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Autore: Sheep01    15/02/2016    2 recensioni
“Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, prima o poi.”
Clint si trovò ad osservarlo ancora una volta con stupore. Non era da Coulson parlare a quella maniera, non usare quel tono afflitto, sconfitto.
“Avete ingaggiato i migliori, Phil… il governo non arriverà certo prima di noi.”
“Magari non questa volta. Ma la prossima volta che succederà? Quando riusciranno a dimostrare quanto siamo superflui, smetteranno di affidarci qualsiasi tipo di lavoro.”
“Ma che stai dicendo?”
“Sto dicendo che dovremo cominciare a vedere come atterrare senza uno schianto, Barton.”
---
New York, la sua periferia, pioggia sporca che porta afflizione e la tecnologia che lentamente sta prendendo il posto della manodopera umana. Uno scenario dal sapore futuristico. Un'organizzazione da salvare. Pochi superstiti su cui fare affidamento.
Genere: Azione, Dark, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Sorpresa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 17

 

“La verità non esiste e la vita come la immaginiamo di solito è una rete arbitraria e artificiale di illusioni da cui ci lasciamo circondare.

(H.P. Lovecraft)

 

*

 

Sei anni. Aveva solo sei anni, la prima volta che aveva avuto a che fare con gli aghi del dottore. Uno di quelli che suo padre chiamava segaossa. O qualcosa di altrettanto grottesco.

Riusciva a malapena a sentire quello che gli stava dicendo. La sua espressione era comprensiva, docile, gli faceva delle domande alle quali… Clint non aveva alcuna intenzione di rispondere.

Il suo sguardo seguiva distrattamente il lenzuolo del lettino su cui lo avevano messo a sedere, apparentemente più rammaricato di averlo sporcato di sangue di quanto percepisse il dolore diffuso alla testa, alla tempia.

I suoni gli arrivavano ovattati, adesso. Non era riuscito a percepire alcun suono per tutta la durata della corsa dalla fattoria Barton, al pronto soccorso.

Il bambino è caduto.

Ha picchiato la testa.

Perde sangue.

No, non aveva sentito sua madre pronunciare quelle parole, ma avrebbe potuto tirare a indovinare. Era la solita scusa che propinava a qualsiasi dottore della zona, quando il gigantesco signor Barton faceva calare le sue pesanti mani sui suoi figli.

Ogni santa volta Clint si chiedeva cosa avesse fatto di male. Perché era ovvio che suo padre… lo stesse punendo per qualcosa. Non si picchia qualcuno se non ha fatto niente di male, no?

Clint era cresciuto con la convinzione di essere una pessima persona.

Perciò sopportava il dolore. O almeno ci provava. Era la sua punizione. Doveva accettarla.

Il sangue e il lenzuolo sporco, invece… gli ricordavano che doveva chiedere scusa.

Ma quel dottore non la smetteva di blaterare.

Le parole si confondevano su un tappeto di suoni afoni e sgradevoli.

Gli puntò lo sguardo addosso solo quando il punto che gli stava mettendo sulla fronte gli fece male. Più male degli altri.

Il dottore lo guardò stupito. E le sue labbra pronunciarono una cosa che non dimenticò mai: “non ho mai visto qualcuno sopportare così bene il dolore come sai fare tu, campione.

Nel suo sguardo c’era sincera ammirazione.

Nessuno lo aveva mai guardato così. Nemmeno suo fratello Barney.

In quel preciso istante decise di far sue quelle parole.

Avrebbe sopportato. Tutto il dolore del mondo. E forse, un giorno, suo padre lo avrebbe guardato alla stessa maniera.

 

*

 

“Merda, ah merda!” gridò, accasciandosi al suolo. Natasha dovette fermarsi e tornare sui suoi passi per capire che diavolo stesse succedendo.

“Clint.”

La guardò in viso solo per scoprire che la sua voce se l’era solo immaginata. Che il rimbombo delle sirene era ormai divenuto solo un sibilo assordante. Il dolore alla testa così estremo e fulminante che dovette voltarsi dalla parte opposta per vomitare… tutto ciò che non aveva mangiato in almeno dodici ore.

