III.
Dreaming is a form of
planning
Madeline
sedeva a terra, le gambe incrociate e il busto chinato in avanti. Il collo
piegato dolorosamente, strizzava gli occhi, concentrata.
Tra
le dita, i gambi di rose si incurvavano docilmente, lasciandosi intrecciare
senza troppa difficoltà. Le spine si conficcavano nella carne come sottilissimi
spilli, ma Madeline non provava alcun dolore. Inalava profondamente l’odore
pungente dei fiori, lasciandosene inebriare.
“Perché
le rose, Alice?”
“Come
“perché”? Non sono il tuo fiore preferito?”
Madeline
arrossì in risposta, levando lo sguardo su quello limpido di Alice per poi
riportarlo sul bocciolo intrappolato tra pollice e indice, i petali ancora
stropicciati. “Nei tempi antichi si credeva che fosse nata dal sangue mortale e
lacrime di dea [1],” spiegò anche se si sentiva sciocca a confidarle
ad alta voce pensieri che Alice conosceva già.
“È
il simbolo dell’amore che trionfa sulle avversità, ma della Vergine, di Gesù
Cristo e dei martiri.”
Ricordava
vividamente il discorso di commiato del reverendo Plumptre [2] alle
Regine uscenti – più di qualcuna con le lacrime agli occhi, e Madeline non
aveva fatto eccezione. Nella vecchia aula tirata a lucido, aveva lasciato che
le lacrime le rotolassero sul viso liberamente e tirato su col naso senza un
briciolo di decenza.
Il
preside le aveva rimproverate bonariamente – Madeline rammentava lo sguardo
gentile negli occhi appesantiti da sopracciglia folte – augurando loro di
crescere forti come la rosa d’Inghilterra. “Ci hanno tirato su per essere rose
inglesi [3] ma il massimo a cui posso aspirare, temo, è quella di
Natale [4].”
Alice
allungò una mano per sfiorarle il volto in una amorosa carezza.
“Ti
sottovaluti, Maddie, come in ogni altra cosa. Di fronte a me vedo una giovane
donna bella e intelligente – non certo una timida gramigna di campagna.”
Raccolse dalle sue mani la rosa, portandosela al naso grazioso. “E se anche fosse?” concluse, strofinando il
bocciolo sulle labbra incurvate di Madeline, “Ciascun fiore ha i suoi pregi.”
Nella nebbia mattutina
una sagoma si muoveva lentamente, trascinandosi lungo la schiena arcuata del
ponte in pietra di Portland. I lampioni spenti gettavano ombre lunghe sulla
pavimentazione di un grigio pallido, mentre la figura, un passo dopo l’altro,
si faceva più vicina al parapetto, leggermente ingobbita – come gravata da un
peso.
Madeline la vide
arrestarsi, i nastri del cappellino nero che ondeggiavano nel vento gravido.
Nella destra guantata di rosso stringeva i manici rigidi di una borsa Gladstone
[5] di pelle invecchiata, non dissimile da quella che zia Martha
usava portarsi dietro nei suoi brevi soggiorni londinesi a casa di amici. La
dragona [6] che la fermava era tesa, quasi il contenuto premesse per
evadere dai suoi confini.
Con uno sforzo evidente,
la giovane donna – perché di una giovane si trattava, la gonna dell’abito che
si apriva ampia sulla vita sottile, gonfiandosi attorno agli stivaletti lucidi
– si sporse appena col busto oltre il parapetto, riuscendo a sollevare la borsa
e tenendola sospesa per lunghi attimi sulle acque limacciose del Tamigi, di un
verde nerastro, che scorrevano chetamente sotto di loro.
La borsa ne perforò la
superficie con un tonfo sordo, un rumore liquido che riecheggiò nelle orecchie
sensibili di Madeline, mentre lo sguardo le scivolava sulle dita della ragazza,
abbandonate sul corrimano.
Si rese conto allora di
essere caduta in errore: non era un guanto di seta quello che aderiva alle dita
lunghe e affusolate, ma un sottile, lucido strato di sangue non ancora rappreso.
Madeline
spalancò gli occhi con tanto impeto da farseli dolere: dalla stufa emanava un
bagliore aranciato che l’accecò per qualche momento, costringendola a battere
le palpebre una, due, tre volte.
Il
freddo della parete penetrava oltre il tessuto dell’abito da tè, gelandole la
schiena quanto il fuoco le accaldava le guance, facendola sudare sotto le
ascelle e tra i seni.
