per qualche secondo, la mano che aveva ripreso a battere il codice Morse.

“Dove vi vedrete?! Non puoi invitarla, non chiederglielo!” 

Dopo aver decifrato il messaggio fui io a fare il primo passo.

E questa volta so perfettamente perché.

Anche se è comunque qualcosa di molto strano, per la mia personalità tranquilla e poco incline alla socializzazione.

Il fatto è che STAR, o MANO, che dir si voglia, stava mettendo una cattiva parola su di me, e per quanto questo potesse essere verissimo e anche utile per mio conto, che non volevo avere molto a che fare con Joseph, non mi piaceva.

Perché odio quando qualcuno mi parla contro alle spalle, soprattutto con il tono saccente di STAR… non che lo sentissi, ma lo intendevo.

-Allora, Joseph, ci vediamo a casa tua? Casa mia è un po’ problematica- proposi, con il solito sorriso che non riuscivo a non fare.

Casa mia era davvero problematica, e non solo perché non c’erano i genitori che avevo finto di avere, ma soprattutto perché semplicemente non esisteva.

Era un vicolo della 8th Avenue, nella zone Chelsea di Manhattan, molto vicino al Magnet Theatre, che io avevo trasformato con qualche modifica della realtà, in una casa invisibile. 

Aveva tutto ciò che si poteva desiderare: libri, carillon, fogli da disegno, cibo, acqua e servizi igienici. E nessuno sapeva della sua esistenza, quindi i ladri non potevano entrare.

Inoltre lo spazio era piccolo fuori ed enorme all’interno, cosa davvero comoda quando possiedi parecchie opere letterarie originali che non sai dove mettere.

Ma tornando a Joseph, dopo che gli feci la mia domanda mi guardò per un attimo, incerto sul da farsi.

-Se STAR non vuole non fa niente- gli dissi, e lui si irrigidì nel sentire nominare la mano onnisciente, tanto da impedirle di dare ulteriori messaggi.

-Per me va bene, credo. Insomma, è casa di mia zia, non mia, e ci sono le mie sorelle...- era molto a disagio parlando di loro, e, lo ammetto, mi intenerii un po’, chissà quante ne aveva passate, obbligandosi a crescere presto, o venendo obbligato da qualcuno.

-Potremmo sempre fare un lavoro separato- proposi allora, leggermente delusa.

-Forse si… Comunque l’indirizzo è il 610 di Park Avenue. Nell’appartamento 3E. Ora che ci penso credo che Julie esca tutti i pomeriggi- alzò gli occhi al cielo nel ricordarlo -E Jasmine sembra una brava ragazza, tranquilla. Inoltre zia Josie non credo sia tipa che impone regole in casa- sbuffò -Quindi forse potresti venire, credo- concluse poi, senza sapere il da farsi.

Devo dire che era disturbato forte, il ragazzo, ma mi incuriosiva, perciò decisi, nel pieno delle mie facoltà mentali, di proporgli di fargli una visita quel pomeriggio.

E me ne pento tutt’ora.

-Park Avenue è vicina- osservai, invidiosa -Beato te, io sono nel quartiere di Chelsea, ci vogliono ore a tornare a casa- non per me, dato che accorciavo il percorso e poi lo allungavo di nuovo per fare prima, ma per qualsiasi altra persona si, quindi non era una bugia.

-Vuoi venire questo pomeriggio?- mi propose, tenendosi la mano sinistra chiusa nell’altro palmo per evitare che STAR si mettesse in mezzo.

Il mio sorriso si allargò.

-Con piacere- gli risposi.

Entrambi sembrammo renderci conto di quello che avevamo fatto troppo tardi, così Joseph aggiunse, con un’occhiata sospettosa.

-Così magari continuiamo ciò che abbiamo lasciato in sospeso- 

Il mio sorriso caldo si trasformò presto in un sorrisino di sfida.

-Con grande piacere- aggiunsi.

Ma in cosa mi ero cacciata?!

La campanella suonò prima che potessi ripensarci, e un po’ titubante, iniziando a pentirmi della mia scelta, mi diressi con Joseph sull’autobus che ci avrebbe portati entrambi a casa sua.

Lui si sedette su un posto vicino al finestrino, e io mi misi accanto.

Evitò accuratamente il mio sguardo, mentre la sua MANO batteva furiosamente sulla gamba.

Per rispetto decisi di non immischiarmi, anche perché non ne potevo più di decifrare codici morse.

Così decisi semplicemente di leggere un po’, e presi A Dance with Dragons, di George R.R. Martin.

Per tutto il viaggio, che durò una ventina di minuti, non parlammo, e sembrò che Joseph non mi degnasse di un singolo sguardo, anche se poi mi dovetti ricredere.

-Quindi leggi libri fantasy?- mi chiese infatti, quando scendemmo, prendendo le chiavi di casa, e con una certa nota di delusione.

Credeva forse che leggessi solo grandi classici e libri tosti?

-Leggo tutto- risposi semplicemente, poi ci ripensai un attimo.

-Era il mio turno per fare una domanda, immagino che tu me ne debba due adesso- gli sorrisi, vincente.

Lui strinse i denti.

-Era solo una curiosità- borbottò, mentre entravamo nel palazzo.

La sua irritazione mi fece capire che non era abituato ad essere fregato, e se da una parte mi sentii in colpa, dall’altra anche molto potente.