Natasha trattenne una mano sulla sua schiena. Poteva sentirla, calda e rassicurante, ma il dolore non spariva e la cosa più preoccupante era che, per una volta tanto, nemmeno riusciva a sentire il classico odore di circuiti e plastica bruciata a cui ormai era tanto affezionato.

No… solo qualcosa di caldo e pastoso scivolargli giù dalle orecchie. Entrambe le orecchie.

Quando ebbe la forza di riaprire gli occhi, il pavimento sotto di sé era costellato di lacrime scarlatte.

Sangue.

“S-sto bene”, mentì. Sapeva che Natasha non gli avrebbe creduto, ma lo disse come si fa per un riflesso incondizionato. Una di quelle necessità da sopportare. A non essere un peso, per nessuno, mai.

Cercò di rimettersi in piedi solo quando, improvvisamente, il sibilo svanì. E così con quello anche tutti gli altri suoni.

Le labbra di Natasha si muovevano ancora; se l’avesse guardata con più attenzione avrebbe saputo comprendere che cosa gli stava dicendo, ma lo spirito di conservazione e concentrazione che ci stava mettendo per tornare stabile sulle gambe gli impedì di fare due cose contemporaneamente.

“Va bene, sto bene.” Ripeté di nuovo, una mano aggrappata alla parete, l’altra al braccio della donna.

Barney era più importante della sua sordità. A quella ormai ci era abituato. Quello a cui non poteva certo permettersi di abituarsi era veder distrutto quel palazzo da un branco di droidi impazziti… per la seconda volta.

Perciò serrò i denti, cercò di relegare il dolore in un angolo della sua testa, da sempre convinto che potesse vincerlo, alienarlo, e annuì, una volta sicuro di potersi muovere agilmente.

“Muoviamoci.” Disse solo, e Natasha non si fece ripetere la richiesta una seconda volta.

 

*

 

Non era tanto il rumore assordante delle sirene, ma la difficoltà nell'inserire i giusti comandi per il movimento dei droidi. Non era così che li aveva programmati. Non così che ricordava aver apportato le necessarie modifiche.

Alcuni di loro rispondevano bene agli stimoli, altri sembravano non aver alcuna connessione con la sua programmazione. Come se facessero capo a un altro silente burattinaio.

Barney cominciò febbrilmente a sganciare i primi droidi. Un esercito di almeno una cinquantina di modernissime macchine, che a quanto risultava erano rimaste ferme per troppo tempo.

La porta della stanza si spalancò l’istante successivo.

“Mani in alto!”

La voce robotica di uno di quei tubolari di ferraglia. Antichi come le sue ossa.

“E’ troppo tardi, amico.” Sorrise, di un sorriso sghembo, vittorioso, folle.

Il tubolare alzò l’arma per sparare, prima che un’ombra non gli si portasse alle spalle e non gli strappasse letteralmente la ciclopica testa dal corpo.

Barney rimase fermo a osservare la sagoma del nuovo arrivato, incuriosito.

“E tu… chi sei?”

*

 

Natasha cercava di farsi strada fra i corridoi, sforzandosi di recuperare in corner le deviazioni di Clint, che a quanto pareva non riusciva più a capire un accidenti di niente.

I rudimenti del linguaggio dei segni che lui stesso aveva provveduto ad insegnarle le erano totalmente inutili, occupati come erano a raggiungere la stanza del comando centrale.

Lo prese per la collottola appena in tempo, quando il rumore di almeno una decina di gambe robotiche passò un po’ troppo vicino a loro.

“Fermi!” una voce imperiosa, ma meccanica, dall’altra parte del corridoio.

Un boato strappò l’atmosfera come un tuono e una scia di fuoco passò loro accanto, appena in tempo per andare ad abbattersi su un gruppo di tubolari robotici di vecchia generazione.

Natasha si ritrasse e spronò Clint – a cui non aveva permesso di vedere niente – a prendere un’altra direzione.