Inspirò
profondamente, impiegando qualche attimo per comprendere dove si trovasse.
Riconobbe la stanza quando mise a fuoco la grossa credenza di legno addossata
al muro, i piatti di porcellana impilati ordinatamente sulla mensola e gli
ingombranti barattoli di conserva ben etichettati uno affianco all’altro sul
piano in acero. Non ricordava di essere scesa in cucina – rammentava i richiami
di Kate, che, chissà per quale ragione, aveva insistito affinché scendesse dal
letto e la raggiungesse dabbasso.
Si
stropicciò la pelle sottile sopra gli zigomi, avvertendola gonfia di sonno,
guardandosi attorno alla ricerca della cameriera – la sentiva intonare una
canzonaccia, forse da qualche parte nel retrocucina.
Di
malavoglia, si sollevò dalla sedia di legno, staccando la schiena dal candido
muro nudo a mattoncini.
Sul
tavolo al centro della piccola stanza era posato il vassoio per il tè, dove la
teiera fumava placida in compagnia delle tazzine ordinatamente disposte l’una
accanto all’altra, due soldatini che imbracciavano i cucchiai di porcellana
come fucili, scortati dalla zuccheriera e dai piattini per i bignè.
Mrs.
Barlow doveva essere arrivata per le solite chiacchiere del venerdì: Madeline
era certa se avesse mosso qualche passo nel corridoio e teso l’orecchio,
avrebbe colto la sua vocetta petulante in preda alla solita, irritante risatina
– o peggio, i lamenti sussurrati sul futuro di zitellaggio che il buon Dio
aveva in serbo per lei.
Alice
aveva ragione su quella matrona perdigiorno: non aveva altro da fare, ora che
il figlio s’era sposato, se non venire a mettere pulci nell’orecchio di zia
Martha. Come doveva godere, come doveva sentirsi superiore alla sua amica, ora che quella perla di
giovanotto aveva messo l’anello al dito della piccola Houghton.
Uno
sbuffo lieve le sfuggì dalle labbra; cercò con gli occhi la finestra, trovando
con lo sguardo il profilo dolce della collina rinverdita dalla primavera.
Il
suo compleanno si avvicinava – il loro
compleanno – e la vivacità di Alice, che era tutta un fremito all’idea, aveva
finito per contagiare un poco anche lei: con la mente già lontana ai loro
progetti per quella fatidica notte, Madeline si accorse a malapena di non
essere più sola.
Il
respiro trafelato di Kate, con le guance arrossate per la fatica e il caldo del
retrocucina [7], la spinse a voltarsi di scatto, nascondendo le mani
dietro la schiena.
“Miss
Maddie!” La cameriera le regalò un’occhiata perplessa. “Che fate qui in cucina?
Vi serviva qualche cosa?”
Confusa,
Madeline aggrottò la fronte, mentre l’altra si srotolava le maniche sollevate
fino ai gomiti, senza curarsi di abbottonare i polsini troppo stretti.
Non
era forse stata lei a chiamarla di sotto?
La
domanda che le prudeva sulle labbra rimase incastrata in gola, mentre un senso
di vergogna le stringeva lo stomaco sotto il vestito. In fede sua, nonostante
se lo ricordasse chiaramente, non era così sicura di poter fare reale
affidamento sulla propria memoria.
A
dirla tutta, non sarebbe stata la prima volta che si fosse ritrovata in una
delle stanze della casa senza apparente motivo, quasi il suo corpo avesse una
propria volontà e si divertisse a ingannarla.
Ma
no, non stava diventando pazza. Strinse gli occhi osservando la cameriera,
studiando la sua reazione stolida alla propria presenza. A volte era certa che
Kate e la zia si prendessero gioco delle ritrovate energie che la compagnia di
Alice le aveva riguadagnato, assieme alla voglia di scendere dal letto,
chiamandola da un lato all’altro della casa come una palla impazzita.
Le
giornate erano sempre troppo lunghe, ma poteva spenderle tratteggiando su carta
il bel volto di Alice, o muovendo agilmente le dita sui tasti del pianoforte,
nella speranza che il suono le arrivasse oltre lo specchio.
Forse,
vedendola così rinvigorita, quelle due avevano deciso di testarla, come si
mette alla prova un bambino che affermi di esser malato per saltare la scuola.
Si accorse di aver posato lo sguardo sulle tende a scacchi alla finestra.
Riportò l’attenzione su Kate.