E di solito non è conveniente per gli altri farmi sentire così, l’ho imparato a spese di molta gente per bene, e ancora più gente crudele.

Joseph salutò il portiere e si apprestò a salire.

Io attivai un attimo gli occhiali per vedere il ruolo del portiere nella storia, e fui sorpresa di trovarci la parola “secondario” invece del classico “comparsa” tipico delle persone come lui.

Lo salutai con un sorriso e un cenno affermativo del capo che lui non colse e poi seguii Joseph.

Non appena arrivammo all’appartamento, ci fu una simpatica scenetta.

Infatti venimmo accolti da un disordine abissale, causato dalla sorella quindicenne di Joseph, che stava cercando qualcosa in valigia, buttando tutti i panni all’aria.

-Julie!- esclamò Joseph, infuriato, le mani chiuse in pugni.

-Ah, sei tornato. Diamine, speravo che saltando le ultime due ore di lezioni sarei riuscita ad andarmene di qui prima che tu tornassi. Ah, beh, la prossima volta salterò anche il pranzo- commentò Julie, con un sorriso di sfida, gettando la maglietta che aveva in mano dritta in faccia a Joseph, che però, non si sa come, la schivò… no, non la schivò.

Persino io rimasi a bocca aperta, ma non l’aveva senz’altro schivata, l’aveva spostata con un gesto seccato della mano, senza neanche accorgersene, troppo arrabbiato con la bionda davanti a lui.

-Tu non esci finché non metti tutto in ordine!- si pose davanti alla porta, dimenticandosi di me, che osservavo la scena tentando di non ridere.

-Trovato, me ne vado subito e ti lascio con la tua amichetta, che sinceramente credo sia ritardata se è uscita con uno come te- Julie tirò fuori un coltellino multiuso dalla valigia e si avvicinò al fratello per uscire, lanciandomi un’occhiata di scherno.

Io, ovviamente, ormai mi conoscete, le sorrisi.

Joseph voleva sicuramente ribattere irato (e imbarazzato), ma io parlai per prima, schierandomi, con somma sorpresa di tutti, dalla parte della ragazza.

O almeno così sembrò di primo impatto.

-Su, falla passare. Sono certa che metterà in ordine quando tornerà e soprattutto non è tua figlia. Lasciale un po’ di respiro- non tentai di mettermi contro Joseph, ma parlai con voce calma e rilassata.

-Confermo, è ritardata forte!- commentò solo Julie, cercando di spostare suo fratello, che mi guardava seccato.

-Le persone che giudicano con superficialità gli altri di solito sono quelle più insicure. Volevo solo assicurarmi che tuo fratello non intaccasse maggiormente la tua precaria sicurezza, che, a giudicare dal cappello che porti per nascondere il volto e gli abiti neri usati da chi vuole passare inosservato, rasa davvero il fondo. Senza contare la cleptomania, chiaro sintomo di persone chiuse in se stesse che vorrebbero attirare l’attenzione. Però non preoccuparti, io sono dalla tua parte, non temere- avete appena assistito a una tecnica da me inventata per confondere l’avversario, umiliarlo e allo stesso tempo tentare di aiutarlo. Piano con gli applausi.

Entrambi i fratelli mi guardarono a bocca aperta, senza sapere bene cosa dire.

Julie fu la prima a riprendersi. Mi lanciò un’occhiataccia, le guance rosse per l’umiliazione, spostò il fratello con una spallata che probabilmente gli lasciò un livido e uscì sbattendo la porta.

Joseph continuò a guardarmi per qualche secondo, ed io gli sorrisi, innocente, come se non sapessi il perché di quello stupore.

-Che cosa sei?- mi chiese, in un sussurro.

-Una ragazza speciale… e siamo a tre domande. Stai attento, hai un grande debito nei miei confronti. Allora, Joseph, iniziamo il progetto?- chiesi io, indicando il corridoio che conduceva oltre il portico.

E in quel momento, mentre io lo guardavo soddisfatta e lui ricambiava il mio sguardo, fece una cosa che ancora non aveva mai fatto… sorrise, un vero, autentico sorriso, che credo ricorderò per sempre nella sua semplicità.

Perché io conoscevo i tipi come Joseph, ed erano persone che raramente si lasciavano andare a veri sorrisi, soprattutto d’ammirazione, come quello.

Poi però, mi sorprese un sacco, perché non ci mise troppo a riprendersi.

-Si, iniziamo il progetto. Ora sono in debito di due- rispose, e fu il mio turno di sorridergli, anche se con una leggera nota seccata.

Non ero minimamente abituata ad essere fregata in questo modo.

 

Da qui in poi vi giuro, non ho idea di come sono finita dove sono finita, soprattutto perché sapevo che potevo fare qualcosa per evitarlo.

Se fino ad allora avevo tastato l’ambiente per vedere come comportarmi e conoscerlo meglio, da lì in poi qualcosa cambiò, ed io non riuscii a smettere di parlare a Joseph, di incontrarlo per i corridoi, accettare i suoi inviti, fargli domande e rispondere.

Un gioco all’apparenza così banale, così semplice, eppure pieno di segreti, e di scaltrezza.

Io vorrei tanto non essermi immischiata, perché non so se i bei ricordi dell’esperienza ripaghino tutte le altre sofferenze che essa ha causato.

Però, in un certo senso, è bello riviverla, anche se le memorie allegre rendono nostalgici.

 

   
 
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