“C-che cazzo sta succedendo?” lo sentì pronunciare.

Avrebbe voluto dirgli che probabilmente Barney aveva già dato il via alle operazioni. Ma era certa che la spiegazione gli sarebbe diventata evidente non appena fossero riusciti ad arrivare alla maledetta stanza.

La cosa che la preoccupava più di qualsiasi altra, era non essere in grado di invertire il processo.

Perché nell’attimo esatto in cui si erano introdotti nella torre, Natasha sapeva bene quale sarebbe stato il suo compito.

E permettere a Barney di accedere ai dati, suo malgrado, faceva parte del piano che tanto si era premurata di tener segreto, persino a Clint.

Inserirsi nel computer centrale e recuperare tutti i file necessari a scagionare Stark, a portare acqua alla causa dei vigilanti, dei ribelli. Quelli, più i file dei progetti conservati nella testa di Clint, sarebbero stati le prove schiaccianti della loro innocenza, del coinvolgimento della Robotics Inc. in un complotto ben più massiccio e ramificato di quanto lo stesso governo degli Stati Uniti d’America avrebbe mai potuto immaginare.

Tutto cominciava da lì. Tutto sarebbe terminato lì.

“Di qua!” esclamò, più per istinto che per la certezza che l’uomo l’avesse sentita.

Scivolarono come ombre da un ufficio all’altro, da un piano all’altro. Mentre il rumore delle esplosioni, tutt’intorno, andavano a coprire quello dell’allarme che non aveva smesso un solo istante di suonare.

Fu sollevata dal fatto che Clint non potesse sentirlo. Che non potesse lasciarsi coinvolgere dal remake di quell’incubo che aveva cancellato per tre interi anni.

Aveva fiducia in lui, certo, ma sapere di non doversi preoccupare anche del suo stato mentale, le permetteva di muoversi con più facilità.

Aprì una delle porte tagliafuoco che davano sul piano inferiore. Di nuovo scalpiccio di passi. E poi un’esplosione che deflagrò solo a qualche metro di distanza.

Sentì la mano di Clint afferrarle la spalla, le dita artigliate a lei, e due occhi grandi come monete a farle capire che sì, adesso ce l’aveva una vaga idea di quello che stava succedendo.

“Posso fermarlo, Clint. Posso farlo.” Si preoccupò di scandire, di farsi leggere, così come sapeva che avrebbe compreso.

La mano a stringere la sua e poi a costringerlo a riabbassarla e riprendere a correre, ovunque, il più lontano possibile da lì e più vicino alla stanza dei comandi.

 

*

 

Kate fermò il maggiolone con una frenata tanto poderosa da produrre un vago odore di gomme bruciate.

Una sagoma oscura era precipitata giù dal cielo e l’aveva evitata per un soffio.

Rimase ferma a fissare il fumo che si levava dal cofano della macchina o più in basso, lo sguardo incastrato fra le sbarre metalliche del volante.

Cercò la maniglia della portiera per scendere il più rapidamente possibile.

Era sicura di non averlo investito, era sicura che le fosse finito di fronte senza che potesse fare nulla per evitarlo. Mentre nel suo cervello si affastellavano scuse più o meno plausibili sulla sua buona fede, riconobbe qualche difficoltà a capire che cosa stesse veramente osservando.

Il primo impatto fu l’odore disgustoso di plastica bruciata. Poi, una volta che il fumo si fu diradato, non le ci volle poi molto per capire che quella massa informe che se ne stava adagiata sul cemento non era altri che un grosso robot che doveva aver visto giorni migliori.

Non un essere umano. Un cazzo di robot.

Non riuscì comunque a godersi a lungo il senso di sollievo nell’apprendere di non aver causato nessun danno irreversibile.

“Ma che… ?” seguì con lo sguardo la scia di fumo che aveva portato con sé.

Dietro di lei, l’imponente palazzo della Robotics Inc. fumava dalle finestre come fossero narici di un grosso drago.