“Nulla,
Kate,” fece dunque, cauta. “Avevo un languore e sono scesa per sgranchire le
ossa,” continuò, prevenendo la domanda sul perché non avesse semplicemente
suonato il campanello. “Mrs. Barlow è arrivata?”
“Ah
sì, Miss Maddie, devo portare il tè. Se avete pazienza, tra qualche minuto
torno e vi taglio una fetta di crostata. L’ho fatta con l’ultimo barattolo di
conserva, sentirete che bendidio.”
Il
tono era allegro, ma a Madeline non sfuggì la nota forzata dietro quel
cinguettio ostinatamente gioioso. Annuì brevemente, mentre la cameriera si affrettava
a prendere il vassoio tra le braccia, attenta a tenere in equilibrio le
delicate porcellane, e si dirigeva fuori dalla cucina, imboccando il corridoio
già illuminato dai lucernari a gas.
Madeline
la seguì acquattata come un gatto.
Non
una risatina tagliente, non un brusio eccitato dal pettegolezzo le giunse alle
orecchie mentre si faceva vicina al salotto da disegno, abbastanza da sbirciare
all’interno quando Kate fu sparita oltre la soglia. Madeline si concesse
un’occhiata veloce.
Le
due amiche tenevano vicine le teste: i riverberi del candelabro che faceva luce
nella stanza colpivano quella grigia e incuffiata di Mrs. Barlow e quella rossa
della zia, sospese sopra il tavolo basso dove facevano mostra delicati piattini
di biscotti e canditi, e sottili fette di pane imburrato rimaste intoccate.
Persino il cioccolato che la zia tanto favoriva giaceva abbandonato, senza
un’occhiata dalla zia Martha, evidentemente troppo occupata a confabulare.
Kate
si chinò a versare il tè, ma le due non parvero badarle: parlavano fitto, e
Madeline sentì pronunciare il suo nome in un sussurro cospiratorio.
Parlano di noi alle
nostre spalle.
La
voce di Alice sembrava venire da qualche parte nella testa, bisbigliandole
all’orecchio.
Odo ciò che tu non
cogli, testarda ragazza. Quante volte devo ripetertelo ancora? Non possiamo
fidarci di loro.
Dicono che siamo strane,
anormali. Che abbiamo la faccia di un morto, che per giorni digiuniamo e poi ci
ingozziamo di cibo come pozzi senza fondo; che passiamo da una stanza all’altra
silenziose e spiritate, simili a fantasmi; che nel sonno scendiamo dal letto e
passeggiamo in preda al delirio.
Lunghi
brividi le percorrevano la schiena, arricciandole la pelle sotto la seta.
Madeline strinse le mani l’una nell’altra fino a ficcarsi le unghie corte nella
carne, marchiandola di dieci mezzelune violacee e perfette.
La Barlow le sta
consigliando il dottore che possa aprirti il cranio e guardarci dentro.
“Alice,
non può essere possibile. Non ci posso credere.”
Madeline
teneva nelle proprie le mani della gemella, rigide e ghiacce.
Come
l’acqua e l’olio, la luce del sole morente fuori dalla finestra non riusciva a
mescolarsi con quella ultraterrena che accompagnava le visite di Alice da oltre
lo specchio. La sua candida brillantezza feriva le iridi di Madeline, facendole
pulsare la testa.
Mrs.
Barlow non se n’era andata da molto e aveva poco tempo prima di scendere per la
cena. Il profumo di pesce si insinuava dalla fessura tra il pavimento e la
porta serrata, ma lo stomaco di Madeline era stretto nel guanto di ferro della
preoccupazione.
“È
certamente così. La zia Martha è sempre stata tanto cara con noi, ci ha sempre
voluto bene. Tuttavia, non ci comprende, Maddie. Solo noi riusciamo a capire il
legame che ci unisce, quanto indissolubile esso sia.”
Gli
occhi di Alice erano asciutti ma liquidi. Pareva stesse per scoppiare in
lacrime.
“Ci
vogliono separare.”
Madeline
si liberò, voltandole la schiena. Il dubbio le martellava la fronte e le tempie
dall’interno del cranio e lei scrollò il capo nel tentativo di cacciarlo via.
Incrociò le braccia sul petto, stringendosi nella camicia da notte.
“Vai
via, Alice.”
Un
silenzio gravido seguì a queste parole, pronunciate con una voce tanto gelida
che a fatica Madeline la riconobbe propria. Ai suoi piedi, le rose presero a
ritirarsi in un fruscio serpentino, i tralci che si scansavano come di fronte a
una bestia feroce che non desideravano eccitare.
Il
fiato le grattava in gola mentre combatteva i singhiozzi.
“Vattene
via!”
Questa
volta non un mormorio, ma un urlo, di cui si pentì l’attimo stesso in cui
sfuggì dalla prigione delle labbra. Ruotò su se stessa, un braccio teso verso
la gemella, ma solo la specchiera ricambiava stolida il suo sguardo.
Desolata
da quella vista, Madeline emise un gemito profondo come provenisse dal profondo
di sé.
Madeline
avvertiva il peso dello sguardo di Kate gravarle sulle spalle.
La
cameriera stava ritta dietro la sua schiena – era certa che la stesse fissando
con quei suoi occhi di cagna. Maledetta lei che si era lasciata sorprendere e
maledetto il tremendo tempismo della cameriera. Furtiva, strofinò un occhio
arrossato, mentre la lingua di zia Martha riempiva il silenzio del salotto,
coprendo l’ululato del vento.
“…
ci potresti credere, mia cara? Piccola ingrata di una Barlow, sono certa che
neanche mi avrebbe detto che sarebbe partita… Madeline, tesoro, che succede
ora?”
L’impazienza
nel suo tono costrinse Madeline a raddrizzare le spalle e a stiracchiare un
sorriso.
Se
in passato la sua esistenza non era stata altro che un’altalena di giornate
buone e cattive, avrebbe sacrificato una mano per tornare a quella vita, quando
Alice non esisteva e la specchiera non stava a guardarla agitarsi nel letto
senza risposte né consolazione.
Il
dolore abissale che la tormentava avrebbe potuto prevederlo; la collera che le
bolliva dentro – un’ira cieca contro il mondo – per nulla.
“Cerca
di stare su, figliola: è pur sempre la tua festa, santo Cielo.”
Vent’anni, priva di prospettive e
irrimediabilmente zitella: Madeline non capiva proprio cosa ci fosse da stare
allegri.
“Vi
ringrazio, zia, ma non vedo per quale motivo dovrei esserne contenta.”
Si
alzò in piedi di scatto, con un’energia che non credeva di possedere, facendo
cozzare una forchetta d’argento contro il piatto semipieno. “Sono certa che
pensiate di fare il mio bene, spronandomi a questo modo, ma vi assicuro che non
mi aiutate!”
Si
drizzò con impeto, una mano che si abbatteva sul cristallo del bicchiere
mandandolo in frantumi sul tavolo apparecchiato con la tovaglia buona.
La
zia la fissava come se le fosse spuntata un’altra testa.
“Sono
stanca di essere pungolata continuamente a fare meglio, a fare di più, a
scendere dal letto. Lasciatemi vivere in pace!” urlò, mentre un controcanto di
singulti isterici le faceva tremare la gola.
Raccolse
le gonne, incespicando sulla gamba della sedia che fece rovinare a terra, e
corse di sopra, gli ammonimenti di Alice che riecheggiavano nella mente come un
rombo di tuono lontano.
Quando
la zia richiese la sua presenza in salotto, Madeline scese senza una protesta,
pure se la collera che era esplosa a tavola ancora le ribolliva dentro,
facendole stringere i pugni chiusi, la pelle che tirava sulle nocche.
Zia
Martha la osservava grave, accomodata sulla poltrona dietro la scrivania. Un
raggio di sole le cadeva sulla fronte, esaltando le pieghe di preoccupazione
che la solcavano.
“Non
sarei voluta arrivare a questo, Madeline,” principiò solenne. “Tuttavia, vedo
che tu mi costringi. Ho preso appuntamento con un professore, a Londra – uno
che si occupa dei mali della testa.”
Nella
tiepida luce di metà marzo, Madeline prese a tremare.
NOTE
[1]: Si
riferisce alla leggenda della morte di Adone, giovane principe frigio pianto
dalla sua innamorata Afrodite.
[2]: Edward
Hayes Plumptre era un famoso reverendo e professore del tempo, realmente
preside del Queen’s College fino al 1879.
[3]: La rosa
è il simbolo dell’Inghilterra ma indica anche la pelle chiara tipica del paese.
[4]:
L’elleboro, pianta ornamentale dal fiore a cinque petali, estremamente
velenoso.
[5]:
L’antenata della valigia, una borsa larga generalmente in pelle.
[6]: Cordino
in tessuto intrecciato.
[7]: Locale
in cui, nella casa vittoriana, veniva fatto il bucato e lavati i piatti.