Si portò le mani alle labbra, cercando di non gridare quando si rese conto che un numero incerto di grossi droidi volanti stavano planando da una delle finestre rotte per approdare sulla strada.

Allora la segnalazione che aveva captato dal canale radio della polizia era vera.

Era tutto vero.

Si era precipitata fuori casa, cercando inutilmente di contattare quello stupido di Barton o la Romanoff, senza ricevere risposta alcuna.

Attorno al palazzo un assembramento di droidi e macchine della polizia che se ne stavano in disparte, lasciando che i robot facessero tutto il lavoro.

Quelli appena precipitati giù dal palazzo come uno sciame di angeli vendicatori però non sembravano inclini a lasciar fuori dai giochi i poliziotti in carne ed ossa. Grosse bolle di fuoco vennero lanciare su alcune macchine che volarono come cartone dalla parte opposta della strada.

Kate fece appena in tempo a nascondersi dietro alla sua auto per evitare detriti e scintille esplosive.

Quando rialzò la testa, una scia di blu e bianco le passò di fronte e le sembrò di vedere un grosso scudo di metallo abbattere almeno un paio di giganteschi droidi.

“Ma che diavolo… ?”

Il rombo dei motori di un furgone color cenere e lo sfrigolio dei freni.

“Bishop!” trasalì quando si sentì richiamare. Il faccione mezzo abbrustolito di Tony Stark fece capolino dal finestrino del passeggero.

“Stark?”

“Ma che ci fai qui?”

“Il cazzo se lo so!” protestò lei, sottolineando la domanda idiota.

“Bè, come vedi, non è proprio il momento per un’allegra serata di shopping in centro.”

“E me lo dici tu?” esclamò fra il perplesso e lo scioccato. “Ma che cosa sta succedendo?! Sono qui per Clint!”

“Siamo tutti qui per Barton, ragazzina. Muovi il culo e monta sul furgone. Gli saremo più d’aiuto qui dentro che lì fuori.”

“Che v-vuoi dire?” si alzò tentativamente, prima che l’esplosione di altri droidi alle sue spalle non la facesse trasalire.

“Se permetti, te lo spiego dopo. Muoviti!”

Kate non si fece ripetere la richiesta una volta di più. La donna che stava al volante sgommò sulla strada, mentre il paesaggio da guerriglia urbana sfrecciava loro di fianco in un terrificante déjà-vu.

 

*

 

“Barney!” la voce di Clint rimbombò per il locale nonostante il frastuono delle sirene e degli spari.

La stanza era a malapena illuminata dalle luci degli schermi dei terminali e le mille spie dei bottoni in movimento. Ombre sinistre si proiettavano sulle pareti.

Barney Barton sedeva in mezzo alla stanza, le braccia abbandonate lungo i fianchi, l’espressione assente, nonostante il richiamo del fratello. Alle sue spalle, un uomo gli stava puntando una pistola alla nuca.

Natasha fu di fianco all’arciere giusto in tempo per rendersi conto di quello che stava osservando.

“Bucky…” le uscì a malapena dalle labbra, mentre la consapevolezza si faceva strada anche sul viso di Clint.

“Mi chiedevo che fine aveste fatto.” La voce asmatica dell’uomo che stranamente non indossava il suo respiratore – abbandonato in un punto lontano della stanza, come se vi fosse stato scagliato –, la postura rigida, tesa.

Natasha comprese immediatamente che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa di ostile gli illuminava lo sguardo. Ebbe l’improvvisa e fastidiosa sensazione che Bucky non fosse lì per aiutarli.

“Che ci fai qui? Dove sono gli altri?” decise di tergiversare, di prendere tempo per analizzare la situazione e tutte le sue variabili.

“Il Capitano si sta occupando dei droidi là fuori. Lui e tutta la squadra di vigilanti”, le sue labbra presero una piega strana, “Dovreste uscire a dare loro una mano. Ho la situazione sotto controllo.”

“Sotto controllo? Barney ha già attivato il processo distruttivo. Sei in grado di fermarlo? Posso pensarci io se…”

“Io invece credo che dovreste allontanarvi.”

Una cosa su Bucky Barnes, in tre anni di frequentazione, l’aveva capita: non era in grado di mentire. Né di nascondere le proprie emozioni. Lo aveva sempre considerato un cane sciolto. Pronto a difendere il suo capitano a costo della vita, a eliminare ogni ostacolo alla sua causa. Il fatto che ora stesse nascondendo qualcosa era talmente evidente che non le ci volle molto a capire che la sua inflessione suonava come una minaccia bella e buona. Nello sforzo di mantenere la calma il lucido braccio di metallo fremeva in trepidazione.

Clint al suo fianco si mosse appena. Non era sicura che stesse comprendendo ciò che stava succedendo, ma tutto in lui le dava l’impressione avesse capito che qualcosa non quadrasse in quello scenario atipico.

Le bastò un’occhiata per sapere che Clint aveva intenzione di agire. Decisamente in modo più rapido di quello in cui lei avrebbe saputo portare avanti trattative diplomatiche.

Per questo sollevò la pistola e la puntò direttamente sull’uomo. Che le era stato amico. Che ora sembrava aver deciso di intraprendere una variazione di percorso decisamente contro ogni buon senso.

“Metti giù la pistola Bucky. E allontanati da lì.”

Clint al suo fianco aveva messo mano ad arco e frecce, ad assecondare il prurito che lo aveva colto da quando aveva varcato la soglia della stanza dei bottoni. Ma era ancora frastornato. Debilitato. Lo sguardo vacillava così come la presa sul suo arco.

“Sennò cosa fai? Mi spari?”

“Potrei farlo.”

“Non costringermi ad uccidere questo tizio una seconda volta.”

“Che diavolo significa?” esalò Clint confuso e arrabbiato. Probabilmente indeciso se essere indignato per la piega degli eventi o solo smanioso di mettere le mani sul fratello perduto.

Natasha sapeva che non potevano permettersi nessun passo falso. Né permettere a Clint, ancora una volta, di farsi vincere dall’emozione. Si sentì improvvisamente come il perno d’equilibrio dell’intera situazione. Non era sicura di essere all’altezza del compito.

Però decise di esporsi in prima persona. Fece un passo in direzione di Bucky che improvvisamente esitò se puntare la pistola verso di lei o Barney che continuava a fissare il pavimento con sguardo vacuo. Si rese conto con un po’ di ritardo che lo zigomo gli sanguinava, che il labbro gli sanguinava. Una traccia cremisi ai suoi piedi.

Una colluttazione.

“Bucky… qualsiasi cosa tu abbia in mente… per favore… lasciami invertire il processo di distruzione. Di recuperare tutti i dati dal computer centrale. E’ l’unica cosa che–”

“Non c’è più niente da recuperare. Non lo hai ancora capito che è proprio quello che… sto cercando di impedirti di fare?”

Natasha gli lanciò uno sguardo confuso: “Perché? Non è quello per cui ci siamo battuti in questi tre anni? L’obiettivo che Steve e Peggy –”

“Steve e Peggy non hanno valutato tutti i pro e i contro di questa faccenda!” la zittì per l’ennesima volta, parlandole sopra.

“Ma di che stai parlando? Quali contro?”

“Non credevo fossi così stupida. O peggio, forse… forse…” si fermò per recuperare fiato, “forse sei solo un’idealista. Credevo tu ed io fossimo… f-fossimo molto più simili di così.”

Di nuovo lo guardò confusa, ma si decise a tener duro. A lasciarlo parlare. Le forze non lo avrebbero sorretto ancora per molto. Non senza il suo stupido respiratore.

“Non lo capisci che una volta portata a galla… la verità sull’Hydra… verranno anche a conoscenza del progetto Lazarus?”

Le parole di Bucky la colpirono come uno schiaffo in pieno viso. Il progetto Lazarus. Il progetto Lazarus era ormai morto e sepolto. Tutto quello che ne restava era solo nei database segreti di Tony Stark. Non era forse così… ? Non lo era?

“E lo sai anche tu che cosa significherebbe rendere il mondo partecipe… d-del progetto. Steve… tu… ed io… di nuovo cavie. Cavie da laboratorio. H-hai solo una mezza idea di come potrebbero decidere di sfruttare la cosa? E se… e se nel migliore dei casi dovessero decidere di lasciarci liberi… liberi di vivere le nostre vite… saremo mai… d-davvero al sicuro da chi… il progetto Lazarus non lo ha mai abbandonato? Ci hai mai pensato Natasha? Ci hai mai pensato… che i tuoi carnefici… potrebbero essere ancora là fuori… da… da qualche parte… e ti stiano… ti stiano cercando?”

Una serie di pensieri sepolti cominciarono a scavare per tornare a galla. E con loro la paura. Che prese a serpeggiarle nello stomaco con le sue spire velenose.

Il progetto Lazarus. Nessuno era più tornato a cercarla dopo l’ultima resurrezione. Erano passati più di dieci anni. Era pulita. Si erano dimenticati tutti… del progetto Lazarus.

Riportare a galla i file più segreti dell’Hydra... questo non avrebbe dovuto significare niente. Se avessero voluta trovarla lo avrebbero già fatto.

Non era forse così?

Lo osservò a lungo o così le parve. Volle convincersi che Bucky le stesse dicendo quelle cose solo per convincerla a stare dalla sua parte. A manipolarla. Eppure il dubbio. Quello stupido dubbio…

“Stanno uccidendo delle persone là fuori!” si sentì gridare, la rabbia che vinceva sul dubbio, la deflagrazione finale di tutta la sua frustrazione. “Hai intenzione di sacrificare tutta quella gente solo per tenere al sicuro uno stupido progetto? Tu sei meglio di così, Bucky! Per quale motivo avresti lavorato per tutti questi anni, costretto a vivere nelle fogne?”

Ma nel momento in cui pronunciava quella domanda, sapeva già di essersi data una risposta.

La chiave di tutto era Steve. Era sempre stato Steve. Guardia fedele, amico e compagno. Di tutte le cose che Bucky si era preoccupato di tenere al sicuro… Capitan America era sempre stato in cima ad ogni sua lista. Non gli era mai importato niente delle persone là fuori. Dei progetti, dell’Hydra. Della causa dei ribelli. Non gli era mai importato nient'altro.

A discapito delle sue convinzioni che fossero solo delle stupide macchine… la devozione per Steve aveva raggiunto dei livelli di ossessione talmente umana da fare quasi male al pensiero.

“Moriranno presto delle persone anche qui dentro”, e nel dirlo sembrò intenzionato a liberare il proiettile dritto nella testa di Barney Barton. Tenuto in vita, fino a quel momento, forse solo per avere una chance nel caso tutto fosse andato storto.

Il rumore della corda dell’arco di Clint Barton però arrivò prima della deflagrazione. La mano di Bucky fu passata da parte a parte dal dardo, ma la pistola, invece di cadere a terra, fu passata alla mano di metallo.

Natasha scattò in avanti, ma lo sparo arrivò prima che potesse anche solo rendersi conto della velocità con cui aveva preso a muoversi l’universo attorno a loro.

Un solo lamento alle sue spalle, la testa di Clint che frustava all’indietro e la reazione arrivò rapida e istantanea. Natasha sollevò una mano e scaricò uno due, tre colpi in direzione di Bucky che assorbì i proiettili così come avrebbe potuto fare un giubbotto in kevlar, ma finì in ginocchio, forse troppo debilitato per potersi permettere più di così.

Natasha si voltò giusto il tempo di rendersi conto che Clint era riverso al suolo, mentre una pozza di sangue rosso si stava allargando sotto di lui.

Gli scivolò di fianco, ricadendo sulle ginocchia.

“Clint… Clint!” esclamò cercando di capire da che parte fosse stato colpito. La testa, i capelli, completamente incrostati di sangue vecchio e nuovo. Il suo silenzio le fece serpeggiare un brivido di terrore giù per la spina dorsale, nello stomaco, con quel sapore rancido che poche altre volte nella vita avrebbe saputo riconoscere.

Le mani a tastargli il viso, il collo, prima che qualcosa di poderoso quanto un pugno d'acciaio non le si schiantasse sulla nuca.

Per un istante il mondo divenne bianco come luce pura, i suoni si fecero ovattati e le sembrò di sentire di nuovo quel saporaccio in bocca. Di metallo.

Il senso di nausea talmente forte da farle sperare di perdere i sensi immediatamente piuttosto che continuare a sentire quel fischio alle orecchie. Poi una sensazione, lo spostamento d'aria prima di un altro schianto.

Si mosse tanto rapidamente quanto istintivamente. Il mondo tornò dei suoi colori cupi e decadenti e un pugno di metallo andò a schiantarsi direttamente sul pavimento accanto al suo viso.

Si rese subito conto che se l'avesse colpita una seconda volta, non avrebbe avuto scampo.

Si diede lo slancio con i piedi per falciare le gambe di Bucky che cadde a terra con un tonfo sordo.

E gli si lanciò addosso, con un grido carico di frustrazione e dolore.

L'uomo fece di tutto per rispondere ai suoi attacchi, ma il respiro era ormai un rantolo esile e frammentato. La colpì a un fianco. A una spalla, sentì le ossa della mano sana frantumarsi sotto la presa feroce dell'uomo. Il colpo che le infierì allo stomaco le fermò il respiro per un lungo, tragico istante.

Ogni colpo era come se una palla da demolizione le si schiantasse addosso, portandosi via una parte di lei.

Gli affondi però cominciarono a diventare più fragili, meno sicuri. Con le ultime forze rimaste Natasha riuscì a prendere il sopravvento.

Gli fu sopra, mentre Bucky la osservava in un misto di odio e supplica. Il braccio meccanico che le si serrava attorno al collo.

Lo colpì al viso, per non doversi concentrare sulla sua espressione. Lo colpì più volte. Lo colpì con tutta la forza che il braccio meccanico di Stark poteva esercitare. Nonostante il respiro venisse meno, nonostante Bucky non la lasciasse andare. Vide il viso dell'uomo diventare una maschera di sangue e ossa rotte. Continuò a colpire sentendo qualcosa dentro di lei, rompersi in un'immensità di fragili pezzi.

 

“Siamo uguali, tu ed io, Natasha Romanoff. Tu ed io... tu e Steve.”

“Ora lo so.”

“Questa è anche la tua casa, adesso.”

 

Lo sentì esalare un ultimo rantolo, eppure non si fermò. Mentre le lacrime le scendevano copiose, lasciando lunghi solchi sul viso sporco di sangue. I singhiozzi spezzati dal respiro ormai esile.

Si fermò solo quando la presa di Bucky al suo collo venne meno. Quando il braccio metallico cadde al suolo in uno schianto secco, definitivo.

Le mani le tremavano. Il corpo tutto, tremava, mentre dalle profondità del suo stomaco un verso innaturale prendeva il sopravvento, lacerando l'ultima barriera al suo dolore.

 

*

 

Note:

Ebbene sì, credo stavolta di essere stata piuttosto… drammatica o crudele (per usare un eufemismo). Per tutti i fan di Barney mi scuso. Gli voglio bene anche io, anche se non si direbbe. E comunque… chi ha detto che sia finita qui?
Per chi si stesse chiedendo (nessuno) a che punto sia con la storia… L’HO FINITA. Sì, conclusa pochi giorni fa una volta per tutte, compreso l’epilogo. Annuncio con allegria che il prossimo è l’ultimo capitolo. E poi c’è l’epilogo. Quindi in pratica… mancano due appuntamenti alla fine. Yay.

Ma per i saluti ci risentiremo. Come al solito ringrazio i lettori silenti e non, la socia e beta Sere, con cui in questi giorni la follia Clintasha è esplosa più che mai (è ciclica…). E bon. Alla prossima!

  
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